Ho avuto il piacere e l’onore di leggere in anteprima Veronica e di essere stata scelta per scrivere l’introduzione al secondo libro della sua saga Le dodici porte, l’erede
Voglio precisare che la scelta di Veronica nel consultarmi è stata ardita e coraggiosa perché era cosciente che, avendo apprezzato il primo testo, avrei proceduto alla lettura con un cipiglio sicuramente più puntiglioso e severo. La sua prima fatica era dotata di un alone di straordinaria maturità; sia nella trama che evocava un Egitto nebuloso appartenente alla intrigante era dello Zed Tepi (per comprendere le mie parole di invito a andare a rileggere la mia recensione del primo libro) sia nello stile che spiccava rigoglioso nel mondo, a volte tentennante, dei self e degli emergenti riuscendo a diveniregemma rara e preziosa nel panorama letterario odierno. Questa sua caratteristica, però, poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio nel caso in cui, il secondo testo, si sarebbe rivelato o di minor impatto o non all’altezza della musicale bellezza del primo. Che la stesura di un romanzo sia dono eccelso elargito dalle muse è cosa oramai risaputa. Che un libro, esordiente o non, debba essere un organismo interconnesso dotato di volontà propria in cui stile, sintassi, semantica ma sopratutto quella capacità comunicativa in grado di raggiungere il fulcro mentale del lettore, è un dato scontatissimo, ma non ovvio. Perché è quest’armonia tra struttura e patto interpretativo che oggi scarseggia in molte rispettose fatiche letterarie e rende alcuni generi penosamente carenti di significati. E questo, purtroppo, tocca in particolare il fantasy. Genere di profondità indiscussa, erede di leggende, di miti e persino di quelle storie graaliane e celtiche che in fondo rappresentano un po’ la nostra tradizione etnologica, il fantasy è e deve restare un racconto iniziatico che ponga al centro del suo discorso stilistico e strutturale l’evoluzione dell’eroe. Ce lo racconta perfettamente Campbell nel suo eccelso saggio “Il viaggo dell’eroe” e lo dobbiamo ritrovare in ogni testo che viene posto alla nostra critica e analitica attenzione.
Il fantastico non scaturisce, dunque, soltanto dalle regioni impervie della creatività e dell’immaginazione umana, ma trova la sua giustificazione di senso nel panorama culturale, laddove valori, consuetudini, timori e interpretazione del mondo, divengono favolosi e sfavillanti archetipi. E senza la capacità di abbeverarsi a questo ribollente calderone “popolare”, un fantasy non avrà quella forza trascinante capace di raccontare sì altri mondi, ma non soltanto per diletto, ma per poter comprendere e interagire con il nostro. Che siano universi tolkeniani, arturiani, o eredi della saga di Shannara, non sono altro che immagini speculari della nostra società odierna e passata, celebranti quel legame tra noi immersi nella realtà e il mondo delle idee, dove traiamo quel patto indispensabile che fonda e deve continuare a fondare la nostra civiltà.
Pensiamo a Hobbes, per esempio, che si rispose sulla genesi della compagine statale nutrenodosi di archetipi come ad esempio il leggendario stato di natura. Altri usano la fantomatica e favoleggiata età dell’oro che la polis (e la politica) deve ricreare. E cosi dicendo.
Un fantasy, dunque, non fa che inserire nel nostro percorso evolutivo come agglomerato sociale, piccoli, importanti tasselli in grado di rinvigorire e rinnovare il nostro modus vivendi.
Ogni autore, degno di usufruire di quest’aggettivo si deve rendere conto della portata ontologica anche nella più misera delle opere, e dell’importanza di scovare, all’interno del calderone del mito e del senso, elementi utili non solo alla scorrevolezza della trama, ma anche alla società che leggerà e assorbirà le parole impresse come un’arcana magia, tra bianche e candide pagine. Trovare elementi consoni alla propria e unica personalità, cercare quelli che possono rinnovare la cultura popolare, e iniziare con metodicità e passione la nobile arte di interesse l’arazzo complesso e dotato di una bellezza folgorante chiamato libro.
E la Pellegrino è consapevole, molto consapevole nonostante la sua giovane età, della responsabilità che si assume scrivendo per i lettori e sperando che un testo sia di facile fruibilità anche per i posteri. Con una classe innata, uno stile pulito e elegante, mai sopra le righe ma sempre altamente avveduto, si presenta come degna erede e speranza indiscussa di un mondo artistico che perde se stesso un un turpe baratto con aspirazioni finanziarie. Il suo secondo libro offre al lettore non soltanto un contesto ricco e pieno di colori e sensazioni ma anche significati, valori, filosofie che, appagando il senso estetico, sanno anche toccare la parte più intima e nascosta del suo pubblico. Ecco che nella scoperta del segreto ogni elemento si incastra perfettamente in un armonica cornice mentre si procede a infrangere del tutto il tabù per eccellenza: il segreto.
Cosa ci sarà mai dietro l’etimologia di questa parola che evoca territori ignoti e inesplorati?
Segreto deriva dal latino secretum da secernere ossia mettere da parte composto da se e cernere con il significato di separare. Quindi nella nostra lingua assume il significato di qualcosa che viene nascosto ( tenuto separato appunto) senza essere rivelato. Il segreto è qualcosa escluso dal sapere comune, nascosto agli occhi altrui che non può, per un tabù intrinseco alla sua ambigua natura, essere condiviso. Questo perché produce cambiamento, crea il movimento quando si venera l’immobilità (pensiamo al segreto custodito nel giardino dell’eden e rappresentato dalla conoscenza del bene e del male, in una dimensione di totale benessere perché ferma e congelata in un istante eterno). Ovviamente la sua ampiezza semiotica è oggettivamente VERTIGINOSA. Può riguardare conoscenze dalla più innocue alla più complesse, può riguardare gesti riservati a una ristretta élite, possono essere quelle bugie o finzioni che possono una volta dissotterrate far vacillare intere convenzioni sociali, rapporti, e persino l’intera percezione del reale.
Ecco che la separazione è il senso ultimo del segreto.
E quale separazione è la più importante, dai devastanti effetti, dalla conseguenze assolute?
La separazione tra l’io (ciò che rappresentiamo nel mondo) e il sé (ciò che siamo davvero nel profondo di noi stessi) E mai come la protagonista questa complessa ambiguità è espressa. Aley è una creatura profondamente divisa. L’abbiamo lasciata in preda alla terrificante realtà di un mondo totalmente diverso dalle sue aspettative e dalle sue percezioni. In questo secondo capitolo la sua formazione procederà più spedita, provocandole quel dolore necessario a ogni crescita. Aley diviene separata dalla verità espressa da sua zia e la verità che si ritrova nel suo DNA. Pertanto, ogni magia, avventura ha una doppia lettura: da un lato l’esaltazione del fantastico e del terrorizzante, espresso dalla biblica frase
terribilis est locus iste
dovere terribile ha l’accezione di meraviglioso. Dall’altra una profonda, irreversibile e distruttiva crescita psicologica caratteristica dei romanzi di formazione adornata da quei simboli che sono segni e indicazioni che ci informano di essere al cospetto dell’arcano, di quella capacità dell’anima di rendersi deserto attraverso il sacrificio, ma di poter improvvisamente far germogliare questa desolazione in un oasi rigogliosa se si è in possesso del suo personale Graal: la conoscenza appunto del segreto.
Ecco che dietro prodigi magici, battaglie eroi senza tempo si insinua qualcosa di molto più intrigante per il lettore maturo, meno avvezzo a sensazionalismi di moda oggi: lo stravolgimento dei ruoli. La complessità dei personaggi li fa apparire diversi dalle aspettative, nelle loro reali azioni, se si ha la pazienza certosina di sollevare il velo dell’illusione, si ritrovano ossessioni umane, i nostri limiti, il terrore dell’ignoto, la codardia ma anche il senso dell’onore la forza della volontà che rende questo patetica creatura umana degna di imporsi su questa affranta terra.
Nella parabola dell’uomo che cede alla brama di potere, che usa le sue potenzialità, i famosi talenti di evangelica memoria non per coltivare, per seminare, per rendere fertile la terra sia simbolica che reale, la necessità di una cooperazione scevra da pregiudizi e la capacità di sacrificare la propria individualità, i personalismi e le particolarità egoistiche per il bene superiore, rende un semplice libro una sorta di vademecum per questi tempi moderni, sempre più disperati.
Mai come oggi si rendono necessari libri di cotal portata.
Mai come oggi ogni parte di questo strabiliante testo si rivela fondamentale per la crescita intellettuale e umana dell’ignaro lettore, perché dietro le emozioni, le sensazioni più belle possa brillare un valore etico che ponga la parola fine al mero interesse personale.
Compassione, il patto rinnovato tra l’umano e il mondo numinoso lacerato e agonizzante dall’angheria della volontà di possesso, viene esemplificato nel capitolo spettacolare dell’incontro tra Aley e il drago.
E non stupisce apprendere che il drago, essere sacro alla Dea Cibele di cui condivide le caratteristiche ctonie tutela la fertilità intesa come crescita e ciclo evolutivo. Non stupisce scoprire che esso è simbolo del ventre materno a cui è associato tramite la sua dimora la grotta incarnando il ciclo vitale di morte vita rinascita. Antico e saggio difensore delle soglie e dei nuovi inizi immani ricchezze etiche e valoriali conquistate solo dagli eroi che impavidi affrontano i priopri limiti e timori. Non stona questo simbolo della vera battaglia quella contro se stessi e le forze pulsionali profonde contro cui l’io e il sé devono elevarsi, fortificarsi specie durante il personale processo di individuazione che ha come meta ultima lo sviluppo della personalità unica e individuale. Ed è questo che porta all’elevazione dello spirito grazie all’ampliamento della coscienza che diventata immensa, abbraccia e si fonde con l’intero organismo cosmico. Tutto viene ri- armonizzato proprio come ci insegna il drago nella sua veste di Uruborus in cui convivono maschile ( aggressività) e femminile ( capacità di compenetrazione) dissolvendo la vecchia percezione del reale per dare vita al nuovo.
Ed è grazie all’inserimento di questo fondamentale simbolo esoterico che veronica compie un ulteriore passo verso la consacrazione come emergente talento del campo del genere grazie al sapiente uso del simbolismo.
Posso dire che non leggerete solo uno straordinario fantasy ma vivrete una maestosa e grandiosa costruzione etnologica che celebra con delicatezza grandi filosofie eterne, quelle che hanno fondato e spero continuino a sostenere la nostra forse decadente ma sempre viva, civiltà occidentale. Vi lascio con le parole che ho elargito a Veronica nella sua introduzione:
Dietro le storie che colorano di antichità e di eterno il contesto del libro, si manifesta una mitologia reale, scritta in modo comprensibile eppure mai scontato. Il racconto del dualismo tra la divinità materiale e quella spirituale non fa altro che spiegare il moto perpetuo della creazione ponendo in rilievo come sia la dinamicità degli
eventi, come sia l’azione propulsoria dell’attrito tra differenze e contrasti, la vera spinta all’evoluzione in totale e netto contrasto con l’apatia della stasi.
Senza l’altro, senza il contrario, senza quella spunta, tutto rischia di marcire, di fermarsi, di essere semplicemente il nulla. La vita nasce dal pensiero creativo che dà forma e struttura al caos, si mantiene grazie all’attrito causato dallo scontro degli opposti e si evolve tramite la loro corsa eterna che li spinge a superare i limiti imposti da loro stessi. Bene e male, Ghora e Syrio, portano avanti il cambiamento, mettono alla prova l’essere umano tirando fuori da esso il meglio, lo spingono a reagire al dolore e all’orrore cercando di superarlo con gesti di una bellezza sconcertante.
I miei omaggi e il mio rispetto per te, Veronica.