“Il cerchio di Sodoma. All’ombra degli ulivi” di Antonella Cataldo, Pierpaolo Ardizzone, Mezzelane editore. A cura di Alessandra Micheli

 

Ho letto il cerchio di Sodoma prima che fosse pubblicato dalla Casa editrice. E l’avevo trovato molto inquietante, un degno erede dei migliori thriller psicologici stile Wolf Durne. Poi ho avuto l’onore di rileggerlo dopo l’intervento della bravissima Editor Maria Grazia Beltrami e sono letteralmente rimasta a bocca aperta. Quello che già si presentava come un

Viaggio dell’orrore, è diventato una vera porta dell’inferno rigurgitante i peccati peggiori dell’animo umano, invaso dal fuoco della Dea Nemesi e del feroce dio Ares. Vendetta, dunque, brutale violenza, perversioni, e orrore si consumano lentamente tra le pagine di un testo impregnato di profondo dolore. Ed è il dolore che accomuna tutte queste emozioni, che fa da filo conduttore della trama e che, in fondo è il vero protagonista della vicenda.

Troviamo gli stessi protagonisti del primo libro, tra cui un Roberto molto più concreto, non il Master sicuro di sé, e della sua concezione di eros, capace di plasmare la volontà e la personalità della sua Melissa. Qua non troviamo le sfumature dell’amore come nel cerchio, ma semplicemente i mille tentacoli della sofferenza, quella che invade un animo reso forte dalle proprie certezza quando il destino decide che esse vanno totalmente distrutte. Il rigoglioso albero della personalità di Roberto viene brutalmente potato;creando un’angoscia soffocante e claustrofobica. Le prima pagine di questo testo grondano di rabbia, di una sofferenza cupa, senza via di uscita dal quale la speranza della redenzione è totalmente bandita. Ecco perché il peccato diviene l’unico terreno fertile nel quale provare a impiantare una nuova personalità, meno armonica, meno “elegante” ma proprio per la sua capacità pasoliniana di nutrirsi del fango ancor più seducente.

Abbiamo, dunque, il dolore che si riversa in quello che noi chiamiamo peccato. Non a caso la magione dove si consuma il dramma supremo, quello che davvero lacera l’anima creando ombre minacciose, ossia l’omicidio, è teatro di un orribile passato, ma anche il terreno su cui si impianta il nuovo io di Roberto tutto dedito al piacere e alla trasgressione. Nelle stanze adibite a luoghi di perdizione si consumano i desideri e i bisogni, gli impulsi di gente normale, costretta nel proprio ruolo che trova evasione nell’assecondare la loro parte psichica ombrosa.

Nulla di strano in fondo.

Per molti è lo spingersi oltre il limite costituito dalla morale che in fondo li tiene in vita. Il problema è che quel luogo “maledetto” si alimenta di questa vita, divenendo una sorta di vampiro energetico in grado di nutrirsi delle emozioni altrui. Ecco l’identikit perfetto del folle killer: quello di diventare una sorta di contenitore per una rabbia atavica, perduta nei meandri del tempo, vissuta e allattata da una tragedia immane, da una violenza disgustosa che non può non produrre aberrazioni. In fondo il carnefice è sempre vittima. In fondo il dolore è sempre una porta. Il problema è cosa far entrare da quell’apertura, se luce o tenebra. Sta tutto nelle nostre irresponsabili mani. E il segreto, la volontà di onnubilare, il sommo desiderio, nocivo di dimenticare causano la corsa folle verso la distruzione. Di vita, di sogni, di chiunque come Roberto, abbia la capacità e la possibilità di risorgere dalle ceneri e di sfruttare la rabbia come forza propulsiva per continuare, nonostante le mille lacerazioni del cuore, a camminare.

Roberto è il prescelto, colui che dipanerà la matassa del segreto inconfessabile perché, forse, è colui che ha sbagliato mira, che non ha centrato il bersaglio (ossia la sua felicità con Melissa) e pertanto in grado però di riconoscere questo dramma umano e forse di correggerlo. Lui che, con l’arco delle opportunità, non ha saputo scoccare la freccia della scelta, è in grado di riconoscere la stessa incapacità nell’altro. Perché ogni dramma, ogni orrore è soltanto nato da questo: incapacità di scelta. L’incapacità di centrare il bersaglio. Che sia la capacità di vivere un amore, o la volontà di redimere torti, troppo scabrosi per la civile società che fa dell’omertà la sua pietra d’angolo. Solo chi è in grado di sviluppare un animo saldo può togliere tale pietra e far crollare il muro di menzogne, scavare nel passato e liberare una volta per tutti, i demoni dalla loro maledizione.

Del resto il peccato non è soltanto l’infrazione di una regola. Noi siamo abituati a considerare il peccato la derivazione di peccatum dal latino, con il significato di infrazione di una legge stabilita (se infrango una legge, devo pagare una penitentiam ossia una multa o una penitenza). Ma peccato in greco o in ebraico ha un’altra accezione più interessante che lo collega con il testo in questione: ossia amartia e khedìe. Amartia è un termine sportivo che ha il meraviglioso significato di “tirando con l’arco io sbaglio il colpo”. È, una strada sbagliata, una potenzialità fallita, un errore, una mancata precisione in un’azione precisa.

Khedìe è ancora più interessante ossia creare un trauma, e chi causa un trama nell’altro o nella sua società deturpa e interrompe un preciso equilibrio.

Interrompere un equilibrio. Pertanto il peccato avrà diversi modi per essere “risolto” ossia togliersi i debiti nella versione latina (ristabilire una regola infranta) imparare dall’errore nel senso greco, e guarire un trauma. E queste tre meravigliose sfumature di peccato sono alla base della nuova personalità di Roberto. Egli ha subito un trauma da cui deve guarire e lo fa attraverso una nuova visione della vita che celebri la sua esistenza come rinascita, esaltando il piacere godurioso senza pensare al domani, alle regole sociali, alla convenzioni ma solo all’eticità ( non a caso il locale non ammette violenze, costrizioni, distruzione della dignità ma si basa sul rispetto reciproco. Non sono intenzioni di sopraffare l’altro ma solo di trarre beneficio del piacere erotico). Al tempo stesso deve imparare dai suoi errori, la sua convinzione di essere nel giusto, di avere la verità in tasca, di distruggere le sue potenzialità con non scelte. E ultimo, dopo un percorso interiore riparare ai torti ristabilire le regole, ossia svelare non solo l’assassino ma le identità dei protagonisti del dramma sotterrati da anni di ignavia.

E questo percorso è fondamentale per svelare la Vera Sodoma che non è la sua biblica parente. Tutti voi conoscerete l’episodio biblico.

Nell’antico testamento si narra della distruzione a opera di angeli di Somoda, Gomorra Adma e Zoare Zeboim, per opera divina a causa dell’empietà dei suoi abitanti.

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« Avvenne al tempo di Amrafel re di Sennaar, di Arioch re di Ellasar, di Chedorlaomer re dell’Elam e di Tideal re di Goim, costoro mossero guerra contro Bera re di Sòdoma, Birsa re di Gomorra, Sinab re di Adma, Semeber re di Zeboim, e contro il re di Bela, cioè Zoar. Tutti questi si concentrarono nella valle di Siddim, cioè il Mar Morto. Per dodici anni essi erano stati sottomessi a Chedorlaomer, ma il tredicesimo anno si erano ribellati. Nell’anno quattordicesimo arrivarono Chedorlaomer e i re che erano con lui e sconfissero i Refaim ad Astarot-Karnaim, gli Zuzim ad Am, gli Emim a Save-Kiriataim e gli Hurriti sulle montagne di Seir fino a El-Paran, che è presso il deserto. Poi mutarono direzione e vennero a En-Mispat, cioè Kades, e devastarono tutto il territorio degli Amaleciti e anche degli Amorrei che abitavano in Azazon-Tamar. Allora il re di Sòdoma, il re di Gomorra, il re di Adma, il re di Zeboim e il re di Bela, cioè Zoar, uscirono e si schierarono a battaglia nella valle di Siddim contro di esso, e cioè contro Chedorlaomer re dell’Elam, Tideal re di Goim, Amrafel re di Sennaar e Arioch re di Ellasar: quattro re contro cinque. Ora la valle di Siddim era piena di pozzi di bitume; mentre il re di Sòdoma e il re di Gomorra si davano alla fuga, alcuni caddero nei pozzi e gli altri fuggirono sulle montagne. Gli invasori presero tutti i beni di Sodoma e Gomorra e tutti i loro viveri e se ne andarono. »  

 (Genesi 14,1-11)

 

Ora Sodoma è passata alla storia come una vicenda sulla corretta morale sessuale, ma in realtà è una considerazione sulla trasgressione del concetto di ospitalità. Ma questo discorso lo affronterò in un altro articolo. Quello che mi preme sottolineare è che la trasgressione più grande del cerchio di Sodoma non è nelle stanze della libido. Non è nella volontà di abbeverarsi dei piaceri del corpo. Ma è l’orrore di chi approfitta di anime innocenti “ospiti” nella casa che dovrebbe dare loro sicurezza, amore e protezione, approfittandosi della loro ingenuità, del loro essere indifese. La vera Sodoma è nella casa di Villa Ortensia. La vera Sodoma è nei segreti che ne permeano ogni anfratto, resi stantii e dal lezzo insopportabile dalla complicità dei poteri.

E le scoperte di Roberto rendono più stridente la volontà dei due autori di raccontare un altro aspetto della morale sessuale: non è peccato l’eros in ogni sua forma. È orrido e osceno peccato sottomettere le anime, insozzare la purezza, e appropriarsi dell’integrità di ogni spirito. È peccato nascondere il marcio sotto le assi sconnesse di un pavimento oramai marcio. È peccato accettare il perbenismo e l’immagine sociale e sacrificarle sull’altare della giustizia. È immorale dominare senza consenso. È osceno causare traumi alle persone. Sono altre azioni quelle che devono farci rabbrividire. Sono quelle che sacrificano la persona al ruolo sociale, la giustizia al mantenimento dell’apparenza. Sono altre le catene da temere.

E sono fiera di aver letto un testo che denuncia, finalmente il vero dramma della nostra oscura società il potere e la finalità cosciente. Perché sono quelle che si appropriano dell’umanità delle persone privandole della loro dignità, della capacità decisionale, del loro beneplacito e della indiscussa sovranità sulla loro vita e sulle loro emozioni.

Non è il sesso il pericolo.

È la privazione della volontà di poter dire si o no.

Complimenti davvero per il meraviglioso coraggio

 

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