Cosa vogliono le donne?
Fu questa una delle domande che angustiò uno dei più grandi psicologi dell’era moderna, forse contestato, forse superato da Adler e Jung, ma che indubbiamente ebbe un grandissimo peso in quella che è oggi una minima comprensione della nostra mente. Eppure, lui che indagava sogni, inconscio, che studiava totem e tabù, a questa domanda non seppe proprio rispondere.
A una prima osservazione essa appare semplice, quasi scontata. Peccato che quando con prosopopea si tenta di darne risposta, ci si trova spaesati, increduli e anche arrabbiati con se stessi.
Come? Filosofi che hanno indagato i grandi temi dell’umanità non sanno rispondere?
Eppure è proprio questo il dato di fatto, su cosa vogliono le donne si possono tentare giri di parole ma una risposta dotata di senso e significato non è stata ancora data.
Al posto di Freud, però, hanno tentato registi con il film di What women want con Mel Gibson, anch’esso pieno di stereotipi, saggiste come Viky Noble o Margaret Starbird, oppure libri come quello di Laura Fiamenghi.
Ma la risposta non è semplice, né esaustiva, unicamente perché si tende a sottovalutare, anzi a ignorare il concetto stesso di donna.
Come si può indagare su cosa essa vuole se non si sa neanche cosa significhi donna?
Senza accordarci o riflettere sul significato della parola donna non è possibile individuare i desideri reconditi di quell’essere vivente così identificato, proprio perché è una parola evanescente, irreale, finché non la si rende corporea cercando di delinearne i confini. E che possibilmente essi non siano significati stereotipati o pregiudizievoli. Finora, che io ricordi, l’unica studiosa che ha tentato una vera definizione è stata la mia adorata Simone de Beauvoir che ha, a parer mio, inaugurato gli studi di genere, quel gender che oggi terrorizza più del vecchio uomo nero o del mostro dell’armadio. Le restanti idee sulla donna sono date dai mezzi di socializzazione, quali la famiglia, la scuola e i media.
E questa reiterazione di antichi pregiudizi divenuti concetti e valori danneggiano notevolmente la ricerca che appare necessariamente limitata a legittimare una tradizione sul genere oppure labilmente contestata senza che, la contestazione, produca una vera e propria alternativa. La donna o resta confinata nei rigidi canoni del dominio patriarcale (badate bene patriarcale non maschile) o tenta di liberarsene prendendo come riferimento quel modello, reso indossabile da questa donna che è e resta una patetica caricatura dello stereotipo maschile. Ecco cosa succede al femminismo di oggi. Incapace di elaborare una vera alternativa semantica e valoriale, si accontenta di abitare in vestiti accettati dalla società, rendendosi maschi, o peggio ancora di genere indefinito e transitorio. Ecco il problema dei pregiati studi di genere. Essi, indagando sui modelli e suoi ruoli che la società elargisce loro, ne resta sottomessa e quasi influenzata, tanto da proporre come ultimo disperato tentativo l’annullamento del genere fondandosi su una vaga e inquietante eguaglianza, dove annientando tutte le differenze, costruisce burattini resi ancor più schiavi da una democratizzazione distruttiva dell’essere umano. Tutti uguali eppure nessuno fatto persona.
Lo studio di genere invece deve aiutarci a focalizzare cosa sia stato richiesto ai maschi e alle femmine biologiche per rendere equilibrata la società caricandoli di aspettative, di idee su se stessi e di limiti che non concorrono a sviluppare una comunità solida e feconda, ma una sorta di triste fantoccio che, lungo i secoli non fa che perdere pezzi di consenso e di identità, divenendo un fantasma macilento tenuto a vita forzatamente dai Frankenstein della socializzazione. Appreso oramai che la nostra cultura è morente, sarebbe giusto proporre studi seri, concentrati sulla persona più che sui ruoli, affinché il suo sviluppo sia foriero di energie e innovazione e non sia una reiterazione di concetti oramai marci.
Ed ecco che, quando meno me lo aspetto, arriva un pregiato studio da una casa editrice come la Effatà che, nella sua impronta cattolica, è l’unica che agisce con un’onestà intellettuali invidiabile. Questo studio, perfetto organizzato, e soprattutto dotato dei giusti strumenti di indagine, mi ha piacevolmente stupito. Non ci troviamo davanti un’autrice fissata per la new age, piena di velleitarie idee su una superiorità femminile rispetto alla maschile, rea di portare ulteriore disequilibrio in una situazione già compromessa, ma si serve di strumenti scientifici atti a comprendere cosa significhi davvero Genere e ad apportare, tramite lo studio dei mass media, cambiamenti necessari affinché la persona possa esprimere il suo io profondo in armonia con il suo sesso senza i limiti imposti dai nostri timori e dalle nostre paure. E lo fa servendosi degli studi di semiotica ma anche con l’aiuto di un valido Vladimir Propp, il primo che comprese quanto le fiabe, le storie e persino i miti fossero agenti o di cambiamento o di stasi.
Indagando sul significato sociologico e culturale delle storie Disney, quelle che in fondo hanno influenzato i nostri sogni di bambine, ricerca i contenuti che la società proporne come femminilità giusta e femminilità malvagia, ma anche la necessaria evoluzione che da Biancaneve amorfa ed estremamente e patologicamente assertiva, ha portato a una Rapunzel tutta dedita al concetto di libertà personale ma soprattutto emotiva.
Quest’evoluzione ci dà gli strumenti per ripensare all’idea di donna staccandola quasi dalla schiavitù dei concetti fissi, così alieni alla nostra vita biologica tutta incentrata, come direbbe Gregory Bateson, al cambiamento costante per il raggiungimento di un equilibrio omeostatico.
Il testo è colto, pieno di intriganti cenni bibliografici di libri fondamentali come il secondo sesso, o dalla parte delle bambine o ancora con il caposaldo della semiotica come Greimas. Ecco che per la prima volta, uscendo dai corridoi delle università, entra una delle discipline più intriganti nel raccontare un evento importantissimo e attuale come lo studio del genere biologico/sessuale ossia la semitoica.
Come dice l’autrice essa è:
una disciplina forse non molto conosciuta al grande pubblico, ma che anche le persone non addette ai lavori, nello scorrere del testo, potranno apprezzare per quanto è in grado di mettere a fuoco. Non è necessaria molta scienza, infatti, per avvertire che tra Biancaneve e Rapunzel ci sono differenze abissali; ma occorrono invece strumenti adeguati per individuare, di queste differenze, snodi cruciali e peso specifico, come per misurarne la forza argomentativa, comunicativa e persuasiva.
La semiotica, in breve, non è altro che lo studio che indaga i segni e i modi con cui questi acquistano senso (significazione). Il segno è in generale qualcosa che contiene una sorta di riferimento ad altri concetti tipo la luce rossa del semaforo che indica uno stop, o il caduceo su un’insegna che indica una farmacia. Questo presuppone che esiste un legame tra il segno materiale e il concetto che esso esprime per noi fruitori di una determinata cultura e ogni volta che si avvia questa relazione si attiva anche il processo di comunicazione e l’azione relativa all’acquisizione di questo senso: il semaforo indica stop, quindi io arresto l’auto.
Nel caso delle fiabe si apprendono, dunque, concetti inconsci su cosa siano o non siano i comportamenti socialmente accettabili. Una volta individuato questo mondo segreto, è possibile esercitare diverse azioni che vanno dall’accettazione, alla discussione e persino al proporre modelli alternativi.
È questo che il saggio di Cristina Vangone si propone di fare, rendere noi tutti consapevoli dei processi di formazione della cultura sul genere ed eventualmente valutare come possano essere poste in una relazione sana con la profonda psiche totale (ossia lato conscio e lato inconscio) della persona che non è più solo donna o uomo ma interamente un essere umano complesso e sfaccettato. Ed è questa sua complessità, che intersecandosi con la differenza, porta al costante rinnovamento della società.
Oggi questo non avviene. Usiamo i concetti non più come se fossero “mappe” ma come se essi rappresentassero il territorio stesso.
Questo mio scritto trova ragione d’esistere nella convinzione che ogni prodotto mediale si faccia, in realtà, sia «specchio della società», sia «produttore del discorso sociale». Essi, infatti, riproducono indubbiamente immagini e porzioni di realtà (rendendo necessaria una verifica sistematica dell’adeguatezza delle rappresentazioni di fronte allo stato effettivo delle cose), ma nello stesso momento contribuiscono anche a plasmarla, ricostruirla, rafforzando la circolazione di determinati valori sociali piuttosto che altri. Per questo, avere un occhio vigile nei confronti delle immagini che vengono trasmesse e proposte al pubblico risulta doppiamente importante. E lo diventa forse ancora di più se il pubblico in questione è costituito da bambini e bambine, che si servono spesso di tali rappresentazioni per attingervi modelli con cui confrontarsi e immedesimarsi, nel processo che li e le conduce alla crescita e a sviluppare la loro personale identità, tra cui anche quella di genere.
A cosa può, dunque, servire leggere questo libro che racconta l’immagine femminile attraverso dei cartoni Disney?
Oggi è un momento storico molto complicato. Il concetto culturale relativo alle aspettative uomo/donna stanno subendo un crollo costante e inevitabile, i ruoli non sono più così netti e le rivendicazioni femminili relative a pari opportunità e pari diritti sono sempre più rumorose. Questo porta a una perdita costante di quella sicurezza sociale che definiva gerarchicamente i generi, ponendo il maschile come unico e costante referente e protettore ma anche in un certo senso schiavizzando il femminile. Non è un caso che il termine femminicidio, cosi abborrato dai più, divenga purtroppo realtà. Si parla di femminicidio prendendo consapevolezza di una costante ed effettiva volontà di rendere debole e vittima proprio l’altra parte del cielo, rendendo reale una situazione millenaria e spesso legittimata persino dalle leggi di uno stato (ricordo che in Italia il diritto di voto alle donne si ottenne soltanto nel 1946 mentre il delitto d’onore fu abolito soltanto nel 1981). Questa presa di coscienza, non piacevole della situazione femminile, ha aperto la strada anche a studi su cosa davvero possa e debba essere la donna, liberandola anche dalle rigide convezioni che ne regolavano sessualità, aspirazioni e persino capacità lavorativa. Oggi le storie tragiche di donne seviziate prima con le parole e con i concetti, con l’immagine e poi con pugni e calci fino al sacrificio estremo della loro vita in cambio di quella sicurezza dell’amore a ogni costo, vengono portate all’attenzione degli spettatori.
Ma, ed è uno dei limiti di questa ventata di novità, c’è ancora molto da fare nel decostruire la vecchia immagine della Biancaneve nell’immaginario collettivo. Ne è dimostrazione la cecità anche di alcune donne nel rendere omaggio alla violenza come unica fonte di piacere, alla sottomissione di sé stesse allo status sociale del maschio o alla sua ricchezza. Lo dimostra la resistenza del pregiudizio verso la donna che vuole tradire o ritrovare il proprio io più profondo nella liberazione della sua sessualità. Né è esempio l’incapacità di cogliere appieno il senso della denuncia posta nei libri che il lettore a rifiutare la violenza anche quando si descrive una donna scomoda, dedita al suo personale egoismo e magari punita dal compagno. Finché leggerò commenti in cui le donne, lungi dal rifiutare in toto la violenza, la giustificano perché “lei è così antipatica che non posso provare compassione” non mi sentirò di vivere in una società pienamente evoluta. È in questi atteggiamenti che pongono i valori sociali, le convinzioni, i tabù morali o religiosi prima dell’uomo stesso che rendono oggi la strada scelta da Rapunzel quella della libera espressione di sé stessi tanto ardua.
Ecco perché oggi non posso che gioire davanti a questo saggio, non posso non congratularmi con l’autrice sì, ma soprattutto con una casa editrice che, pur avendo una notevole impronta valoriale e anche perché no, ideologica, la mette da parte preferendo indossare gli occhiali della scienza e rendere unica vera guida nella scelta dei testi l’etica del valore umano, rendendo vivo e materiale quel concetto che, seppur profondamente laico, considero il vero e unico valore etico possibile:
Perché l’uomo è più importante del sabato.
Solo considerando l’essere vivente più importante di ogni filosofia e ideologia si potranno creare libri come questo dotati di una vera etica e di una rivoluzione ontologica ed epistemologica di cui, oggi, si sente tanto la necessità.
Da parte mia si sviluppa un orgoglio smisurato per essere stata scelta da questo editore per poter raccontare libri che davvero possono rappresentare una giusta e SANA rivoluzione, nel panorama culturale di oggi, in grado non di strappare parti della nostra cultura ma semplicemente di affrancarla da sconsiderati timori e da una patologica tendenza al dominio.