“Cronache dalla fine del mondo” di Sara Zelda, self publishing. A cura di Micheli Alessandra

 

La fine del mondo descritta in questa straordinaria opera non è quella apocalittica descritta dalla Bibbia, l’armageddon finale.

E’ molto più silente e pertanto più insidiosa.

Avete mai sentito parlare di alienazione? E’ il male, il cancro del nostro mondo postmoderno. E’ presente e strisciante dagli anni ottanta fino a oggi.

Cosi misterioso per alcuni versi e spesso riferito al mondo bizzarro dell’arte. Solo gli artisti possono soffrirne noi uomini comuni no, ci salviamo. Eppure già in questo termine, comuni vi siete addentrati nell’oscuro bosco patria dell’alienato. Perché credetemi, artista o no nessun’ essere umano è comune. Anzi l’uomo nasce grazie alla differenza, che produce informazione, che è alla base della comunicazione. E noi esistiamo grazie a questo. L’essere umano è persona se riesce a comunicare e se si fa oggetto di comunicazione. Gli altri quelli che non sono cosi fortunati riempiono le pagine del nulla, dell’invisibilità tanto da compiere gesti eclatanti per entrare nella notizia.

E’ un discorso cinico? Forse. Ma reale.

Se un tempo esistere equivaleva a pensare, con l’avanzata della maledetta tecnologia una mente esiste se è visibile, se comunica se parla. E molto spesso pur di parlare, più di riempire vuoti e silenzi si dicono oscenità, blasfemie e “ cazzate”. Perdonatemi il francesismo.

Juditta è per fortuna un artista. Una che si sente albatros nella scrittura, ma sgraziata nella realtà vissuta. E crea anzi ratifica una dicotomia che non dovrebbe esistere. Ed è una dicotomia fondamentalmente diversa da quella del grande Baudelaire. Ricordate? Fu lui a scrivere les fleur du mal. E inserire in questa raccolta l’albatros la più sublime rappresentazione di cosa sia o cosa debba essere il poeta e lo scrittore.

 

com’è goffo e maldestro l’alato viaggiatore!

Lui prima cosi bello com’è comico e brutto

qualcuno con la pipa gli solletica il becco

l’altro arrancando mima l’infermo che volava

Il poeta assomiglia al principe dei nembi

Che abita la tempesta e ride all’arciere

Ma esule sulla terra, al centro degli scherni

per le ali giganti non riesce a camminare

 

Per il sommo poeta (perdonatemi ma per me Charles è il sommo) colui che ha la sensibilità affinata e forse esacerbata dall’ingegno è dileggiato e non compreso nel suo tempo. Abituato a solcare i cieli dell’immaginazione a terra si sente perduto, goffo e sgraziato. Ma, c’è un ma.

Baudelaire come spero sappiate vive e produce in un contesto storico preciso, ricco di disapprovazione ma anche e soprattutto di invidia. Il poeta cattivo serve. E’ necessario. Magari nessuno lo ammetterà ma, in mezzo a questo costante rifiuto della fantasia, in cui è costretto l’uomo del IX secolo, in quel reprimersi costantemente, in quel suo ricercare successo e comodità non rinuncia a trovare un paio di ali. I poeti sono temuti, venerati odiati amati. L’ordine costituito tenta di zittirli. Ma Baudelaire è come gli altri importante sia come esempio di elevazione, sia come monito a non lasciarsi andare. Fa, in sostanza, parte della cultura in un modo o nell’altro.

E’ questa dicotomia che percorre i secoli dal non devi al però quanto ammiro, invidio detesto chi può. E poi arriviamo al post moderno. Dove tutto è stato raggiunto. Dove le mode sono state sperimentate. Dove l’innovazione magico animica è stata spinta ai massimi vertici. E si inizia a parlare di decadenza. Non una decadenza artistica ma una sorta di ammuffimento di emozioni, di sensazioni, di volontà. Laddove l’uomo ha scoperto la luna, e le ha rubato prepotente quel suo magico mistero, laddove la scienza ha iniziato a sconfiggere la morte, laddove in fondo tutto è stato oggetto di ribellioni, ma tutto resta dannatamente uguale si ha la stagnazione. Della vita, di quel mondo onirico che resta l’unico raggiungibile. Come non interessa. Droga, sesso, alcol basta rannicchiarsi in quei mondi perduti, lontani per poi ripiombare in una realtà che non ci appare nostra. Una realtà staccata dalla sua profondità inconscia senza più segreti, senza più obiettivi. Alienazione. Come si fa a inserirsi in un contesto standardizzato con valori molto più rigidi di quelli posti dal vittoriano? In quell’età contraddittoria tutto era votato al progresso. L’uomo si sentiva protagonista di una innovazione, di una missione salvifica proiettando il suo ardore nella ricerca scientifico tecnologica. E per chi desiderava che questa non fosse solo forma, avevamo i nostri poeti, i nostri scrittori, coloro che osavano e che seppur lamentandosi si sentivano i ribelli per eccellenza. Noi, oggi, da cosa ci possiamo ribellare?

Da una realtà che viviamo attraverso i social? Da una serie di schemi mentali che, nonostante i numerosi shock, ancora esistono? Oggi i borderline fanno notizia. Entrano nel circuito, sono amati venerati, considerati fighi. Oggi è tutto immediatamente inglobabile nel business, più urli più vai seguito, milioni di like, miliardi di tweet…

E l’arte? L’arte è solo vendita. L’arte non è più arte. La musica non è più musica ma rumore per far si che quel silenzio non più fonte di meditazione ma sinonimo di morte, del non aver più nulla da dire nonostante si dica tutto, quel non rispetto per il dolore, buttato al di fuori di sé e voracemente divorato da altri, calpestato reso solo un fantoccio ballerino, l’amore, diventato solo un’ esterna continua un sorriso stereotipato, un continuo cambiare e un selfie che immortali il momento, dov’è va a finire la vera creatività?

Quella che va letta ma non divorata, quella che sogna ma non regala adrenalina, quella che scopre mondi ma non li immortala in un istangram. Il poeta che non fa notizia, che non compone silloge da donare al festoso festival degli zombie, senza pathos e senza poesia. Dov’è la bellezza cosi patinata, cosi standardizzata da sfoggiare sorrisi di plastica e siliconi perfetti di bambole senza anima?

L’arte è in una serie di scritti onirici che trovano nella cultura punk la loro unica fonte di sopravvivenza. Juditta è sui social ma al tempo stesso sa di essere fuori. E’ nel mondo ma non del mondo, alienata altera, ma forse per questo più reale di tanti mistificatori delle parole. In quei scritti essa non si dona si fa leggere, protegge le sue storie non le fa diventare di tutti perché troppo criptiche troppo uniche troppo judittiane. In un viaggio intenso e disturbato al pari dell’Ulysse di Joyce, Juditta si immerge alla ricerca di se stessa ma non della se stessa data in pasto al pubblico ma di quella privata, intimistica devastata ma non per questo meno viva. Juditta in questi racconti narra la distruzione di una generazione, di una volontà ideatrice diventata solo apparenza, forma, cerca di trovare il suo peculiare unico inimitabile senso di appartenenza che si coinvolge ma resti soltanto unicamente suo.

Cos’è il punk in questo viaggio di tortuosa ricerca?

 Essere punk vuol dire essere un fottuto figlio di puttana, uno che ha fatto del marciapiede il suo regno, un figlio maledetto di una patria giubilata dalla vergogna della Monarchia, senza avvenire e con la voglia di rompere il muso al suo caritatevole prossimo. »(Johnny Rotten)

Parole forti, cattive e politicamente scorrette frutto non di una mente dedita alle droghe ma di una che tenta di reagire all’omologazione, alla venerazione della coerenza che tiene in piedi teatrini stereotipati e fa del perbenismo il suo sovrano assoluto. Un perbenismo pericoloso, mascherato da ribellione. Perché come può esserci ribellione se ogni ansito di diversità è fondamentalmente incentrato e incuneato nella cultura del controllo? I ribelli di oggi sono sempre protagonisti dei mass media, comandano le mode, introducono modalità di pensiero, manipolano i nostri schemi mentali tutto ciò contro cui si scagliava il punk.

In quel periodo non si parlava di movimento ma di rifiuto, rifiuto dello stereotipo degli hippie, di certa sinistra e della destra, dei conservatori. 

Un movimento che andava contro gli stereotipi, le convenzioni, gli schemi mentali considerati obsoleti, distruttivi e sfiancanti

È decidere di fare qualcosa che non scegliereste mai di fare. È ribellarvi al vostro oroscopo, alle vostre superstizioni, alla vostra stessa identità. Il punk è rovinare la cosa a cui tenete di più, eccetera.

In sintesi: il punk è superare i vostri schemi mentali. Sempre.

Ed è questo slancio al superamento di se stessi al cambiamento che porta a essere percepito come incoerenza. Ma l’incoerenza è davvero cosi orribile?

L’incoerenza è una grande vittoria. La gente dovrebbe concedersi più spesso il lusso di infrangere i propri valori morali – purché questo, ovviamente, non faccia del male a nessuno all’infuori di voi.

In un mondo del genere la coerenza equivale a appoggiare e fortificare un sistema stantio, decadente ammuffito. Cambiare trasformarsi attraverso ogni esperimento musicale è forse, l’unico modo che Juditta ha di esistere. E esistere come persona,  non come prodotto di una società che sforna giorno per giorno modelli cosi rigidi e precostituiti da diventare prigioni di lusso. Ma una prigione ha sempre delle sbarre, che siano di metallo o di sete cosi come ci racconta l’autore Giordano Alfonso Ricci.

un libro da gustare, perfetto stilisticamente pregno di significati, con un’adorabile vene joyciana che lo rende, nonostante affronti argomenti moderni, colto e senza tempo. Uno stile che vi ricorderà quello di uno straordinario autore anch’esso eterno James Joyce a cui la nostra Mazzini si avvicina moltissimo da cui sicuramente trae la sua linfa vitale poetica.

Un viaggio letterario che non scorderete facilmente. Consigliatissimo.

 

 

 

 

 

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