“Per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh!
Jack Kerouac
15 Agosto 1945. L’imperatore Hirohito, dichiara la resa del Giappone.
La Seconda Guerra Mondiale è finalmente giunta al termine.
L’Europa, totalmente distrutta, è condannata alla miseria e a dar conto delle atrocità che sono state commesse prima e durante il conflitto. A provare vergogna per ciò che l’uomo ha fatto al suo simile, non appena la bestialità, la parte più oscura che dimora dentro di noi da sempre, ha distrutto la gabbia in cui era costretta e ha dato sfogo alle sue pulsioni nascondendosi dietro ideali distorti, contagiosi, pericolosi. Cenere, insomma, da cui le generazioni sopravvissute sapranno trarre tutto ciò che è necessario a ricostruire le proprie nazioni, con connotazioni societarie meno animali e più umane. E ricordare che per quanto la bestia sia di nuovo in gabbia, deve essere continuamente sorvegliata perché prima o poi fuggirà di nuovo e scatenerà la sua follia con maggiore crudeltà. Ancora. E ancora.
Così, mentre uomini panciuti in giacca e cravatta si siedono ai tavoli per iniziare la loro partita a maceriopoly, il resto della popolazione si è rimboccata le maniche fin quasi alle spalle e, tra un affanno e l’altro, in sequenza, è ritornata piano a piano a vivere. E a cercare una qualche forma di divertimento che per poco meno di un’ora possa liberare la mente, a lasciarsi andare.
Negli U.S.A., terminato il conteggio dei suoi eroi di guerra, la popolazione trova questo svago nell’evoluzione musicale apportata al Jazz dai musicisti afroamericani di New York: il Bepop, veloce, ribelle, giovane. Dizzy Gillespie, Charles Mingus, Charlie Parker, Max Roach, Bud Powell, Miles Davis tracciano una netta linea di demarcazione musicale e culturale tra presente e passato, e con le loro note veloci, acide, metalliche, innescano una vera a propria rinascita in diversi ambiti artistici.
Il loro beat mordente, rapido, inafferrabile, continuo, senza respiro, si spinse fino a contaminare le pretese compositive di giovani scrittori desiderosi di abbattere i limiti della vecchia letteratura e dar vita a qualcosa di nuovo. La narrazione del quotidiano e il suo linguaggio, lo slang della strada, scalzano le complesse strutture narrative e compositive ottocentesche definitivamente. Non più signori nei loro palazzi, eroi in cerca da principesse ben educate da salvare, bensì alcolizzati, eroinomani, disadattati, perdigiorno, meccanici, scansafatiche. Uomini e chiacchiere da bar, che puzzano di sudore, di strada, di manie e di sesso. Sì, di sesso. Perché se la letteratura fino a quel momento aveva trattato l’argomento (anche in modo scabroso e violento – de Sade, Sacher-Masoch) non era riuscito ad abbandonare il suo essere di “camera” o “boudoir”, cosa che, invece, questi nuovi narratori riescono a fare con naturalezza perché parlano della loro naturale vita sessuale al di là del genere e del contesto.
In superficie di calderone ribollente di quotidianità, di normalità, di vita e di uomini, vengono a galla capolavori indiscussi della letteratura degli anni cinquanta e di scrittori catalogati come appartenenti alla Beat Generation: Jack Kerouac, Lucien Carr, Gary Snyder, Herbert Huncke, Neal Cassady, John Clellon Holmes, Allen Ginsberg, William Carrol Williams, Kenneth Rexroth, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso e William S. Barroughs.
Tutti figli letterari del loro tempo e, per ammissione, della Lost Generation e di autori come Walt Whitman e Ernest Hemingway.
Ma che cos’è in realtà la Beat Generation?
Perché affascina tanto?
La Beat Generation non è altro che una Utopia, traducibile con il desiderio di scardinare da qualsiasi regola, tabù e/o convenzione, la società satura di conformismo. A muovere i loro corpi e le loro menti è il desiderio di fuggire verso il miraggio di una libertà che trova compimento nel viaggiare da un posto all’altro, senza un itinerario prestabilito. “Campare” alla giornata, anche tra affanni e scarsità economica, lavorare saltuariamente per riempirsi la pancia di cibo e alcol.
In una sola parola: vivere.
Ma ridurre tutto ciò ad una semplice descrizione letteraria d’antologia è estremamente riduttivo. Scrittori e poeti Beat, infatti, hanno gettato le fondamenta di ribellione germogliate poi nella rivoluzione sociale degli anni sessanta e settanta. Beat è un elogio alla vita e una spinta al misticismo orientale, partendo dalla convinzione che queste pratiche potessero ampliare la percezione sensoriale della realtà in cui viviamo. Beat è una ricerca continua di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere una volta liberati dalle catene che noi stessi siamo abituati a costruirci. Beat è un “urlo” che deve spaventare, che deve scuotere le coscienze dall’intorpidimento del quotidiano, che deve spingere l’uomo ad essere diverso dall’altro e apprezzare le differenze tra gli uomini senza fare di queste argomenti di scontro.
Eppure, così come ha infiammato i cuori dei giovani degli anni cinquanta, sessanta e settanta, il fuoco del beat si è spento a causa di un nuovo appiattimento a cui le generazioni successive non sono riuscite a sfuggire. Della Beat Generation è rimasto solo il sogno romantico dello scrittore vagabondo affamato di stelle e si vita.
L’uomo moderno si è piegato alla concezione consumistica e divorante di una società mediocre e senza spinta.
Siamo morti nell’istante stesso in cui siamo stati indotti a decidere di non essere una singolarità ardente e pluripotenziale, ma a divenire simili e uguale gli uni con gli altri perché giusto. E noi ci siamo piegati, senza chiederci se fosse giusto o sbagliato, se fosse bene o se fosse male.
Perché non siamo andati oltre noi stessi?
Perché siamo regrediti ad uno stato arcaico simile a quello dei primati?
Perché sapete cosa sanno fare bene i primati, no?
Sono capaci di strapparci un sorriso ogni volta che li vediamo avere a che fare con l’uomo, imitandone i gesti. Ecco cosa fanno: imitano.
Questo è ciò che l’uomo fa oggi: imita, senza comprendere ciò che sta facendo. E l’imitazione pura e semplice, che è lontana dall’imitazione dovuta all’attenta osservazione che preclude ragionamento e discernimento per uno scopo, porta inequivocabilmente all’estinzione della scintilla creatrice che per millenni ci ha contraddistinto e fatto, soprattutto, evolvere fino ad oggi. Senza quella scintilla meravigliosa non siamo altro che materia in movimento, incapace del tutto di esprimerci.
E quando ciò inizia ad accadere (e sta accadendo, credetemi), l’Arte inizia a deperirsi fino a ridursi ad una eco lontana. Un’eco che preannuncia Morte allo spirito.
Dov’è l’urlo della nostra generazione?
Siamo ancora capaci di alzare la testa e buttare fuori tutto il male che maturiamo dentro giorno dopo giorno?
Il nostro sentirci non-adatti, brutti, poveri, soli, disperati, manipolati, ignoranti o sapienti ugualmente privati di voce in capitolo in questa società che viaggia ad alta velocità, incapace di rendersi conto che lo schianto è ormai imminente?
L’Uomo molto probabilmente sopravvivrà alla catastrofe, ne sono sicuro, ma non sarà molto diverso da un animale incosciente delle proprie capacità di singolo, annichilite, che verrà portato al guinzaglio da quei pochi suoi simili che preserveranno in minima parte la loro natura, perché dominati dal logorante desiderio di potere e dominio.
Volete che accada?
Bene, continuate a fare quello che state facendo senza ragionare.
Non volete che accada?
Bene, smettetela di comportarvi come cloni l’uno dell’altro e riabituatevi a ragionare, a farvi delle domande, a credere che sia possibili migliorarsi, a credere che sia ancora possibile salvare noi stessi, il mondo e soprattutto l’Arte.
Spegnete la Tv, utilizzate il cellulare solo per chiamare le persone che abitano a centinaia di chilometri da voi o per sentire la voce della donna o dell’uomo che amate. Parlate con le persone anziane, ascoltate cos’hanno da dirvi.
Ascoltate, sentite.
Andate al cinema, ma non lasciatevi coinvolgere dalle sole immagini, cercate di comprendere ciò che il regista vuole farvi arrivare.
Andate in libreria, vagate in silenzio tra gli scaffali, comprate il libro che vi sembra diverso da tutti gli altri. Comprate i classici, imparate da chi è riuscito a firmare un contratto con l’eternità parlando nei propri libri nient’altro che di storie di uomini. Scrutate il tramonto, la volta stellata in una calda notte d’estate. Guardate e basta, sentitevi minuscoli al confronto di tanta immensità. Uscite con gli amici, parlate, confrontatevi, litigate, riabbracciatevi.
Abbiate il coraggio di confrontarvi, perché il confronto è l’unico mezzo immediato che può aiutarci a crescere.
Urlate, insomma, ma fatelo con la vostra voce. Allora sentirete che alla vostra singolarità se ne uniranno altre poco a poco fino a diventare un coro polifonico, un coro di miliardi di persone che non desidera altro che recuperare la propria umanità.
Ma rimanete voi stessi, non dimenticatelo mai.