È molto difficile recensire un libro come quello di Labbia. non perché sia scritto male o non coinvolgente, ma perché sicuramente parla a un lato di noi che, forse, si vuole dimenticare. Il senso di fallimento di chi vive di speranze che divengono illusioni con il passare del tempo, di quell’enfasi che mettiamo nel correre dietro al successo, all’effimero e come racconta Stefano:
esistenze frenetiche convulse. a tratti gelide prese da affanni e logorate dalla vita moderna prevalentemente vissuta tramite mezzi meccanici ed elettronici-forse alla fin fine vuote
troppo occupate a fare e non a vedere
Basterebbe solo questa cruda frase, questo estratto grondante di verità a raccontare il libro. Basterebbe solo il titolo a raccontarci del nostro disagio, di quella post modernità che ha tanto affascinato sociologici come Baudrillard, affascinati dalla tecnologia che, lungi dal concederci di vivere in serenità, ci allontana da noi stessi e esaurisce la vita dalla sua bellezza, spogliandola di ogni emozione, di ogni segreto, di ogni senso del sacro. Finché anche l’amore, la passione qual senso di meraviglia, non è altro che ripetizione stantia di gesti meccanici finalizzati a un orgasmo che lascia di nuovo vuoti.
Così siamo presi da una fame e da un’insoddisfazione, che mai colmiamo prendendoci la responsabilità o anche l’insegnamento che un evento distruttivo porta con sé, ma soltanto affannandoci a correre, a creare senza creatività, a voler emergere nel nostro ruolo invece che essere.
I protagonisti di questo libro fanno male perché siamo noi, noi cosi presi dall’apparenza da scordare coscientemente la sostanza, troppo complessa per poter essere affrontata a testa alta. E lo vediamo oggi con il network che sdogana il senso del bello, rendendolo preda di tutti, da chi vuole amare e evadere dal mondo tramite la bellezza ma anche dai lupi affamati di visibilità che con l’arte non ci azzeccano e che la usano solo per indossare un comodo smoking nuovo di zecca, per darsi un tono verso l’altro e sopraffarlo con la tecnica del non sa chi sono io. Sono tizio, sono Caio, sono bravo, sono bello e sono incompreso. Tutti sono senza essere mai. E il libro racconta questa storia amara di chi usa lo scrivere, il creare non per dare voce all’anima ma per annichilirla, per azzittirla per trascinarla con sé nel cacofonico coro di voci che gridano, perché il silenzio fa male, troppo male. Questo mondo simile a un fast food che ingurgita e poi vomita rancori, senza assorbire, senza poter vedere lo splendore di un attimo. Perché vedere fa male e ci restituisce sempre immagini che non ci piacciono.
E mentre lo leggevo, io rivedevo la differenza con quella bimba che sognava mondi fantastici, che desiderava mordere l’essenza della vita e che troppo spesso si è trovata a doversi difendere dall’apparenza di un ruolo prestabilito che non sarebbe mai stato mio. E le piccole vite, infelici di Melina Maya, Caio Marco sono tutte serve del potere, di quel potere che per andare avanti e mantenersi ha bisogno dei perdenti. Di chi soccombe per far sentire altri infelici dei vittoriosi. E tutto questo giro di orrore e dolore diventa una tragicomica commedia dell’arte che di arte non ha nulla. Esiste solo una fame incommensurabile di vita. Una volontà di scalare il mondo e dominarlo. E che invece forse si rivela solo il patetico tentativo di una vita che sfugge alla verità:
troppo occupati a creare lavorare guadagnare e non ad amare. Né se stessi né gli altri.
Leggendo il testo mi sono chiesta allora, se non è il business, se non è il mondo brillantinato che oggi vediamo, che sia letteratura o spettacolo, l’arte cos’è?
Cosa davvero ci salva dallo sprofondare?
E mi sono risposta con una parola: equilibrio e armonia.
L’arte è quella perfezione che assorbiamo dal cielo e la restituiamo a questo mondo a volte insulso solo per…Amore.
Ecco cos’è l’arte amore tradotto in parole, in colori, in suoni. Ma se noi ci spacchiamo la schiena solo per un riconoscimento, solo per una manciata di stelline, non siamo che automi di quella orrenda fabbrica di plastica, non creata da un’entità aliena crudele e beffarda, ma da noi stessi.
E se non riusciremo a comprendere davvero la bellezza nessuno ci salva. E osserveremo senza speranza una vita:
mandata a puttane e non aveva più nemmeno i soldi per poterla pagare.
Che questo libro salvi, mi salvi e ci salvi dal degrado perché i sogni sono non un diritto, ma una responsabilità non solo nostra, ma di un mondo che, privo di questa energia, muore lentamente d’asfissia. L’arte, la creatività vera che si nutra solo di piacere puro senza finalità è l’ossigeno che la mantiene fluida e vitale.
Non dissanguate i vostri doni.
Non rinunciate davvero alla speranza e al vostro essere umani.
Grazie Stefano per questo dolore e questa forza che mi hai dato leggendo e piangendo sui fallimenti che, solo ora, hanno una luce diversa, possiedono un vero scopo: quello di saper come rialzarsi senza perdere a ogni caduta una parte di noi stessi.
E di me stessa.