E’ molto difficile per me parlare di questo libro, “Il grande dio Pan” per due motivi.
Il primo: sono di parte. Amo moltissimo e credo sia cosa risaputa, gli autori inglesi del periodo vittoriano. Li considero i migliori rappresentanti di come la letteratura vada onorata, capaci soltanto con il linguaggio e con le tecniche letterarie di creare pathos, emozioni, terrori o indignazione. Sono molto semplici e al tempo stesso complessi, poiché sanno giocare con il suono delle parole, creando frasi ricche di una loro alchimia interna. Essi plasmano il linguaggio, e da esso stesso vengono modellati, nutrendosi e nutrendo il testo che diviene fatalmente vivo. Non è più un semplice agglomerato di fogli ma possiede una sua voce tonante.
E anche oggi, seppur trovo autori di rilievo, talentuosi, non riescono a raggiungere la loro perfezione.
Il secondo motivo è che è un testo ricco e complesso, profondamente inserito nell’ethos del suo tempo. È vittoriano fino all’osso e al tempo stesso, siccome appartiene all’ultima decade di quello straordinario e prolifico periodo culturale, ne è quasi fuori, riuscendo a vederlo con un disincanto raro, che molti suo autori tentano di raggiungere ma senza davvero sfiorarlo. È un concentrato di ideali che sono ormai stati, eppure tentano ancora di dominare le coscienze personali, raccontano di contraddizioni che scoppieranno con un tremendo boato all’inizio dell’epoca moderna. Eppure, per tanti troppi anni ancora, l’Inghilterra sarà inesorabilmente legata a un determinato schema morale. Ed è bizzarro perché l’immagine che ne esce è quella di una giovane vigorosa costretta a portare stracci logori, che cadono a pezzi e che lei stenta a rabberciare in malo modo, con un’ansia ossessiva. Arriverà poi il giorno in cui quegli stracci vecchi saranno gettati in un fuoco purificatore, di cui resterà soltanto cenere.
L’opera di Machan è potente proprio per questo. Il mio contributo è misero, poiché già da sola la straordinaria introduzione di Matteo Zapatelli Olivetti,basterebbe a onorare quest’opera imponente, odiata dai contemporanei dell’autore e addirittura considerata orrendamente blasfema.
Eppure Machan è l’Inghilterra e l’Inghilterra vittoriana è Macham.
Come un sussurro rarefatto, che fruscia fra gli alberi, si avverte l’altra fondamentale impronta di questo meraviglioso Artista: ossia la sua eredità celtiche, quella fatta di miti, di misteri e di una riverenza profonda per il mondo naturale, laddove l’uomo celtico si ritrovava splendidamente inserito e nel quale risolveva le mille contraddizioni umane. È nel ciclo naturale, quello prestabilito delle stagioni e delle feste a esse collegata che i celti, i gallesi e i contadini poi, ritrovavano il senso del loro esistere. Intendo quello profondo che ancor ‘oggi ci ossessiona, quello che ci fa comprendere chi siamo, da dove arriviamo e in che direzione ci stiamo dirigendo.
La loro capacità di considerare il mondo in modo monistico, come un tutt’uno spezzato solo dall’incapacità umana di vedere con gli occhi della mortalità le energie infinitesimali che ci univano all’assoluto, ne celebravano però con fede, il sentore dell’esistenza di questo legame, ossia la religione. Una religione peculiare, affatto scevra dall’amore per la corporeità, per la forma, considerata contenitore figlio della sostanza. Una sostanza che non si trovava nei cieli ma in un mondo parallelo a noi, unito da porte dimensionali dalle quali alcuni prescelti potevano passare. Ecco il corpo era la manifestazione fisica di quest’idea, la possibilità di sperimentare, di crescere e tornare con nuovi flussi energetici nell’altro mondo e sapere, avere la convinzione che l’Anwenn celtico non fosse totalmente separato ma presente, la vera fonte di ogni manifestazione non li rendeva solo completi ma goduriosi, liberi e avvezzi a considerare ogni piacere come l’espressione della gioia universale alla quale tutti apparteniamo e a cui dobbiamo tornare. Nessun tabù, nessuna colpa, soltanto una profonda responsabilità per questo mondo materiale pallida imitazione di quello sovrannaturale, ma non per questo meno degno di rispetto.
A differenza del vittorianesimo e del mondo protocristiano, i due universi spirito e materia comunicavano in un dialogo necessario per mantenere in vita uno e l’altro. tolta questo dialogo, questo racconto, questo abbeverarsi dalle fonti diverse ma complementari causò una profonda cesura in senso all’uomo. Nel vittorianesimo questa mancanza fu colmata dalla scienza, che andava a sostituire l’interlocutore perduto e relegato nelle infime regioni scure e minacciose della psiche.
Ecco cosa racconta il Dio Pan, ecco di cosa di parla Macham.
La corsa affannosa alla scoperta di ogni segreto si traduceva in una sensazione di solitudine perché la scienza non poteva compensare l’immaginazione, la leggerezza della creatività e l’energia primordiale che scorre come un fiume dentro le nostre anime. Togliere per paura la consapevolezza di essere forze primordiali, rendeva l’uomo assente, controllabile e manipolabile da ogni fonte del potere. Il baratto che in fondo lobotomizzava l’essere umano, era ricompensato dalla scalata al successo economico; ogni probo cittadino vittoriano rinunciava alla sua energia selvatica, ai suoi istinti anche sessuali e riceveva in cambio uno status privilegiato. Il resto era da bassifondi, anch’essi però, e lo si legge nel libro, necessari all’opera educativa e manipolatoria della loro assurda eppur affascinante morale.
Non posso non essere affascinata e terrorizzata dal racconto di questa forza primordiale, bestiale e mostruosa che troppo repressa riemerge inondandone le strade ammantate di perbenismo di orrori indicibili. Eppure, non si può non essere sedotti dall’energia del Pan, di antichi culti orgiastici, e soprattutto di una libertà dell’immaginazione lasciata a briglia sciolta.
Ecco l’orrore che Macham non ha il coraggio di nominare: l’immaginazione.
Essa è e sarà sempre foriera di cambiamenti, anzi di stravolgimenti totali della società. Mentre la corsa alla scientifizzazione del mondo vittoriano era soltanto un tentativo spesso inutile di imbrigliare tale forza e asservirla alla finalità cosciente. Ecco perché di fonte al favoloso progresso scientifico in realtà, il mondo vittoriano resta immobile, solitario e grigio come le sue fumose strada simboli di un’industrializzazione selvaggia.
Ed ecco perché sono nati in questa soffocante atmosfera i migliori capolavori della letteratura, da Byron a Dickens, da Wilde a Hardy.
Per non parlare della follia ossessiva delle Bronte.
Ma soltanto il grande genio di Macham con la sua straordinaria vita, con la sua forza e la sua capacità stilistica ha saputo raccontarlo, tra le righe di un romanzo che terrorizza più di molti horror che ho letto. Si avverte questo senso di terrore di chi esplora sentieri proibiti da un tabù inconfessabile, ma lungi dal retrocedere dalla vista del Dio Pan ne veniamo inesorabilmente attratti.
Allora mi chiedo Macham voleva spaventarci e distogliere la nostra attenzione dall’uomo selvaggio o in fondo voleva soltanto farcelo vedere, scuotere la nostra ovattata realtà e farcelo rimpiangere, come se ci mancasse una parte di noi?
Anche la fine atroce della sua adepta ha un non so che di evocativo; la perfida maliarda, rea di considerare il sesso piacevole e giocoso, rea di non subire il suo fascino come vittima, si ricordi la Mia di Dracula fatalmente attratta ma invasa dal senso di colpa. In Helen no, non esiste. Esiste solo la voglia di “godere”.
Immaginate un tale discorso nel 1890….
Ed ecco la sua modernità. Helen si spinge in confini inaccettabili per i limiti dell’epoca e non muore ma torna all’origine ricalcando le tappe di una creazione e tornando brodo primordiale tra la braccia irsute del signore della natura. Del resto il suo stesso nome è potente: significa luce splendente, la potente, solare. Ma richiama anche Hell abisso, che non era, come si crede il mondo infernale cristiano ma il mondo delle energie ctonie quelle che “trasformano”.
E sapete il significato etimologico di Abisso?
Grandezza, estensione di cui non si può percepire il limite
Treccani
E Il dio Satiro, il Pan o il Cerunnos celtico non erano altro che il grande abisso in cui si percepiva la vastità dell’universo, il potere della natura e la maestosità della potenza rigenerativa della grande madre. Un dio selvatico, il dio degli impulsi il Dio mostruoso, il monstrum ossia il prodigio, il portento.
Forse oggi, in quest’epoca di virtualità, un libro vittoriano così influente e mostruoso può darci quella creatività che abbiamo dimenticato, quella personalità selvatica auspicata da tanti psicologici ma ancora temuta perché “ribelle”. E ringrazio la competenza di un grande Casa editrice che ha riesumato dai fumi della memoria questo testo favoloso, con una traduzione che ne esalta la potenza. Lasciatevi catturare dal sogno di riunirci con la forza indomita della natura. Ma attenzione perché:
Mary vide ciò che avevo detto avrebbe visto, ma avevo dimenticato che nessun occhio umano può posarsi impunemente su un simile spettacolo.
Probabilmente è vero.
Ma sapete cosa vi dico?
Preferisco impazzire dopo aver osservato quel luogo terribile, che morire restando sempre ingabbiata nella mia noiosa routine.