Il libro L’araba Fenice di Michele Sbriscia sembra, apparentemente, un esperimento letterario creato per divertimento, ispirato dall’amore per quell’arte chiamata letteratura. Ma io, ovviamente (vi stupite per caso?) ho osservato questo testo da una diversa angolazione. La sua stressa struttura, è affatto improvvisata, ma risulta creata ad hoc per suscitare nel lettore suspense, tensione e quel brivido necessario a ogni thriller. E il termine to thrill, (rabbrividire) che rappresenta il fulcro, la pietra d’angolo su cui erigere la monumentale costruzione di questo genere di testo.
E to thrill il testo lo è davvero. Però, c’è anche qualcosa di più, nascosto dietro le mirabolanti azioni a volte crude, dietro eventi dal profumo quasi onirico e dietro le frasi permeate di un eccellente sense of humor stile inglese.
Si tratta soltanto di aprire il nostro baule dei doppi significati assieme al maestro Humpty Dumpthy e trovare il fondo segreto.
Le storie diverse si incontrano e si intersecano in apparenza grazie a un libro misterioso. Nulla di nuovo sotto il sole. Di libri magici la letteratura ne ha iosa, basti pensare al famoso tomo oscuro del Nome della Rosa. sono custodi di segreti a volte terribili a volte maestosi, indizio che ci si avvicina a un terreno particolare quello del sacro:
terribilis est locus iste
est porta coeli e domus dei
Sono frasi dal suono inquietante poste su molti architravi di chiese e io lo inserirei anche nel testo suddetto.
Vi avverto quindi, potete leggere il libro come una divertente evasione, ridendo della goffaggine del protagonista e dei non sense di uno dei personaggi Fiorenzo. Potete viverlo come una storia d’amore che sorpassa le difficoltà. Oppure come un classico mistery, in cui è dovere del protagonista di cercare un qualcosa o di risolvere un intricato puzzle. Oppure, potete accettare il guanto di sfida di Sbriscia e capire cosa ci ha voluto lasciare con questo libro. Perché vedete, io non credo che quasi nessun autore (tranne quelli che appello con il termine venditori di polizze) scrivano solo per svago. Essi comunicano qualcosa e si accontentano anche quando quel codice non viene svelato, perché se esiste il messaggio, esso giungerà sempre a una parte del cervello di cui ignoriamo i meccanismi, ma che è recettivo a dispetto della nostra pigrizia mentale.
E quindi vediamo cosa ha stuzzicato a me.
Come ho già detto l’apparente chiave di tutto è un libro, contenente un segreto così importante da essere occultato. Del resto il libro stesso è sinonimo di conoscenza, e la conoscenza è quella chiave che ci permette di aprire molte porte dimensionali, emotive o solo scientifiche. Il problema è che la conoscenza va servita a piccole dosi, per potere essere guardata senza bramosia, senza cupidigia e senza che questi due beceri lati umani suscitino violenza. La conoscenza non è un mezzo per ottenere il soddisfacimento di un bisogno che sia materiale come il denaro o valoriale come il potere. La conoscenza è quella consapevolezza e comprensione dei fatti, delle verità, dell’informazione ottenuta attraverso l’esperienza, l’apprendimento e la comunicazione. È una sorta di autocoscienza della presenza di legami importanti tra informazioni che non sono separate ma connesse tra loro ed è la scoperta della natura logica di questi legami. Ecco che il termine si arricchisce di concetti come significato, differenza (che fa scattare l’informazione), istruzione, rappresentazione, apprendimento e stimolo mentale. E tutto questo non si lega alla finalità cosciente ma alla cosiddetta crescita etico morale o spirituale della persona. In parole povere la conoscenza stimola o dovrebbe stimolare l’evoluzione. Quando così non accade, essa è semplicemente informazione e tale resta. E quando non si trasforma in altro, il dato può viaggiare nei più disparati contesti e può essere usato senza che si sviluppi una autoconsapevolezza da tutti. E questa generalizzazione rappresentata dall’aggettivo tutti, diventa di importanza capitale.
Sapete perché?
Ve lo spiego. La conoscenza di un segreto in questo libro, stimola la mente di diversi personaggi. Alcuni la usano solo come rivendicazione di un possesso, altri come riparazione di torti, altri pochi in realtà, come crescita. E poi c’è chi di quest’informazione ne fa scudo per giustificare una violenza brutale e inumana.
Chi siano i latori dei diversi gradi di questa “conoscenza” sta a voi scoprirlo.
Questo percorso spirituale è ancor più rafforzato dalla presenza di alcuni dettagli collegati tra loro come i simboli, la presenza di erbe magiche e di personaggi appartenenti alla tradizione rosacrociana del passato. Tutti questi elementi creano nel protagonista la capacità di travalicare il tempo e lo spazio e attraverso una visione lucida e impersonale di aventi passati, più o meno allegorici, si riesce a acquisire una coscienza.
Direte voi mbè?
Tutti abbiamo una coscienza.
Si, in senso probabilistico.
Nel senso che ognuno di noi può essere depositario di questa misteriosa entità che, pare, ci distingua dalla fauna e dalla flora, ma finché tu non la rendi viva portandola alla superficie, strappandola dai meandri del tuo inconscio resta possibilità e mai realtà. Come dire ognuno di noi è stato dotato da dio o dall’energia divina di una capacità di dare senso, significato e struttura gerarchica a fatti o cose.
Sarete lieti e giubilanti nello scoprire che il termine coscienza deriva dal latino conscientia, a sua volta derivato di conscire, ossia “essere consapevole, conoscere. Di nuovo ci troviamo a aver come indizio la consapevolezza che la persona ha di sé, dei propri talenti ma soprattutto delle proprie costrizioni mentali. E perché no anche dei limiti che si frappongono tra sé stesso e il mondo e la conseguente crescita che l’essere umano DEVE sperimentare stando in questa valle di lacrime.
Ed ecco che torniamo al punto di partenza. L’uomo protagonista di questo libro, attraverso la penna spesso ironica di Sbriscia non fa altro che intraprendere un percorso spirituale. E questo lo fa essere cosciente delle paure, della mancanza e attraverso queste dei drammi del mondo
questo è l’abisso
Ed è da questo abisso di morti rinati, di oscure figure allegoriche, di fantasmi del passato che Andrea scopre di essere umano.
E già.
E non ditemi che è banale perché se ognuno di noi, si rendesse perfettamente conto di essere UMANO tante patologie, tanti orrori, tanta malvagità non ci sarebbe. Rendersi conto della propria umanità è quel percorso che dobbiamo intraprendere una volta buttati in questo teatrino grottesco. È quell’esperienza sensoriale che ci pone di fronte ai nostri demoni. Che siano draghi sputafuoco che distruggono la vita solo perché desiderano l’immortalità senza capire che noi siamo già immortali grazie al pensiero e alla capacità di prendere idee dal mondo dell’iperuranio. O che desiderano il potere tanto da vendersi l’anima, senza sapere che non si può vendere qualcosa che non è nostra ma che ci è stata data in prestito e che poi dobbiamo restituirla all’armonia universale, in quel mondo dove tutto si trasforma, dove nulla si perde. Ci troviamo di fronte al costante dramma di un uomo che stenta a diventare umano:
Per quanto tempo dovremo cantare questa canzone?” recitava Bono nella sua mitica “Sunday, bloody Sunday” sventolando una bandiera bianca, drenata di ogni colore, simbolo di purezza, di pace e di perdono.
“Quanto tempo ancora?”
“Bottiglie rotte sotto i piedi dei bambini, corpi sparsi stesi in strada.”
“Asciugati le lacrime dal viso, togli le gocce di sangue dai tuoi occhi.”
“In milioni piangono, noi mangiamo e beviamo mentre loro domani moriranno.”
Quanto tempo ancora impiegheranno gli uomini a comprendere cos’è la guerra?
E per quanto tempo cercheremo con ossessione il potere senza soffermarci sulla vera magia
Un qualsiasi attimo per il quale l’esistenza umana possa essere chiamata vita!
Istanti perduti per sempre, desiderando la libertà, bramando gloria, sognando conquiste e trionfi, aspirando all’eterna, sconfinata e immortale grandezza
E tra un sorriso, un palpito noi troviamo questi significati eterni reiterati attraverso i simboli che si incarnano di volta in volta, in figure remote e evanescenti come quella del conte di Cagliostro, l’uomo che sfidando il suo tempo ricercò proprio l’essenza della vita, la trasformazione e il bene supremo e nella fenice, che nonostante la distruzione apparente del suo sé, alla fine le ceneri non le odia, non le ignora, non le nasconde sotto il tappeto, semplicemente le usa per rinascere.
Ed è per questi significati, per quelle due frasi che valgono tutto il libro, solo per queste due verità, nascoste in un testo godibilissimo, solo per queste due verità, io chino il capo e dico grazie per la tua penna Sbriscia.