Ho sempre avuto una grande affinità elettiva con Oscar Wilde. Il motivo non è solo artistico ma molto più profondo ed è racchiuso in questa frase:
Ah! godetevi la giovinezza finché l’avrete. Non sprecate l’oro dei vostri giorni a ascoltare i noiosi, cercando di migliorare un fallimento inevitabile, o gettando la vostra vita agli ignoranti, agli ordinari, ai volgari. Questi sono i traguardi malsani, i falsi ideali della nostra epoca. Vivete! Vivete la vita meravigliosa che è in voi! Niente di voi vada perduto. Siate sempre alla ricerca di nuove sensazioni. Non abbiate paura di niente…
Ecco il motivo. Oscar condivideva con me l’istintiva avversione per la volgare banalità che affligge la nostra era moderna, quella che porta all’abbrutimento umano del perbenismo che offuscava la tendenza verso l’ideale:
Non saranno mai queste bellezze da vignetta,
prodotti marci, nati da un’indegna epoca,
questi piedi da ciabatte, queste dita da nacchere,
che sapranno soddisfare un cuore come il mio.
Questo tempo che fugge ossessivo, che ricerca l’acme di ogni sensazione senza crederci davvero ma soltanto schiavo delle mode, della volontà di essere trendy a ogni costo, di essere al passo e spesso più avanti di ogni suo gretto simile, che tende all’accumulo più che al godimento estatico del bene. Che acclama come eroe la quantità a scapito della qualità, che si trasforma in massa e non più persona, che sostituisce sul trono l’immediatezza brillante e cacofonica del dato scenografico, più che l’armonica forma, anche imperfetta che rende la Bellezza unica e soave voce che chiama i suoi prediletti figli. Perché venerare la bellezza significa venerare la genialità:
La Bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna.
Oscar Wilde
Ecco che si diventa cultori del bello, che sia in una sonata di Debussy o di Chopin, o nelle mirabili opere di artisti maledetti come Rossetti o redenti come Botticelli, o nella raffinata arte del pensiero, beandosi di libri che hanno la musicalità eterna del suono fatto parole come Ulysse di Joyce, o l’oscura magia di un Kafka. Ecco che ci si rifugia in un modo incantato, dove ripararsi dalla banalità delle convezioni soffocanti, dei cliché facili e stantii, rifugiandosi in una perfetta e idilliaca arcadia dotata di forme sublimi da contemplare estaticamente come uniche detentrici della vera saggezza. Immaginari modi, incantati universi, dimensioni fulgide e assolate con zone di pura tenebra oscura. Ecco quali erano i miei sogni di ragazza, cosi aliena ai piaceri consoni all’età, e cosi imprigionata nelle oniriche rime di un Rimbaud, di un Baudelaire, di uno Shelley, uniche in grado di elevarmi al di sopra dell’uniforme morale comune. Questa mia sicurezza nella speciale forma della mia mente plasmabile ,mi portava a mantenere un atteggiamento ostile e snobbistico verso il mondo profano, cosi gretto, cosi chiuso, cosi falsato e noioso, cosi privo di bellezza, rifugiandomi nell’iperuranio platoniano, laddove le idee avevano ancora una purezza primordiale, disgustata dalle emozioni basse e carnali che non donavano piacere ma semmai un effimero senso di elettrizzante emozione, ma che restavano fuori dal regale castello del sublime.
Solo dopo anni, dopo essermi sporcata con la primordialità tanto rifiutata, dopo essermi immersa nel mare umano che per tanti anni avevo rifiutata, attirata dalla forza primigenia della poesia pasoliniana, riscoprii il lato umano come fonte di bellezza, riuscendo a capire che in fondo, dai perfetti diamanti, gelidi e eterni, non nascevano i fiori. E i fiori erano belli anche nel loro incessante rischio di sfoltirsi, di morire, eterni nell’attimo e bellissimi privi di vita. E solo allora riuscì a capire che:
Quel che non è leggermente difforme ha un aspetto insensibile, ne deriva che l’irregolarità, ossia l’imprevisto, la sorpresa, lo stupore sono una parte essenziale e la caratteristica della bellezza.
Charles Baudelaire
Lo stupore ingenuo dei gesti quotidiani, di una lenta ripetizione di azioni che hanno in loro il peso del tempo mi affascinò, rendendomi amante e difensore fiero della cultura popolare. Questo non significò tradire la mia venerazione verso la Bellezza, ma semplicemente trovare, in quel percorso strano e straordinario, una terza via per bearmi di essa senza rifiutare o atterrir di fronte alla materia, la vile materia, quei loschi figuri bestiali eppure così umani, quell’’incapacità di arrendersi all’assoluto, di compiere gesti eclatanti eppure così sensibili al senso di un sacro che si esprime non più nelle forme ma nell’essenza.
Perché vi racconto questo?
Perché è di questo percorso, sicuramente meno facile del mio (ma non dimentichiamoci che sono donna e che cambiare, morire e rinascere dalle mie ceneri fa parte di me) che Donfrancesco ci parla. E lo fa con la voce di un personaggio che molto ricorda il mio amato Dorian Gray, carnefice di sé stesso, incapace di integrare la propria sensibilità in un’etica che non sacrifichi il piacere. Reo di deturpare e distruggere così bene la sua anima da trovarsi solo, fino a morirne. Tancredi è cosi concentrato su se stesso alla ricerca del sublime, cerca così tanto di travalicare la grettezza che non si rende conto che nella sua amoralità, non fa altro che salvare quella morale che tanto disprezza.
E il senso di questo suo contrastante pensiero è in una frase emblematica, ma rivelatrice che ha la voce del suo alter ego (il ritratto fatto carne) Enrico.
Noi cattolici concepiamo la verticalità del mondo, concepiamo il senso dell’assoluto e della trascendenza, e lo esprimiamo non solo nelle città e nei palazzi, ma anche nei quadri, nelle opere d’arte, negli scritti, nella musica, e soprattutto nel piacere della vita!
– Su quello non può batterci nessuno – aggiunse Tancredi tra
un colpo di tosse e l’altro.
– E lo sai perché, giovane?
– Certo che lo so. Perché noi abbiamo la possibilità di peccare…
– …e perché poi abbiamo il perdono, a differenza dei protestanti… Sì, noi possiamo peccare allegramente, non siamo mica pre destinati da un Dio cieco e crudele come loro! Ricordati che dove non ci sono le regole dettate da un Dio misericordioso e dove non ci sono i suoi ministri a rivelarle, non c’è il godimento di vivere e trasgredirle; dove tutto è demandato alla coscienza individuale non c’è piacere, non c’è vera vita.
Dov’è la ribellione contro il sistema?
Dov’è il vero ribelle, quello che cambia le basi di quel vivere che sentiamo tutti noi anime nobili come alienante?
Il sociale ha bisogno dei redenti come dei peccatori, affinché gli ultimi siano redenti e i primi divengano peccatori da redimere. E Enrico, Tancredi, Flaminia e Liliana nel loro apparente distacco, sono molto più “borghesi” dei borghesi stessi, perché nel loro superare i limiti, porsi come dissonanti, come devianti danno più corpo e forma alle convezioni. Una convenzione sociale che non consideriamo vera, valida o reale non va combattuta, va ignorata. Nei loro deliri di onnipotenza, come adepti della bellezza essi divengono burattini dello stesso sistema che schifano, quello che:
Dove la furia cieca del livellamento non riesce ad arrivare coi suoi strumenti migliori come la televisione, lì ricorre alla forza, alla coercizione del diverso – del superiore – utilizzando gli psicofarmaci, armi subdole e apparentemente innocue perché non portano spargimento di sangue. L’individuo che ha coscienza di sé è il più grande pericolo di una società massificata, così bisogna far passare la sua diversità sotto le spoglie di una malattia. Bisogna curare la mente che vuole uscire dai binari,
Ma ahimè Tancredi la tua corsa è già finita prima di iniziare! Tu sei rientrato nei binari nel momento stesso in cui hai accettato, come fece Dorian Gray, il ruolo di chi si oppone e opponendosi dona forza al marciume che decade sempre di più. E’ il sole che tramonta perché non ha più la forza di risplendere, abbruttito da indifferenza, dalla corruzione e dall’incapacità di porre alternative. E’ il mondo che si inginocchia afflitto davanti alla rovina dell’arte, dell’uomo che scorda di essere fatto un po’ più grande degli angeli e coronato di gloria e di stelle. E che per dimostrarlo ha soltanto bisogno di dirselo, nel segreto del suo confessionale privato, e sentirsi, finalmente parte del tutto.
La bellezza Salva?
Se è bellezza sì. Se è piacere edonistico, fine a se stesso e non omaggio al cielo, fa semplicemente perdere la strada:
Poteva esistere una terza via per noi? – gli chiese in uno di quei lunghi pomeriggi. – Una terza via per cosa? – Per vivere.
Voglio dire che noi abbiamo sempre combattuto contro la dissoluzione del nostro mondo, ma qual era in realtà questo nostro mondo? Quale doveva essere? Il futuro, il passato, o una terza via?
abbiamo sacrificato tutto alla ricerca del piacere immediato, fine a se stesso, senza costruire nulla.
E la costruzione non è nella quotidianità, ma nel significato che diamo alla quotidianità che si deve colorare dell’anima. E l’anima è fatta di emozioni, di vita palpitante non racchiusa nelle quattro mura delle nostre illusioni personali:
Siamo costretti a crearci le nostre illusioni per sopravvivere in questo mondo dove la Bellezza e la Poesia vengono di giorno in giorno distrutte.
La Bellezza viene tradita in continuo nella nostra mancanza di follia, di arte, di empatia. Viene sottomessa al potere economico e al piacere senza etica. Viene sacrificata all’apparire diversi, sublimi e invece siamo tutti attori di una tragicomica commedia dell’arte, laddove anche il cosiddetto prescelto non è altro che un malandato attore che recita un copione.
E lo comprende con la discesa molto wildiana, verso il baratro dell’inutilità di una vita che non produce, non vibra, ma osserva con distacco e osservando mette dighe al suo fiume, affinché esso non scorra ma rimanga fermo in un’istantanea perenne. Ma un fiume che non scorre o inaridisce o imputridisce e cosi, ciò che significava libertà è soltanto una nuova catena, data dalla paura e dalla prosopopea tutta umana:
Tu non vivi niente di vero, ti costruisci tutto! Sei finto, ecco cosa sei! Amarsi non significa trascorrere insieme solo quelli che tu chiami i momenti degni di essere vissuti, un tramonto al Gianicolo, un aperitivo al De Russie, la prima al teatro dell’Opera o le domeniche a fare sesso… amarsi per me significa anche condividere le cose semplici, vere, le cose della vita di tutti i giorni
Si può vivere soltanto di sé stessi?
Si può essere uomini nelle proprie prigioni che siano di fango o di seta?
O l’uomo per sentirsi uomo deve poter salire sulla montagna e osservare quanto sia vasto l’orizzonte?
L’emozione è un fluido vitale, non può essere manipolata, forgiata o schiavizzata:
Hai detto bene. Le tue emozioni. Da solo, dentro te stesso. La vita non è solo questo. – E cosa sarebbe? Una casa felice con le bambine che si chiamano Lucrezia che cascano e si sbucciano il ginocchio e le domeniche di luglio al mare in coda sull’Ostiense con cani e secchielli al seguito? Laura scosse la testa. – Quelli sono solo i fenomeni esterni di qualcosa di molto più profondo che a te sfugge… o che ti vuoi far sfuggire. – Quel qualcosa di più profondo non gode di vita propria. Bisogna imporlo ogni giorno a se stessi. – Ti sbagli – disse lei accarezzandogli le dita – quel qualcosa di più profondo esiste veramente. E la vera forza sta nel rendersene conto, nel farlo venire allo scoperto, rischiando, sì, rischiando. Ecco, tu non hai mai voluto rischiare, Tancredi. Tu non hai mai voluto combattere per i sentimenti che avevi dentro, non hai mai voluto rischiare di trovare nuove certezze e abbandonare le tue idee sulla vita
Ed è in questa condanna tremenda, che Tancredi, l’illusione e non più uomo, crolla, restando solo un nome, una macchia sbiadita di inchiostro in un perfetto quadro di cui non farà parte, ma sarà perduto per sempre.
L’uomo che sfida ne esce sconfitto, beffato, ingannato da un demone che, ha preso possesso di ogni fibra del suo essere, condannandolo alla solitudine, al non ricordo, all’invisibilità. Perché laddove non riusciamo a porre un nostro segno, un nostro seme, nulla fiorisce e restiamo cosi fantasmi passati e presto scordati.
In un linguaggio che fonde la musicalità dei grandi autori dandy dell’ottocento, ricercati e sfrontati, con un tocco di modernità priva di quel effluvio sacrale, il testo ha una profondità resa più acuta da tale contrasto stilistico, laddove passato e presente si danno la mano senza però riuscire a decidere quale sarà il futuro di questo mondo che bistratta la Bellezza. Tancredi non riesce, come spesso l’uomo che si considera intellettualmente superiore nel suo schema mentale il lato non perfetto della vita, lo rifugge non riesce a integrarlo nella sua personale percezione. Eppure il bello è asimmetrico e armonico, è fango e rosa, è profumo e olezzo di marcio. Il bello è qualcosa di così complicato e eccelso che accoglie in se oscuro e luminoso:
La Bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna.
Oscar Wilde
e ancora:
La Bellezza ha tanti significati quanti umori ha l’uomo. La bellezza è il simbolo dei simboli. La bellezza rivela tutto perché non esprime niente.
Oscar wilde
Ed è nel suo eterno svelarsi e nascondersi che incita l’uomo a raggiungerla, portandolo sempre in un luogo diverso, in un’epoca diversa. E invece no. Tancredi resta sempre nello stesso punto, non cammina non si muove.
E seppur la sua rovina lo trascina nell’oblio, non posso non amare Tancredi e Enrico perché nella loro folle corsa la bellezza intendevano salvarla, proteggerla e renderla intoccabile. E essa risplende in questo scritto che la omaggia, come fece tempo fa il mio amato Charles Baudelaire:
Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall’abisso, Beltà? Il tuo sguardo, infernale e divino, versa, mischiandoli, beneficio e delitto: per questo ti si può comparare al vino.
Riunisci nel tuo occhio il tramonto e l’aurora, diffondi profumi come una sera di tempesta; i tuoi baci sono un filtro, la tua bocca un’anfora, che rendono audace il fanciullo, l’eroe vile.
Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri? Il Destino incantato segue le tue gonne come un cane: tu semini a casaccio la gioia e i disastri, hai imperio su tutto, non rispondi di nulla.
Cammini sopra i morti, Beltà, e ti ridi di essi, fra i tuoi gioielli l’Orrore non è il meno affascinante e il Delitto, che sta fra i tuoi gingilli più cari, sul tuo ventre orgoglioso danza amorosamente.
La farfalla abbagliata vola verso di te, o candela, e crepita, fiammeggia e dice: “Benediciamo questa fiaccola!” L’innamorato palpitante chinato sulla bella sembra un morente che accarezzi la propria tomba.
Venga tu dal cielo o dall’inferno, che importa, o Beltà, mostro enorme, pauroso, ingenuo; se il tuo occhio, e sorriso, se il tuo piede, aprono per me la porta d’un Infinito adorato che non ho conosciuto?
Da Satana o da Dio, chi importa? Angelo o Sirena, che importa se tu – fata dagli occhi vellutati, profumo, luce, mia unica regina – fai l’universo meno orribile e questi istanti meno gravi?
Grazie Orlando per questo attimo di eternità che bevo a grandi sorsi, assaporando antichi echi di bellezza.