“Fade into you” di Siro T. Winter, self publishing. A cura di Alessandra Micheli

Quando recensisco dei libri appartenenti al genere rosa, è mio dovere fare una lunga e doverosa premessa. Questo annoierà molti lettori ma credetemi, serve più a voi che a me. Prima cosa: molto spesso il genere affibbiato al libro non è esatto. Non tutte le storie impregnate sui sentimenti, o sull’incontro fisico, sono catalogabili come rosa o romance, ma spesso usano l’amore per veicolare un significato più ampio, più complesso, che appartiene al campo della crescita emotiva del protagonista. Quando l’evoluzione è predominante e si serve dell’emozione, dell’incontro con l’altro per poter portare a una coscienza matura di ogni personaggio, ci si trova di fronte non alla narrativa rosa ma alla narrativa denominata di “formazione”. E’ evidente che il genere, se ben eseguito, sfocia quasi sempre in questo campo narrativo, divenendo una componente indispensabile di ogni trama. L’intento del rosa, infatti, è parlare dell’interazione della persona con l’altro, e questo altro non può non influire sulla sua crescita. Come dire: l’amore non è fine a se stesso, ma fa parte di un più vasto processo di apprendimento che, invece di avere come finalità la comprensione del mondo, si rivolge alla comprensione della psiche, formata da lati solari e lunari, da razionalità e dall’ombra. Da conscio e inconscio. E tutto questo si sviluppa attraverso minuziose descrizioni dell’attività cerebrale dei personaggi, delle paure e delle ossessioni, che creano ostacoli, difficoltà, lungo quel cammino strano e straordinario chiamato vita.

Seppur abituati a libri di facile assimilazione, dove non serve la ricerca del significato o non serve il patto interpretativo, il vero rosa resta quello in cui un elemento viene descritto in modo chiuso, claustrofobico o ingenuo e inconsapevole, e diviene altro, un individuo maturo e sicuro di sé, scevro e libero dai suoi limiti; o, almeno, cosciente su come affrontarli. Appunto: perché riguarda la persona nella sua interezza, l’azione si deve ambientare in contesti precisi, evocativi e soprattutto simbolici: boschi o vallate se si racconta la riappropriazione della nostra instintualità, oppure l’ambiente chiuso, per esempio una casa, se si riferisce all’incontro con l’ombra e con l’inconscio o l’oscurità che si cela agli occhi vigili della ragione.

Molti dei testi più importanti sono di tal guisa: basti pensare alle lande selvagge e ombrose di Cime tempestose, o alla vita che si svolge all’interno delle ambientazioni di capolavori come Orgoglio e Pregiudizio e Ritratto di signora.

Bisogna sempre comprendere il messaggio del libro, collocarlo nel contesto ottimale per poterne parlare: altrimenti si rischia di averne una comprensione limitata e spesso imbarazzante.

Questa lunga e noiosa premessa era necessaria e fondamentale per libro in esame, il seguito di Come Miele e Neve di Siro Winter.

Ho notato come sia quasi passato in sordina e catalogato frettolosamente come “romance” e appellato di aggettivi quali noioso, troppo lungo, banale e confuso.

Sulla noia non mi pronuncio, è una questione di gusti personali. Sulla lunghezza non posso esimermi dal dare il mio personale e umile contributo alla querelle.

Quando si scrive un testo, bisogna aver presente cosa si sta facendo: è un’operazione abile e intrigante di marketing, o un mezzo per comunicare qualcosa? Nel primo caso il messaggio sarà immediato, fruibile e toccherà le corde più sensibili e manifeste del lettore, come frustrazioni, desideri e sogni. E si costruirà su di essi dei personaggi, una trama e un percorso scontato. Non sarà la visione dell’autore a darci qualcosa, ma sarà l’autore che tramite una sorta di manipolazione, ci offrirà su un piatto d’argento quello che noi desideriamo ma non possiamo avere. È la raison d’etre della pubblicità.

Comunicare, però, è un’altra cosa, e presuppone non una gerarchia ma una cooperazione simbiotica ed empatica: l’autore, tramite un codice elaborato, ci fornisce una sua interpretazione della vita, che noi arricchiremo con il nostro mondo interiore. Parlo del “patto interpretativo”, di cui tanto blatero nelle mie recensioni. Questo patto non può nascere, svilupparsi, sopravvivere, solo con i cliché, ma avrà bisogno di attingere dal calderone ribollente della psicologia, della tradizione e della cosiddetta coscienza collettiva, in cui sono conservati gli impulsi più profondi, i desideri più scabrosi e quelli più nascosti: non gli immediati, ossia i bisogni primari, ma le radici non logiche delle nostre azioni. Non sarà la ricchezza a essere protagonista, quanto la ricchezza come compensazione di una mancanza. Non sarà il sesso, ma la volontà di sentirsi vivi attraverso il piacere dell’orgasmo. Non sarà la gelosia, ma l’insicurezza causata da rifiuti, ferite e senso di inadeguatezza. E siccome siamo stati benedetti da una lingua ricca e musicale, l’autore bravo, l’autore di talento, giocherà con essa, creando pura poesia fatta prosa. E sì, capiterà che ci saranno pindarici voli – contorti ma incredibili – di pensiero, di punti di vista repentini, di riflessioni e di concetti. E questo non per allungare il brodo o farsi belle con le pagine, ma perché quando si parla di crescita, va fatto a 360 gradi. Non ci si deve limitare a scarne descrizioni, ma si può giocare e arricchire, essere ridondanti e utilizzare un linguaggio aulico, cosi come il nostro bell’idioma ci consente.

Banalizzare un testo come “troppo lungo” è limitante. Non per l’autore, ma per voi lettori, considerati incapaci di esaltare il pensiero, fruitori esclusivi di una letteratura pret-a-porter che svilisce ogni senso umano, ogni afflato di bellezza e ogni tradizione culturale che ci ha oggi contraddistinto. Imparate il valore del tempo leggere, del tempo che si dilata, e sostituitelo con la frenesia del tutto subito. Ne trarrete giovamento.

E ora, eccoci al testo in esame, nonostante ne abbia già ampiamente parlato in questa premessa.

Come Miele e Neve e Fade into you, appartengono alla linea del romanzo di formazione e incentrano tutta la trama nella crescita. In come Miele e Neve abbiamo assistito al percorso di redenzione di Lou Lucia che diventa ai nostri occhi, il simbolo di ogni donna emotivamente infantile che lungi dal poter vivere sé stessa in piena libertà, cerca un appiglio a cui aggrapparsi per galleggiare, nel tumultuoso mondo dei sentimenti e delle emozioni. Lou è ferita. Lou è spezzata. Lou è la donna che ognuno di noi si trova a dover vedere allo specchio, quando per la prima volta, una ruvida carezza, che scambia per amore, le ferisce l’anima. È la sorte delle eroine di ogni fiaba, candide e quasi immacolate, che si trovano davanti al Barbablu di turno.

E cosa fa questo “mostro”?

Le contagia con il suo egoismo, fino a convincerle di non valere molto senza un uomo, di essere poco meritevoli di stima, di essere appetibili solo se in grado di restare a lungo bambine, senza mai dare uno sguardo alla loro stanza segreta, devastata, piena di macerie o peggio, dei cadaveri spezzati dei sogni, delle aspirazioni, delle capacità creative, considerate scomode in una donna. Ecco che Lou, emblema di ogni donna, tocca con mano l’abisso appiccicoso di un sentimento spacciato come amore e che è, invece, dipendenza. È solo con il suo rifiuto di “vivere” chiudendosi in casa e cercando i pezzi di se stessa che può avere una possibilità.

Ma una volta davanti a questi frammenti, cosa bisogna fare?

E allora Siro inserisce l’elemento fondamentale: l’amore. L’amore arriva nella forma di un uomo apparentemente simile a ogni luogo comune, ma che in realtà è specchio esso stesso del male che affligge Lou: la perdita dell’io. Vilhelmi. Entrambi, sono alla ricerca di un sorso di aria pura, entrambi hanno bisogno di un collante che riassembli la loro anima. Consapevoli che una volta ricomposti saranno cosi alieni alla loro antica immagine da dover faticare per fare di nuovo amicizia con una percezione completamente e totalmente diversa.

Ed eccoci alla seconda fase del percorso, quello che dopo aver trasformato Lou in donna, la deve far conoscere all’altro lato del cielo il suo Vilhelmi. In questo caso la lotta intensa che si dipana in queste strabilianti pagine riguarda il viaggio che l’uomo fa quando deve riconoscersi e rinominarsi una volta avvenuta la disgregazione e la ricostruzione del suo io. E’ un percorso alchemico molto complesso non tanto per le fasi che attraversa, quanto per la presenza di resistenze forti e granitiche che sono presenti nella tendenza umana a autoconservarsi, e per farlo bisogna evitare di crescere e restare colui che si è.

È questo che succede quando si evolve, ci si scontra con l’immagine antica e quella nuova, così diversa da causare disagio e terrore, perché lontana da quella conosciuta, rassicurante seppur foriera di dolori e disagi profondi. L’ignoto spaventa, spaventa quell’incapacità di lasciare che il flusso della vita segua il suo naturale corso, invece di abbandonare quello imposto da noi stessi, dalla società, dalle nostre aspettative. Il cuore è selvaggio. Ciò non significa che sia esonerato da aver delle regole, ma che quelle regole non sono a noi familiari, bensì appartenenti a una storia scritta nel DNA più profondo, fatta di istinti, intuito e mondo sottile e numinoso. Il cuore batte perché è il tamburo che scandisce il nostro tempo, perché è il suono che dà origine alla nostra capacità di sbrogliare il filo ingarbugliato del nostro destino, dei legami profondi tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, tra noi e quella compagine sociale, tanto aliena a noi stessi, ma cosi necessaria alla sopravvivenza umana. E la società, per sua natura, tenta di usare quei fili non per tessere splendidi arazzi, ma per imprigionarci in una rete di sottili divieti, di sottili convenzioni, comode e rassicuranti, tanto che non desideriamo uscirne.

È il caso di Villehmi.

Se Lou è alle prese con l’età della consapevolezza della sua profonda femminilità fatta anche di morti, di distacchi e di solitudini necessarie a fare amicizia con il nuovo io, per l’uomo la ferita profonda è quella legata più che altro al suo ruolo, non solo sociale, ma di genere. Vil non è l’eroe dannato di tanti libri. È un uomo distrutto che cerca rifugio come tanti prima di lui, nei paradisi artificiali dell’ebbrezza alcolica. È un uomo che si bea di un potere apparente, che alimenta l’ammirazione, la volontà di possesso, ma quasi mai amore. Perché l’amore, come direbbe Gibran, presuppone la volontà di prendere la persona, spogliarla di ogni suo orpello, di ogni sua posizione anche sociale, e restituirlo indifeso e puro all’occhio dell’altro. Pur odiando il personaggio in cui esso stesso è prigioniero, Vil ci si sente quasi protetto, un bozzolo da cui escludere ogni responsabilità o impegno. È un trascinarsi, un sopravvivere, un aggrapparsi all’immagine creata dalle aspettative degli altri, alla sua potenza verso un dono creativo che è oramai, solo di facciata. Usato non più per esprimere la sua anima, quanto per azzittirla. Immerso in un coro di vociante ammirazione che a furia di non vedere la sua anima profonda, lo convince che essa non sia necessaria.

Entrambi sono dipendenti, chi dal possesso, chi dal suo ruolo. Ed è solo grazie al loro incontro che riescono a entrare in comunicazione, permettendo all’uomo di essere ritratto dell’altro, delle paure create da fallimentari esperienze. Ma crescere assieme significa anche perdersi. E perdersi è un ritrovarsi, un cambiare la prospettiva del discorso, un farsi cosi male da distruggere ogni alibi, ogni muro, per sfaldare ogni pregiudizio, ogni stereotipo, ogni timore. È solo nel perdersi che si riconosce il valore dell’altro. È solo morendo di dolore che si trova il coraggio di affrontare davvero la vita. È solo sostando nell’abisso che si impara a seminare fiori e a restituire a un ambiente oscuro e tetro un po’ di sole e colore.

E questo importante percorso umano è simboleggiato dalla casa, luogo per eccellenza della crescita della propria psiche, ai vari livelli simbolo di chiusura ma anche della tradizione dei valori più importanti: il focolare, la sicurezza contro la bufera che fuori imperversa, il calore contro il freddo di un gelido inverno. È un contrasto intrigante e soave, così da poter davvero rendere onore alla difficile strada che i due dovranno percorrere, amare senza dipendere, amare senza attese, amare senza lasciarsi condizionare dalle proprie mancanze, senza ostacolare e manipolare quel cuore che, lo ripeto, deve rimanere selvaggio.

Oh, cuore, cuore, cuore

Noi viviamo fantasticamente insieme

Vieni da me, cuore, vieni

Scuoti la mia vita

Vieni da me, cuore, vieni

Scuoti la mia vita

Marcela Morelo

So che la mia analisi potrà sembrare complessa ed eccessiva. Ma un libro è questo: è diamante dalle mille sfaccettature, cattura la luce e ci regala colori incredibili e brillanti. Cambia e si trasforma, prende e assorbe ogni emozione e al tempo stesso restituisce tutto ciò al lettore. I sogni acquistano nuova linfa e nuove ali, ogni parola diviene altro, comunica e racconta, storie su storie si svelano agli occhi increduli. E autore e lettore viaggiano assieme quasi attraversassero con un balzo fatato la linea di confine tra le dimensioni. Il mondo ci appare totalmente ribaltato, quasi alieno, estraneo seppur affascinante. Ogni pagina è una rivelazione, e la lettura procede quasi pigra, mentre l’anima assetata beve le parole come se fosse refrigerante acqua limpida di torrente.

Ecco cosa deve donare un libro. Essere una scoperta da assaporare lentamente, estranea alla fretta e al consumo ossessivo. Aliena alla standardizzazione del pensiero. Totalmente in disaccordo con la volontà del “tutto subito”. La letteratura è un viaggio e nel viaggio non è importante soltanto la destinazione ma il paesaggio che sboccia all’improvviso riempendo i nostri occhi di poesia. Ecco cosa rappresenta il libro di Siro.

Lasciatevi prendere per mano da Lou e Villehmi, cercate di ascoltare con i sensi questo vibrare, questa voglia di uscire da voi stessi e di prendere, finalmente a morsi la vita: Siro avrà avuto il suo vero successo.

 

2 pensieri su ““Fade into you” di Siro T. Winter, self publishing. A cura di Alessandra Micheli

  1. Io davvero non so cosa dire dopo questa… Chiamarla recensione è riduttivo. Quando un autore viene smantellato, stanato e infine, capito attraverso le parole e quello che c’è di non visibile nel mezzo, può dire di aver raggiunto lo scopo. Che è quello di toccare la vita delle persone: non importa se per la sola durata della lettura del libro o per un tempo più lungo. Non sempre si raggiunge, non sempre si arriva al cuore. Ma quando lo si fa, come in rari casi (e questo è uno di quelli) la soddisfazione ripaga per tutto il resto. Grazie mille… Solo grazie non basta, a volte. ❤

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