“Lupi nella nebbia- Zanne” di Franco Mieli. A cura di Alessandra Micheli

 

Quando recensisco so di essere un anacronismo vivente. Forse è per questo che il blog che gestisco diventa un’innovazione rispetto al panorama abituale. Questo perché cerco di entrare nel libro, lasciarvi avvolgere dalle intenzioni dell’autore nella strenua convinzione che, dietro parole scritte, pagine e pagine, si celi un intento comunicativo. Ogni genere, ogni trama, ogni piccola tecnica letteraria servono per darci un’immagine di questo tentacolare reale che ci sfugge, che ci annichilisce con le sue assurde contraddizioni. Un mondo troppo variegato per essere totalmente compreso da clichè, da idealtipi, da convenzioni. È un po’ come indagare la società. Quando vogliamo comprenderne un problema, lo sezioniamo, lo spezzettiamo in ogni suo piccolo componente. Lo studiamo grazie alle discipline scientifiche, umanistiche, grazie alla psicologia, alla semantica, alla semiotica. Ma questo ha il suo lato negativo: è nostra umana tendenza considerare una parte come rappresentazione del tutto, invece di vederla per la sua reale natura. Ossia uno spezzone di una catena più lunga, che possiamo forse vedere solo in piccole parti e mai nell’insieme. Tendiamo a considerare la mappa faticosamente creata come il territorio che andiamo a indagare. Sacrificando la comprensione globale a piccole compartizioni stagne, che sono solo un invito a curiosare e non il fine ultimo a cui aspirare. È per questo che alcuni sociologi hanno proposto l’approccio multidisciplinare, quello che indaga un elemento, un fenomeno, o perché no, un emozione da più angolazioni, usando tutte le discipline a nostra disposizione. Sociologia, scienza naturali, comunicazione, linguistica, letteratura, antropologia e via discorrendo. Ecco, io sono figlia di quell’approccio che ebbe tanta risonanza a Palo Alto e che ha prodotto una vera rivoluzione scientifica, acquistando il nome di approccio cibernetico. Ma questa è un’altra storia.

Quello che mi interessa sottolineare è il mio approccio alla letteratura e come esso parta dalla mia deformazione professionale. Un libro non sarà mai solo trama, solo linguistica, solo significato, solo anima, solo psicologia ma sarà l’insieme di ogni elemento che pertanto non sarà mai il principale, ma sarà sempre concatenato all’altro in una splendida catena che ne rappresenta il DNA fondamentale. Ecco io vado a scoprire il DNA del testo, identificando ogni genoma, ogni amminoacido, conscia che questo funziona perché legato indissolubilmente a una specifica omogenea struttura. E che la stessa legge di sintassi, la stessa semantica, sarà usata solo per aggiungere altri settori, perché la catena generi VITA.

E così ho approcciato il libro di Mieli. Letto come se fosse una melodia formata da singole note, che ne donano la peculiare originalità senza soffermarmi troppo se un Mi maggiore era meglio o no di un Si bemolle. Quello che mi interessa è che musica produce, sapendo che non sarà mai tutto jazz, tutto rock o tutto pop, ma che sarà semplicemente musica.

I due libri di mieli sono apparentemente scollegati. Eppure entrambi i thriller parlano di un mistero molto più ampio di un omicidio, di cui lo stesso non è altro che prodotto: la società.

È in quella strana struttura che matura la volontà di reagire a un torto, vero o presunto, con la violenza. Unica voce in grado di surclassare le tante, troppe, che oggi sussurrano. Ed è nell’ambito di questa società piena di contraddizioni, di distorsioni, di piccoli costanti svilimenti dell’umana dignità, che i mostri hanno la possibilità di manifestarsi.

Sono sempre più convinta che una città ricca di dissidenti, di devianti, sia fondamentalmente una società a rischio, malata e disarmonica. Sono sempre più convinta che le azioni irresponsabili che ci distinguono oggi, siano il frutto di un’errata visione dell’essere umano, troppo spesso sacrificato al nostro particolare Sabato. E per descriverci questo, Mieli ricorre a un astuto stratagemma: creare il suo “Deserto dei tartari” in cui estrapolare uno dei difetti per poterlo raccontare e restituire al lettore in modo crudo, senza giustificazioni, senza alibi. E infatti in “Lupi nella nebbia” i buoni e i cattivi si confondono e tutto diviene evanescente quel tanto da farci comprendere come in quel misterico posto, in quella zona di irrealtà, quella dominata dall’economia sotterranea, si sta nella zona pericolosa e tetra del grigio.

Perché vedete, i reati ivi descritti non sono altro che azioni al limite dell’illegalità. È dalla corruzione, da affari poco chiari simili alla nebbia che aleggia nel luogo, che si manifesta la violenza brutale, quella che ci rende indistinti, senza faccia, numeri sulla grande scacchiera della finanza. La sete di potere, la volontà di emergere fanno da contrappasso a una strana e oscura finanza caliginosa, sommersa, così difficile da illuminare e così socialmente accettata da sembrare quasi gradita. Del resto, un imprenditore è costretto se vuole far parte del sistema capitalistico a speculare, a cercare piccoli compromessi. A soddisfare le aspettative del potente, minuzie, quisquiglie che non giustificano certo la sanguinaria violenza che all’improvviso irrompe nel libro. Le persone su cui essa si riversa in fondo sono bravi cittadini. È vero, sono i responsabili dell’abusivismo edilizio. Sono avvezzi alla mazzetta. A volte sembrano giocare con i destini dei giovani, con i loro sogni. Ma sono minuzie che non sono punibili se non con un placido dissenso, una ramanzina e un tedioso e pigro “non si fa”.

Eppure… Vedete, noi siamo così abituati alla corruzione, al clientelismo, al nepotismo che tutto questo, durante la lettura, passa inosservato. Ci si concentra sull’atto brutale il vero orrore del testo. Eppure… l’intero libro è cosparso di abomini. Le persone “vittime” sono essenzialmente carnefici. Parti di un turpe messianismo che spersonalizza chi ve ne fa parte. Una volta entrato in quel sistema di pensiero (è pensiero prima che azione) siamo solo piccolo oggetti che lo stesso sistema costruttivo usa. Ecco perché sono senza faccia, prima che una orribile mazza chiodata, si avventi sui lineamenti. Questo offuscato paesino, preda dei lupi, nel loro simbolo più distruttivo, è semplicemente condannato, maledetto, perduto. Perduto perché uccide i giovani e soprattutto i loro sogni. E privato di una linfa vitale, l’unica che è in grado di innescare il moto rivoluzionario, diventerà sempre più nebbioso, sempre più al limite, incapace di redimersi nonostante lo svelamento dell’assassino e delle sue motivazioni.

Anzi, queste non faranno altro che accentuare il degrado a cui assistiamo inermi, consci che parte di quel degrado, portato ovviamente all’estremo in un abile artifizio letterario, è una parte anche del nostro quotidiano.

È storia risaputa che neanche lo sport si salva dal marcio. È storia di oggi la degradante scoperta della corruzione degli imprenditori sportivi. Di partite truccate. Di talent scout avvinti più dal soldo che dal talento. E non si salva neanche l’arte. Non si salva, forse, più nulla.

Ci restano sogni, lontani ricordi, minacciati da lupi famelici. Ci resta solo una vaga sensazione di avere un volto, oramai confuso con l’orribile banalità, con la deleteria tendenza all’omologazione. Tutti oramai oggetti e non soggetti.

Questo tema è ripreso anche in Zanne. Con la differenza che qua Mieli ci parla del rischio di tale omologazione. Ossia L’avvento del cosiddetto populismo. O peggio della vocazione all’estremismo.

E infatti il tema del secondo libro è ancor più inquietante, molto più del sottofondo del thriller: persone che per reagire alla de-identificazione causata dall’omologazione, s rifugiano in antiche idee di splendore, idiosincratiche con i tempi attuali, ma dotata di quella sensazione di appartenenza che oggi, inesorabilmente sfugge. Siamo tutti figli di una società allo sbando, fantasticamente unitaria, globale eppure carente di rispetto per l’individualità. Tutto a portata di mano, distanze sempre più corte, la capacità di gestire tempo e realtà attraverso una tecnologia sempre più sofisticata. Scriveva un grande Baudrillard che la televisione uccideva la realtà con la sua capacità di plasmarla, di evitare la scelta, di renderla fruibile a tutti, di semplicemente sostituire l’esperienza diretta con quella mediata dallo schermo. Gli spazi subiscono una distorsione, un cambiamento feroce che spezza l’ultima solidarietà tra vicini, troppo impegnati a prendere a piene mani il nuovo che avanza e che invece di avvicinarli li allontana. Scompaiono le distanze reali ma aumentano, per ironia della sorte, le distanze morali e affettive. Ci sentiamo perduti, in questo mondo troppo vasto che ci mette troppo alla prova. Grazie al confronto sfrenato, le tradizioni perdono di emotività. Vengono destrutturate e criticate senza che, però, siano sostituite da nuove. E così i valori.

Ma l’uomo orfano di significati e di sostegni (culturali e tradizionali) si sente privato di un importante pezzo della sua personalità. Perché siamo fatti di istinti e di raziocinio, di concretezza e frivolezza, di logica e di irrazionalità. Non è un caso che Pareto parli di radici non logiche nelle nostre azioni, individuando nei grandi sistemi materialistici di pensiero delle fonti uscite a pieno titolo dall’ombra junghiana. Bateson parlava di una commistione interessante tra sovrannaturale e meccanico, raccontando come l’uomo, in fondo, fosse figlio di due sistemi che lungi dal combattersi si compenetravano, si abbracciavano e si fondevano.

E Mieli sa spiegare questi concetti, spesso difficili, raccontando come alla perdita di identità si sostituiscono altri valori, a volte oscuri, a volte macabri. Così la tuscanica reagisce alla speculazione edilizia sfrenata, alla finanza che tutto monetizza (anche i valori) con i fasti di un tempo passato, resi più cruenti da quella rabbia di chi perde lentamente, una parte di sé stesso. Così, riti arcani sostituiranno piano piano l’appartenenza civile. La storia etrusca rappresenterà la rivincita di una popolazione sottomessa dai romani, che rialza la testa e cerca di nuovo sé stessa. Questo scontro non sarà altro che il simbolo della lotta di oggi tra periferia e centro, tra valori civili e bisogno di un significato più irrazionale, più magico, di una vita privata del suo senso sacrale.

E un sacro beffato, deriso e dimenticato non può che produrre mostri, non può che dare noi uomini in pasto alle peggiori fiere che i nostri incubi producono.

Senza la ferma mano di una mente capace di rielaborare la realtà e sostituire gli assunti culturali, mantenendo quella tradizione “magica”, le fiere saranno libere di scorrazzare e di ridurre in macerie sanguinose il nostro io e la nostra distratta realtà, restituendoci non la storia, ma soltanto tristi macerie.

Ecco che il perfetto thriller di Mieli diventa stratificato, sta a voi leggerlo per diletto o per risvegliare la mente sopita all’arte della riflessione.

Io però vi invito a leggere anche il significato più profondo di questi due libri, per render merito a un autore coraggioso e di un grandissimo valore civile.

I miei omaggi, Franco!