“Le tribolazioni di un’italiano in Cina” di Adrea Pasquale, booksprint editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Che la letteratura sui viaggi abbia appassionato ogni generazione, compresa la mia è un dato di fatto. Credo che i testi di Salgari, alla scoperta di nuovi luoghi inesplorati, attraverso mari in burrasca e lotte, spesso, crudeli tra galeoni, siano il modo migliore per sposare la propria quotidianità, immergendola in un mondo forestiero. E cosi vale per la bellezza dei testi di Verne, come l’isola misteriosa, o il giro del mondo in ottanta giorni. E vale anche per il bellissimo viaggio del “guascone” Sinbad, così avido di nuovo da spingersi fino ai confini del mondo nella raccolta profumata di spezie e mistero delle mille e una notte.

Ma il libro che più di tutti esemplifica cosa davvero sia il viaggio è senza dubbio Sulla Strada di Keruoac. Questo libro, pubblicato nel 1957 fu il manifesto di riferimento per la beat generation (il movimento beat fu un grido di ribellione anticonformista di un mondo giovanile in rivolta contro la staticità borghese) e contiene una frase che più di ogni altra identifica l’essenza della letteratura di viaggio:

««Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»

«Dove andiamo?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare».

Ecco cos’è il viaggio. È un percorso spirituale, una sorta di profonda iniziazione psicologica e etica che plasma e trasforma il fanciullo in uomo, il borghese il ribelle e l’uomo anonimo o comune in eroe. È il cambiamento che viene discusso, raccontato, spiegato da tutti questi autori appartenenti a diverse epoche e ai più disparati contesati sociali: il cambiamento

In ognuna di queste avventure, di questi spostamenti mai solo fisici, il protagonista cambia letteralmente la percezione di sé stesso e di conseguenza, della società in cui è inserito. E tutto questo, lo ri-sottolineo tramite il necessario e troppo spesso sottovalutato, incontro con l’altro.

Ecco il senso del viaggio:

Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco.

Josef Koudelka

Le tribolazioni di un italiano in Cina fa parte di questa fondamentale letteratura che attraverso una visione scanzonata, ironica e sarcastica della vita, delle nostre piccole idiosincrasie e delle quotidianità che ci appartengono riscopre il valore autentico e universale del confronto. Ed è grazie all’altro, il diverso da noi che riusciamo spesso a uscire da una prigionia molto insidiosa, fatta di abitudini e di arretratezza mentale, che esiste e ci connota, nonostante l’appartenenza alla gloriosa élite di un mondo occidentale in continua evoluzione. Forse ci evolviamo in mero senso tecnologico, forse alcuni a livello economico, ma a livello di schemi mentali facciamo tutti parte di quella descrizione della provincia molisana che è una delle chicche del testo:

 

I cambiamenti tardano ad arrivare e spesso e volentieri non arrivano mai. Non esistiamo per gli altri, ma a noi non è che gli altri piacciano poi così tanto. Non siamo quello che definireste un popolo ospitale. Guardiamo con diffidenza un viso non conosciuto o un po’ troppo diverso

Abbiamo le nostre festività, i nostri riti e le nostre processioni. Li ripetiamo fin dagli albori del tempo. Siamo tutte comari di paese. Ci piace parlare e sparlare di fatti e persone del nostro piccolo mondo

Ognuno ha il proprio metro di giudizio di come la vita dovrebbe essere, come si confà a ogni realtà provinciale che si rispetti.

Non esistiamo, dicevo. Siamo la Contea d’Italia. Ignorati dal resto della Terra di Mezzo. E ci va bene così.

Se leggete questa descrizione perfetta non ci trovate solo una regione italiana ma un intero mondo che appartiene a tutti. Tutti siamo rinchiusi nella nostra “Molise psicologica” dove ci accoccoliamo protetti come nel ventre materno, convinti che sia l’unica realtà possibile, ignorando le voci esterne come inutili e fastidiose, coscienti che l’unica verità è in quella piccolissima porzione di esistenza che mai esiste e mai esisterà. Perché mentre noi piccole formichine operaie laboriose e ottuse costruiamo felici le nostre barriere, tappiamo quei pochi spiragli da cui non sia mai potesse abbagliarci il sole, cosi impermeabile all’esterno troppo bloccata sulle sue abitudini, sulle sue storie, e sulle tradizioni assolutistiche. Sempre suo, mio, loro e mai nostro, mai di tutti, mai della collettività. Un noi e altri così netto e cosi angoscioso che bene rende il senso di chiusura claustrofobica che alcune anime sensibili avvertono.

Parliamoci chiaro. L’essere umano detesta cambiare, qualcosa dentro la sua mente lo spinge a restare sempre nello stesso punto a essere come disse quel dio della forma Jahvè colui che è. E per essere qualcosa non dobbiamo trasformarci mai. Ma per fortuna la Madre natura cosi saggia e cosi amorevole ha inserito un vero e proprio demonio dentro di noi, che ci trasforma da statue e audaci  Eve pronte e mangiare la mela e a dare uno scossone in questa grigia immobilità.

Nel caso di Brute la spinta è data dalla decadenza italiana, da quel sistema cosi marcio che tenta di strappare ai giovani anima, dignità e sogni.

Il libro si apre così, con un ragazzo reso già troppo cinico da una impari lotta per la sopravvivenza contro la sua stessa patria. Una patria che lungi da essere materna e madre diviene aguzzina e crudele. Una patria bella sì, ma persa nei sui miti di potere, persa in quella volontà di sopraffare l’altro, di escludere l’estraneo e di dominare a ogni costo rendendo tutti suoi adorabili burattini. Ecco che l’italiano diviene una macchietta da amara commedia dell’arte preso a combattere con schiavisti, con loschi figuri divenuti quasi legittimati da un potere svuotato di consenso, di senso e soprattutto privato di quel patto che deve necessariamente essere alla base della collettività chiamata stato. Quel patto, oggi in Italia non c’è. Abbiamo una storia quasi nebulosa, vecchia e invecchiata, cosi canuta da non aver più la forza di imporsi. Viviamo di vecchie glorie beandoci di un passato che lasciamo agonizzante in un angolo della mente. Tutto questo mentre il mondo va avanti. E lo scopre Brute quando per disperazione accetta di recarsi per uno stage in Cina. La Cina un mondo diverso alieno, che appare grigio all’inizio di quel disperato viaggio. Cosa usa il nostro protagonista indomito?

L’arte dello sberleffo e del sorriso, scugnizzo nell’animo irriverente Pulcinella che però ha un vantaggio su tutti noi: Brute DEVE viaggiare. Deve sentirsi vivo. Anche se questo lo porta a osservare qualcosa che mette costantemente in discussione le sue convinzioni, alle quali il nostro prode in fondo non crede. E non crede perché in fondo, ha perso tutto ed è pronto a ricostruire. E lo fa osservando l’altro, lo fa con la rabbia dei sogni infranti, lo fa con quella volontà di riscatto che non è frustrazione ma potente voce che si leva contro ogni ingiustizia. In Cina, nel mondo che sta davvero la di fuori di ogni regola sociale, lui inizia a costruire sé stesso, rompendo abitudini, schemi, leggi e morali troppo strette. Per Bruta le Cina è un camminare finalmente a piedi nudi, senza strette scarpe a impedirgli di correre. E cambia. Cambia così tanto che il grigiore diviene bellezza.

E cambia così tanto da poter osservare, finalmente la sua società, la sua amata Italia in modo ancor più disincantato:

 

Se io, Camilla e migliaia di giovani siamo stati costretti a fare le valigie e ad affrontare sfide così ostiche in paesi distanti, è perché il nostro mercato del lavoro è fermo da un pezzo.

E ancora:

 

quanto tempo passerà prima che un Butre cinese non scriva il mio stesso libro, burlandosi della nostra decadenza? Della criminalità nelle nostre strade? Delle infrastrutture che vanno giù con uno sbuffo di vento? Delle verdure velenose che consumiamo ogni giorno e che ci fanno ammalare di tumore? Del razzismo da quattro soldi che infesta il nostro quotidiano? Della nostra TV sguaiata e senza alcun contenuto? Del fatto che ci picchiamo negli stadi ma non per farci ridare indietro il futuro? Di come maltrattiamo le opere e i monumenti più importanti della storia dell’uomo? Di come stiamo diventando tristi, arrabbiati e insofferenti senza avere il coraggio di ammettere le nostre responsabilità? Delle organizzazioni criminali che tengono in ostaggio il paese intero? Della corruzione della politica a tutti i livelli? Della nostra cultura da social network pericolosa e deleteria? Dello stato delle nostre tecnologie? Dei raggiri delle nostre banche?

Vi basterebbero solo questi estratti per convincervi a fare un salto con Andrea Pasquale in Cina. E non soltanto per comprendere meglio il nostro ex bel paese, o quel paese cosi contradditorio che è il sol levante, ma voi stessi:

Viaggiare e guardare le vite degli altri è un buon modo per metterci davanti a uno specchio, e intendo tutti noi:

E cosa aiuta a guardare dentro noi stessi?

Ve lo svela un uomo che non ha scritto soltanto un libro umoristico, intrigante scorrevole e ricco di colori, ma un vero filosofo:

 

Pur trovandole strane e ridendone bonariamente, esse sono la ragione stessa per cui continuo a viaggiare. Mi ha sempre annoiato la compagnia di chi mi dà solo ragione, così come non mi è mai interessata una vita in cui tutto vada secondo piani e convenzioni prestabiliti. Non esagero quando dico che vivere la diversità e vedere cose nuove è la mia personalissima forma di sentirmi vivo e finanche di pregare. Portatemi a vedere un panorama inaspettato e le meraviglie del mondo, oppure fatemi avvicinare a gente che contraddice ogni mio credo, e in quel frangente per me sarà come connettermi al Big Bossin persona.

Ecco cosa ci manca davvero oggi. La fantasia e la capacità di sognare per potere esplorare orizzonti nuovi e realizzare la nostra leggenda personale. ci manca l’altro come confronto, troppo chiusi nelle nostre comode idee. Ci manca la voglia di mettere in discussione, la follia di rompere tutto, di distruggere sapendo che si può costruire. La capacità di salire su un’altezza facendosi beffe del senso di vertigini e comprendere la vastità di un universo davanti al quale noi siamo e resteremo piccoli granelli di sabbia:

È sempre necessario partire?

È sempre necessario sapere quando si conclude una tappa della vita. Se tu insisti a rimanere in quella stessa tappa oltre il necessario, perdi la gioia e il significato di tutto il resto. E rischi di essere rimproverato da Dio.”

Paolo Cohelo

Solo un rimprovero Pasquale. Le lacrime che mi sono scese leggendoti e ridendo fino alle lacrime mi hanno fatto venire le rughe. Sono stata presa per pazza anche dal mio gatto, quando di notte ridevo da sola come una scema.

Non si fa eh.

Un libro indimenticabile che strappa un sorriso ma stimola anche il pensiero. E oramai il sapere, pensare per me equivale a esistere. Anzi non per me. L’ho rubata dal buon vecchio Cartesio.

 

Un pensiero su ““Le tribolazioni di un’italiano in Cina” di Adrea Pasquale, booksprint editore. A cura di Alessandra Micheli

  1. Un inno a coloro che hanno il coraggio di emigrare, alla faccia di che li etichetta come semplice “fuga di cervelli”. Sono una ricchezza umana e intellettuale, che troverà enormi difficoltà di reinserimento al loro ritorno proprio da chi li ha etichettati. Corrado Leoni

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