“Baby don’t cry”di Paola Garbarino, self publishing. A cura di Sophie Sarti

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L’amore è sapere tutto su qualcuno, e avere la voglia di essere ancora con lui più che con ogni altra persona.

Albert Einstein

 

 

La definizione di Einstein racchiude in sè quello che è il senso di “Baby don’t cry”: per quanto una persona si rifiuti di chiamare quel sentimento con il suo nome, per quanto provi a comportarsi come se non esistesse nulla al di là del sesso o dell’amicizia, non si può negare al proprio cuore o alla propria mente di provare l’improvabile.

L’amore non chiede il permesso. Mai. Lui entra di prepotenza nei nostri animi, li popola di idee e sogni, alimenta il nostro vuoto fino a renderlo colmo di sè e poi… poi sta a noi decidere come procedere.

Possiamo accettarlo o combatterlo, in nessuno dei due casi c’è una garanzia a vita che impedirà al soggetto di soffrire o di far soffrire.

Petronilla e Milo si conoscono alle elementari e da allora non si lasceranno mai, anche se non staranno mai davvero insieme.

Perché?

Per insicurezza, paura, cattivi esempi e fraintendimenti, ma sopra ogni altra cosa perché non si parlano davvero.

I due eroi in questione comunicano attraverso le battute acide, il sesso senza impegno (?) e sguardi fugaci. Tuttavia, loro non parlano davvero.

Così nella loro mente si creano scenari diversi e, allo stesso tempo, simili.

Si respingono, anzi, c’è un disequilibrio anche in questo visto che noi donne siamo così brave a tessere e ricamare sopra una frase detta, un gesto compiuto senza l’intento che noi vogliamo vedere celato tra i risvolti di parole e azioni.

È Petronilla a respingere e lo fa con una determinazione tale da confondere Milo.

Io mi chiedo: perché non parlare? Perché non dire semplicemente ciò che si prova, ciò che si sente e ciò che ci ha ferito?

Semplice. Perché tutto questo ci espone a un rischio enorme: l’essere feriti o, meglio, vedere svanire tutto il castello che avevamo abilmente costruito all’interno dei nostri pensieri. E non sempre si tratta di un bel castello, alcune volte è una casa infestata dai fantasmi, quelli della paura e quelli impressi da una realtà familiare sbagliata o distorta.

A questo si può aggiungere lo sconto che pratica la giovane età e il sangue che ribolle.

Da adolescenti e nei giovani la visione della vita è soggetta al giudizio. Giudizio che è, inevitabilmente, schiavo dell’ego e di tutte le insicurezze che popolano una vita ai suoi inizi. Filtro dopo filtro la realtà assume sfumature dubbie, subdole e si scontra con l’altra realtà, quella della persona che non sappiamo di amare, ma che amiamo alla follia.

Distorsioni su distorsioni che rendono caotico anche il più innocuo dei gesti.

Milo e Petronilla si amano, lo si evince tra le righe, con Milo che ne è addirittura più consapevole di lei, ma si combattono a suon di colpi bassi per arrivare a sbattere contro il muro che loro stessi hanno eretto.

E quando si cade, come fare per rialzarsi?

Inghiottendo i rospi o baciando il principe?

Baby don’t cry è un romanzo che porta il lettore a comprendere le ripercussioni che un vissuto e un pregiudizio hanno su un amore che sboccia. La società e i cliché ormai ridondanti rendono difficile l’essere obiettivi, soprattutto nei giovani che sono costantemente bombardati da esempi contraddittori e fintamente moralisti nei confronti di un sentimento puro e semplice che è andato, con il tempo, a compliacarsi e distorcersi agli occhi dei più.

Il linguaggio tipico della generazione alla quale appartengono i due protagonisti, rende la lettura più reale e quasi tangibile, riuscendo a far sorvolare su quei periodi carichi di avvenimenti poco utili alla storia.

Molto belle le frasi iniziali di ogni capitolo e i salti temporali che danno il giusto significato all’incedere degli eventi.

Un romanzo giovane e fresco che, nonostante piccole imprecisioni di forma, getta solide basi per un roseo futuro editoriale.

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