Lettera al mio Dio. Riflessioni sulla religione, sulla libertà e sulla conoscenza. A cura di Alessandra Micheli

 

Cos’è la religione?

Difficile comprenderlo, persino analizzare questo fenomeno che sembra connaturato all’uomo stesso. La religione è quel sistema di pensiero nel quale, volente o nolente, tutti noi siamo stati cresciuti. Magari alcuni sono andati oltre, altri lo hanno abbandonato in favore di un sistema più razionalistico, ma comunque per un periodo di tempo più o meno lungo, il contatto c’è stato, ci ha sfiorato e ci ha forse condizionato.

Quella più diffusa è risalente a parecchi millenni fa, nata in una terra lontana, in seno a un popolo che è stato, invece, protagonista  della nostra storia recente.

Cristianesimo lo hanno chiamato.

Dicono sia erede diretto o perfezionamento dell’ebraismo.

Perfezione, assolutismo, sacro.

Il termine poco importa.

Tutto ciò che ci donano queste radici è una sola certezza: Noi siamo nel giusto. Noi abbiamo la chiave del paradiso. Noi grazie al Cristo ci salveremo. Gli altri forse chissà per un atto di grazia…

E’ una parola sola che echeggia nelle nostre menti: Noi.

Non loro, solo Noi.

Come mi sento?

Difficile dirlo.

Io cresciuta entro i limiti del concetto di Dio, di Noi, di popolo eletto, non sogno altro che la fuga. Di andarmene oltre questi limiti. Limiti imposti dall’uomo, non dalla divinità, quale essa sia. L’uomo che l’ha creato a sua immagine e somiglianza.

Sono cresciuta con il Padre è ho imparato, o sono stata costretta ad imparare ad amarlo, amando il limite, l’essere a cui hai dato consistenza.

Nei libri della genesi si parla di due volti di dio: Jhavè il Dio del limite, colui che crea l’essenza, la forma che sembra una forza che va oltre che si rinnova in un ciclo infinito, partecipe dell’essenza stessa della creazione. Da una parte il Dio che ha dato consistenza al puro soffio divino. Dall’altra un Soffio Divino, una specie di grazia che fa parte di noi, la sentiamo dentro le ossa come una brezza di vento fresco.

Eppure è stata proprio la forma che ci ha permesso, in fondo, di godere fisicamente del sole, della terra, delle dolci acque, in cambio della libertà, della saggezza, del cielo che sarebbe rimasto suo esclusivo domino.

Eppure senza l’altro elemento, la Grazia, queste cose non ci avrebbero toccato l’anima, non  avrebbero custodito, in una parte di noi stessi, il sogno di raggiungere  proprio quel cielo da cui ci sentivamo esclusi. Da lì gli sforzi per capire il cosmo, per appropriarci delle sue leggi, di osservare, anche solo un istante il volto della grazia oltre l’essenza. Corpo e anima, a volte divisi a volte uniti ma sempre tendenti a raggiungere quel sorso di eternità.

Perché allora mettere solo la forma sull’altare della venerazione?

Perché soltanto il limite viene adorato?

Perché temere l’altra parte di noi?

Perché non raggiungere mai quell’unità che è necessaria tra tensione, opposizione e collaborazione alla vita stessa?

Perché è proprio la Vita, fatta di crescita, la conoscenza, ricerca, sogno e anelito, è più forte di ogni limite.

Si è risvegliato qualcosa in me.

Questo qualcosa ha desiderio forte di creare, di andare oltre non solo con lo sguardo. Lasciarlo svanire è un delitto, così come è un delitto abbracciarla solo in onirici viaggi. Perché l’afflato al divino non è sogno, misticismo, ma realtà dell’uomo.

Abbandonare allora il conosciuto per l’ignoto non è morire?

Non fa paura quel buio della coscienza?

Non fa paura la morte delle certezze?

Ma io sono donna e  la morte non mi ha mai fatto paura. Perché la morte come la vita è racchiusa dentro di me e mi nutro costantemente del suo mistero. La morte del sè, la morte di un volto, non è la morte dell’anima. Quella avviene solo con il continuo inutile, odioso ripetere delle convinzioni senza passione, senza verità, delle frasi fatte imparate a memoria che mancano di linfa vitale.

Mangiare il frutto proibito è conoscere l’origine, il luogo, la natura della vera dimora dell’uomo. Lì in quell’orizzonte il cui confine è solo un’illusione.

 Hanno insegnato le storie, i miti, i racconti del Dio degli eserciti, della gloria, del Potere, della Punizione e della Ricompensa. Di una fede che implicava solo lo sforzo di credere, la dolcezza, la tranquillità di chi si lascia guidare. Riti semplici, a volte ingenui,  in cui il cuore trovava pace in una non conoscenza.

Ma non era pace, era oblio.

Sembrava bello essere parte della tua chiesa. Bastava solo dire si, chiudere gli occhi e delegare al sacerdote ogni scelta e responsabilità.

Ma la vita non si delega.

Gli occhi non si chiudono.

E le orecchie non possono tapparsi

E l’anima non può addormentarsi.

Dotata del potere di creare, di dare i nomi, di far esistere, essa urla e chiama. E la dolce tranquillità non attenua il suo richiamo disperato.

Era facile credere ciecamente alla Verità assoluta. Guardare un diamante dalle mille sfaccettature illuminato dal riflesso di una luce immensa, fa male.

Quel senso di eternità spaventa. Allora è più facile accontentarsi e dire: sono solo un uomo.

Ma io sono stata creata dalla stessa sostanza di Elohim. E dentro di me c’è il soffio divino. Un soffio che mi spinge, a volte dolcemente a volte in modo brusco, a seguire la mia natura.

A mangiare quella mela proibita.

A nutrimi di crescita e conoscenza.

Mangiare quella mela non è peccato ma dolore. Dolore perché forse, si  perde il calore della tranquillità, della ripetizione, del conosciuto per inoltrarsi attraverso i mille volti dell’ignoto. Significa uccidere ciò che ero per far nascere ciò che sono.

Oggi è tempo di andarmene.

Tu dio del limite nascondi l’altro tuo volto. Io ho bisogno di quel volto. Questa mia fame è più forte del dolore di perdere la mia identità.

Per quell’identità che non ho mai avvertito come mia, ho snobbato gli altri, coloro che si ponevano fuori, coloro che si distinguevano da noi, coloro che sceglievano di dare altri significati alla vita, coloro che non si inchinavano davanti al nostro sacro.

Nostro e loro.

Così viviamo.

Pieni di compassione verso chi non comprende. Li guardiamo con sufficienza, con superiorità.

Li osserviamo sapendo che non sono eletti.

 Ma ci mancano questi altri, riflesso del nostro volto. Ho bisogno di quegli altri che dovrei snobbare.

Non posso più trattarli come se fossero un errore.

Non posso più seguire solo una verità.

Perché forse sbagliamo a scegliere di non vedere, non sapere, non conoscere. Forse sbagliamo a non nutrirci di vita e di conoscenza. A non usare il potere del nome per chiamare la realtà con un altro nome.

Abbiamo paura.

Perché crescere significherebbe perderti.

Perdere ciò che fino a prima era così facile.

Ma per me è giunto il tempo.

Forse è dolore dirlo.

Sento che la nuova vita, quel salto evolutivo che aspetto da tutta una vita, è più forte anche dell’amore per Te.

 

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...