“Senza fili” di Edoardo Guerrini, Salvatore Insenga editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Ascolta
ero partito per cantare
uomini grandi dietro grandi scudi
e ho visto uomini piccoli ammazzare
piccoli, goffi, disperati e nudi…
Roberto Vecchioni

 

Non sono una patriota, anche se amo il paese che mi ha dato i natali.

Lo amo nonostante sia una vecchia signora barcollante, dalle mille rughe, solchi lasciati dalle lacrime di tanti sogni infranti.

Non sono una nazionalista.

Per me conta essere cittadina del mondo, ma per esserlo devo avere un punto di partenza, tradizioni da contestare, valori da scartare e valori da cui ripartire per costruire qualcosa che si possa definire uno Stato degno di un essere umano. Sono un’idealista.

Nonostante la mia visione lucida di tanti accadimenti, ho ancora la fanciullesca speranza che un giorno, lontano, non importa quanto, la civiltà possa essere davvero civile.

E non è un gioco di parole.

Perché nonostante il nostro glorioso passato, ci sono troppe ombre, troppe bugie, troppe lacune, troppa omertà.

E sono questi fatti, ignorati e dimenticati davanti a un pallone che fa goal in un mondiale, o a un reality che passano tutti i giorni alla televisione, che rendono vive e concrete le bellissime parole di De Gregori:

 

Viva l’Italia
L’Italia che non muore.
Viva l’Italia presa a tradimento
L’Italia assassinata dai giornali e dal cemento
L’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura
Viva l’Italia
L’Italia che non ha paura.
Viva l’Italia
L’Italia che è in mezzo al mare
L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare
L’Italia metà giardino e metà galera

 

Sarò davvero orgogliosa di essere italiana, quando sbroglieremo i fili intricati di un lungo passato che profuma troppo di eversione, potere e intrigo.

Sono fiera della mia Italia quando leggo libri come quelli di Edoardo Guerrini, in cui traspare quella voglia di non arrendersi e di prendere per mano la propria storia, avere il coraggio di guardarla negli occhi, tenerle testa, tenere lo sguardo fermo davanti ai tanti, troppi orrori e partire in cerca di un altro Stato, che sia sempre più un patto tra tutti i cittadini e sempre meno giardino dei balocchi dei poteri forti.

Sono persone come Guerrini che hanno “le palle”, mi si consenta il termine poco consono al mio modo di scrivere, che sollevano il velo e ci indicano il marcio. E noi tutti dobbiamo essere grati ad autori cosi, per il loro impegno non solo sociale ma umano.

Cosa ci racconta “Senza fili”?

Una delle più patetiche e tragiche scene che per troppo tempo hanno abbruttito gli schermi delle nostre TV: la strage di Portella della Ginestra, l’antesignana degli orrori che iniziarono nel 69 a piazza Fontana e culminarono con l’omicidio di Falcone e Borsellino.
Conoscete tutti la vicenda?

Ve la racconto in breve.

Il primo maggio del 1947, proprio nell’immediato dopoguerra, dopo le elezioni, le prime apparentemente libere, si tornò a festeggiare la festa dei lavoratori (spostata al 21 aprile durante il fascismo). Una ventata di gioia, un rinnovamento, fioriva nei cuori dei contadini che, per la prima volta, forse, dopo l’unità di Italia, pensarono che finalmente non stesse cambiando solo il suonatore ma tutta la melodia. Una nuova Italia, una nuova alba di giustizia, una vera celebrazione di rinascita. Circa duemila lavoratori agricoli e non, nella piana degli Abanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, si riunirono a Portella, vallata circoscritta dai monti Kumeta e Maja e Pelavet, per festeggiare la vittoria del blocco del popolo nelle recenti elezioni e per, ovviamente, portare un attacco al latifondismo della casta nobiliare che ancora resisteva, ferrea nelle sue retrograde posizioni.
In quella valle però, la festa si concluse nel sangue, perché improvvisamente dal monte Pelavet partirono una serie di raffiche di mitra dritte sulla folla che si protrassero per circa un quarto d’ora.

Il bilancio fu agghiacciante: undici morti tra cui tre bambini e ventisette feriti.

Cosa successe?

Le indagini portarono a una conclusione: il colpevole era il bandito Giuliano, che con una serie di attentati mirati (anche contro le sedi del PCI di Monreale, di Carini, Cinisi, Terrasini e altre località) creò disordini per protestare contro le “deliranti” idee monarchiche del comunismo che sembrava voler invadere la statica Sicilia.

Questa fu, almeno, la versione ufficiale, piena di ovvie lacune e di domande terribilmente scomode che pochi avevano il coraggio di porre. Ma come diceva Balzac:
Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad “usum delphini”, e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa.

Ed è ora che iniziamo a occuparci della storia vergognosa.

Pur conoscendo gli eventi di quel lontano 1947, la prima volta che conobbi DAVVERO Portella della Ginestra fu quando mi immersi nella lettura di un saggio particolare e rivelatorio “Il lungo intrigo” di Alfio Caruso. Prima di allora Portella rimaneva l’ennesimo atto sovversivo di un mondo rurale sottomesso alla gerarchia dei potenti, in balia dei nemici dello Stato rappresentati dal Brigantaggio e in particolare da un losco figuro, Salvatore Giuliano. Egli era il simbolo della lotta del nuovo mondo contro i rimasugli di un autoritarismo che si rifugiava nel cosiddetto “altro Stato”, quello sommerso, che si poneva rigorosamente come baluardo contro l’innovazione democratica. Era il mezzo con cui diffondere quel senso di unità, di comunità e di devozione allo Stato Centrale che è da sempre mancante nel progetto del risorgimento, quell’invito a creare un sentimento nazionale, tanto caldeggiato dai fondatori della patria. Eppure, nella ricostruzione ufficiale troppi dati stonavano. E stonavano sempre di più con l’avanzare degli anni e con la scoperta dei tanti, inquietanti misteri che hanno avvolto un percorso democratico accusato di essere mera finzione.

Non è mai cambiato il suono, ma sempre e solo il suonatore.

E forse Portella è molto di più, ma finché considerata una conseguenza estrema del processo di riappropriazione delle libertà negate dal fascismo, il nostro equilibrio resta immutato. Ma quando, invece, il tanfo del sospetto, l’atroce dubbio del tradimento che aleggia e bussa insistente alle nostre coscienze, non riesce a essere acquietato ma ci stuzzica le narici, ecco che tutti gli eventi ci appaiono in una nuova, oscura e terrificante luce. Ed è questa fosca tinta che, con coraggio, Guerrini ci mostra, con quella delusione tipica dell’uomo che, alla Legge, alla Giustizia e allo Stato ci crede davvero. Ma vedete, in “Senza fili” emerge, oltre a verità nascoste, anche un interrogativo angoscioso: c’è davvero uno Stato?

Perché la nascita di questa strana compagine denominata Stato, quell’entità politica sovrana, regolatrice dei rapporti tra i cittadini e le istituzioni, si basa su un patto. E la natura di questo patto è stato, di volta in volta, interpretato dai grandi politologi, da Hobbes a Locke a Sant Simon per arrivare a Rousseau. Nato come ultima spiaggia per evitare il totale annientamento della specie umana, considerata intrinsecamente violenta e caratterizzata da una natura votata alla sottomissione dell’altro, o come unica strategia per risolvere l’annoso problema che vedeva la contrapposizione tra interesse particolare e volontà generale, lo Stato viene legittimato soltanto se riesce a garantire il benessere psicofisico del cittadino, la soddisfazione dei bisogni e soprattutto la sua difesa contro un nemico immaginario o reale. Se lo Stato stesso attenta alla salute delle sue componenti, staccandosene e ponendosi come autocrazia, allora il concetto di Stato si svuota di contenuto e perde costantemente la sua legittimità scaturita dal patto sociale. Ed è quello che è accaduto in Italia.

E che sta accadendo.

Lo Stato diviene da organizzazione primaria a monopolio assoluto di interessi specifici. Come diceva Max Weber:

un’impresa istituzionale di carattere politico in cui l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione della forza legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti».

 

Questo monopolio diviene scevro dalla volontà specifica dei cittadini, dai loro bisogni e soprattutto dalla raison d’etre della sua esistenza abilmente spiegata dal mio amato Hobbes:

Lo Stato rappresenta l’istanza unitaria e sovrana di neutralizzazione dei conflitti sociali e religiosi attraverso l’esercizio di una summa potestas, espressa attraverso la forma astratta e universale della legge che si legittima in base al mandato di autorizzazione degli individui, in cui si realizza il meccanismo della rappresentanza politica; i cittadini si trovano infatti in quella fase pre-politica che è definita come stato di natura e il sovrano svolge un ruolo “rappresentativo” unificando in sé la “moltitudine dispersa”

Queste due visioni antitetiche hanno di differente l’origine dell’esercizio della coercizione; votata alla difesa della specie umana nel secondo caso, votata all’esaltazione di interessi economici nel caso di Weber (del resto Weber pose sempre molta attenzione sul lato prettamente pecuniario delle istituzioni, ed è tuttora tremendamente attuale. Vi consiglio di leggerlo).

Questa trasformazione ha avuto come conseguenza quella di usare le caratteristiche fondanti lo Stato, ossia territorio, cittadini, apparati e lo stesso suo ordinamento, per gestire un potere personalistico, creando un divario tra istituzioni e popolazione sempre più profondo.

E questo divario non poteva non riempirsi di figure alternative, sostitutive del patto tradito, identificabili con la cosiddetta malavita organizzata. In Italia fu ancora peggio, proprio perché, come racconta Guerrini, la malavita fu la responsabile e l’alleata della nostra “liberazione”.

È storia oramai conclamata che lo sbarco degli alleati fu organizzato in comunione con elementi mafiosi, un terreno preparato con accordi dei boss americani che funsero da coordinatori con i loro “fratelli” italiani.

Scrive a proposito Alfio Caruso:

il nuovo ordine sociale deve essere una cosa nostra. Sia gli americani e gli inglesi hanno capito che dove possibile bisogna conservare l’ossatura delle vecchie istituzioni per garantire un passaggio morbido delle consegne.

 

E continuo.

Nel 1974 l’onorevole Carraro (democristiano Presidente della Commissione Antimafia) scrive all’onorevole Moro, informandolo dell’esistenza di un documento collegato, secondo le fonti, all’articolo 16 del Trattato di armistizio stipulato nel 43 tra Italia e potenze alleata.

E cosa mai diceva questo documento?

Semplice: l’indicazione che numerosi personaggi della mafia avrebbero assicurata la loro impunità in cambio del loro sostegno e della loro azione a favore della famosa e eroica invasione.

E fu l’inizio soltanto.

Il proseguo potete osservarlo leggendo “Il patto” di Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci.

La frase di Caruso si lega poi a un altro elemento che Guerrini porta all’attenzione del lettore, ossia le resistenze “nobiliari” dei latifondisti che sognavano una Sicilia indipendente e aggiungo, in mano a interessi esclusivisti. Cito a tal proposito il famigerato Golpe Borghese ma anche il coinvolgimento nelle vicende raccontate da Guerrini di uno strano personaggio, il marchese Alliata (fondatore dell’assurdo movimento “l’uomo qualunque”).

Portella fu, dunque, una strategia della tensione che, seguendo le direttive del regime americano cercò di tenere a bada le forze riformiste.

Una precisazione.

Il termine che uso, ossia “regime” è un dato di fatto e non una mia svista semantica. Perché quando un paese estero ne influenza uno considerato alleato, ci troviamo di fronte a un vero regime assolutistico mascherato da democrazia, laddove il famigerato alleato altro non è che un suddito. Portella fu la prima delle stragi di Stato che, portando il paese in una crisi sociale, rese le istanze rivoluzionarie inattive, e portò all’espulsione de facto per il PCI, che da allora in poi fu relegato eternamente in un ruolo di opposizione senza potere. Un PC che fu lentamente portato a distorcere il suo senso originario fino a scomparire, partendo dall’iniziativa berlingueriana salutata dagli ignari come un modo per uscire dall’angolo oscuro in cui la DC e i poteri forti avevano deciso di lasciarlo. In Italia tutto deve restare com’è, statico, scialbo, autoritario ma mascherato da finta innovazione.

Il potere deve restare in mano ai privilegiati, mentre le mafie, le malavite organizzate saranno, sempre, servi consenzienti e interessati dei padroni. E la popolazione vivrà finti cambiamenti, sarà manovrata e manipolata, sarà illusa e circuita con false promesse e false partenze. Sarà ricca di capri espiatori, sarà ricca di misteri e gelosia degli stessi. E soprattutto svolgerà un’opera di delegittimazione atta a isolare la vittima di turno per poi azzittirla. Ecco che arriveranno innovatori, in realtà vere e proprie pedine, come Borsellino, Falcone, o gli eroi celebrati oggi dalle fiction ai quali è stato concesso un minuto di gloria prima della loro “distruzione”. E saranno posti come martiri della giustizia, come simboli di purezza accanto all’oscuro, sottile monito che, se vuoi cambiare le cose, la tua meta finale non sarà la trasformazione della tua patria, ma una tomba ricca di medaglie. Questa sottile comunicazione da una parte soddisfa il senso di ribellione, dall’altra reitera la nostra convinzione occulta che, in realtà, chi si ribella finisce in gloria, ma gloria eterna, con un bell’epitaffio e tanti ricordi, tante trasmissioni TV. Ma nulla cambia. Ci concedono gli eroi pur di lasciarci sempre in catene, ci donano un’apparente scorcio di cielo ma siamo sempre rinchiusi nella mitica caverna platoniana.

Assorbite le parole di Sciascia riportate da Guerrini:

Ma Sciascia stava facendo un ragionamento molto più sottile. Stava segnalando il rischio che, anche a trovarsi dalla parte giusta, si finisca per stare come su un palcoscenico, a recitare teatro senza saperlo; citava il caso di Mori come analogo al personaggio del capitano Bellodi protagonista del suo romanzo
“Il giorno della civetta”. E poi, parlava dell’antimafia come strumento di potere….Quindi, secondo Sciascia, oggi anche Falcone e Borsellino rischiano di ritrovarsi a far parte di un sistema e di essere strumentalizzati?

 

Il resto è storia.

E adesso arriviamo alla conclusione di questa mia strana recensione: perché vi consiglio di leggere Guerrini?

Perché bisogna avere il coraggio di aprire le porte nascoste e sopportarne il tanfo. Perché bisogna avere gli attributi per andare a cercare la verità anche quando non è così nobile come vorremmo.

Perché sogno che qualcuno, leggendo queste pagine alzi la testa e con orgoglio dica:

La finite di giocare con le nostre vite? Io scendo dalla giostra, e scelgo

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