“Luna allo zoo” di Roberto Addeo, il seme bianco editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Chi desidera scrivere un testo di narrativa contemporanea oggi, infarcito di giuste considerazioni sulla società odierna, si trova in difficoltà.

Proprio perché è impossibile dare una lettura di un essere così tentacolare, cosi sfumato e cosi invisibile come il post moderno. Appunto post, oltre la modernità che aveva precisi obiettivi, la volontà pedissequa di liberarsi da tanti anacronismi, da tanti inutili ostacoli per abbracciare una visione più razionalistica forse, ma scevra da pregiudizi e superstizioni di quell’immenso oscuro soggetto chiamato reale. Un lavoro titanico che però, non ha fatto altro che produrre nuovi mostri, nuovi demoni, nuovi anacronismi e nuove deliranti percezioni. La corsa verso il successo e l’autoesaltazione si è trasformato in immobilismo sociale e personale.

La lotta contro la credenza popolare non ha fatto altro che produrne di nuove, che hanno semplicemente spodestato i vecchi assiomi culturali. Le periferie tanto odiate, tanto contestate hanno prodotto invece di città multiculturali nuovi avamposti in cui impiantare chiusure, resa ancor più inquietanti da una devastante omologazione. Tutti uguali perché tutti senza creatività, senza prospettive, senza speranza senza volontà di produrre non soltanto parole, dal velleitario suono rivoluzionario ma azioni, che dessero una scossa a questa sonnacchiosa e irritante realtà. Roberto Addeo racconta proprio questo fallimento. Deciso ad allontanarsi da una situazione di chiusura, claustrofobica abitudine non fa altro che spostarsi fisicamente in una nuova prigione, da cui non tenta assolutamente di evadere. Si bea di una velleitaria capacità di pensiero, di illuminazioni momentanee, di grandi filosofie rese possibili dalla democratizzazione della cultura che si offre come gadget a chi accetta il patto di sottomissione dei grandi agglomerati urbani.

Si baratta cioè la capacità di scelta con la pedissequa accettazione di uno status quo che, in cambio di questa sorta di obnubilazione della mente, offre distrazioni, come sesso, alcol e droghe. Ecco che nel testo, il grande potenziale del protagonista, diviene in realtà una tuttologia dell’apparenza, dove apparentemente si brama il cambiamento, la meritocrazia, ma dove in realtà si cerca solo il sollievo, la soddisfazione del bisogno, usando come scusa l’incapacità del sistema di offrire alternative. E questo senza mai, davvero, sfiorare l’essenza delle cose, portare il pensiero e le idee fino a estreme vette, accettarlo e non usarlo come semplice passatempo. Perché osservare il nucleo, il centro delle cose, delle persone e della nostra stessa società alla deriva, significa decidere di abbandonare la periferia di sé stessi, per abbracciare l’immensità di quella sconosciuta zona chiamata esistenza. Perché la periferia per quanto soffocante, per quanto rea di essere un mostro che offre claustrofobia, rassicura, consola, protegge.

Immobilizza è vero ma è questa incapacità di muoversi, di andare a cercare, scoprire, persino ribellarsi, non fa correre rischi. E il protagonista non li corre perché non cerca l’essenza delle cose, pur essendo capace di raggiungere grandi idee, in quella dimensione platoniana da me tanto riverita e amata. Raccogliere la sfida rifiutandosi di portarla avanti è quanto di più degradante esista per un essere umano. Gli archetipi hanno bisogno di un corpo reale, di farsi carne, di farsi azione. Hanno bisogno di incidere sul substrato anonimo delle nostre città, hanno bisogno di immergere le mani nel fallimento e trarne insegnamenti. Hanno bisogno di colorare la monotonia affinché essa diventi stupore. Ecco che la Bologna dei poeti e dei cantautori diventa invisibile e si rende uguale a tante altre città italiane, tutte promesse ma nessuna concretezza. Brutalizzata dal cinismo di chi ha mollato la sfida tempo fa, accontentandosi di banali rimedi alla noia.

Ritratto di una generazione malinconica, forse spietata con sé stessa, incapace di un vero lavoro intellettuale, ma solo di vagheggiamenti pseudo colti che di sostanza, di innovazione non hanno assolutamente nulla.

Un libro che è uno schiaffo sulla faccia ai tanti latori della verità, ai tanti esponenti del radicalismo intellettuale, privi di un reale spessore intellettuale, quello che scava davvero nel fango per dare esempi ai giovani, esempi che non si risolvano lo squallore, ma che al contrario radichino sempre di più nei nostri cuori. E la poeticità, la genialità del protagonista restano sullo sfondo, sussurri inascoltati di una redenzione che ancor oggi attendiamo.

La luna nello zoo è un monito e al tempo stesso una poetica analisi delle nostre incertezze, dell’incapacità di comprendere il potenziale inespresso delle cadute perchè solo una frase è la speranza di salvezza dell’intero libro:

 

È dall’errore che si deve ripartire

 

E io aggiungo che è soltanto dall’arte, quella vera, quella fatta di sinuosi movimenti rotatori che si crea quel gorgo potente e distruttivo capace di spazzare questi tempi inutili e angosciosi.

Ci serve un uragano di innovazione, di creatività, di immaginazione che spazzi via quest’assurda incapacità di rialzarsi e di abbracciare il nostro vero potenziale umano: il cambiamento.

 

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