Sin dal suo esordio con il libro il codicista finale Aldo de Virgilio ha mostrato notevoli capacità critiche, verso una società che appare sempre più traballante.
Cosi insicura da doversi appoggiare a una nuova religione, quella della sacra burocrazia in grado di organizzare in modo più o meno rigido ogni nostro atto.
Dalla rivendicazione civile, alle semplici richieste di diritti.
Tutto scritto, tutto indicizzato, affinché l’ordine prenda il sopravvento sul deleterio caos.
Come se bastasse una richiesta formalizzata, un preciso iter burocratico per salvarci, o per garantire pagamento di imposte o rivendicazione di semplici bisogni.
Devi richiedere l’esenzione?
Segui il modulo.
Devi fare una richiesta?
Ecco il modulo.
Devi spedire un regalo?
Modulo.
Mica puoi andare direttamente dalla persona.
Non c’è tempo.
Non si può
Devi poter pensare?
Un modulo.
Non vorrai certo andare al di fuori delle convenzioni civili?
Ecco come viviamo.
All’esterno il mondo, anzi la terra, inizia a borbottare, sempre più forte. È stanca di stare ferma mentre noi ci muoviamo come formiche ossessive.
Noi cerchiamo un ordine pedissequo in ogni accadimento umano, persino nelle arti.
Tutto è schematizzato, rigoroso un inno in onore di quel Dio mammona tanto deprecato nel vangelo.
Ma in fondo noi codicizziamo anche quello.
Persino Gesù, prima di buttare all’aria i banchi davanti al tempio, ha riempito un modulo in cui dichiarava il pieno possesso della sue facoltà mentali e si prendeva la piena responsabilità delle sue azioni.
E magari accettava anche la diffusione dei dati personali.
A un network fintamente ribelle, guidato dall’espressivo Massimo Giletti.
Ecco la nostra vita.
Una gabbia dorata, senza sforzi, senza voli pindarici.
Ah, non lo sapevate?
Anche l’arte è oramai standardizzata in precise regole che garantiscono la creatività.
Viva il colto world building!
Mi raccomando la cover, deve seguire il marketing e proporre una property adeguata.
Persino i rapporti umani o intimi seguono una loro linea gerarchico precisa. Prima un bell’incontro su internet, uno scambio di JPG, una call su skipe e forse dopo un matrimonio da immortalare su instangram.
Alla faccia del romanticismo.
Se avanza tempo e volontà possiamo farci riprendere da real time, mentre liberiamo colombe impazzite che ci guardano stranite.
Eppure, nonostante abbiamo metodicizzato persino il sesso, il matrimonio ( ricordatevi di comprare il vestito e fare la gara a chi ha il miglior ricevimento di nozze, altrimenti il lieto giorno non esiste) c’è un qualcosa che rifugge questa nostra pazzia, questa nostra malata ansia di esistere,immortalando il momento da foto o telecamere: la natura.
Ringraziando la buona divinità essa ancora sfugge a questo nostro tentativo di dominarla.
Anzi.
Spesso ci lascia fare, salvo poi ribellarsi insoddisfatta e leggermente irritata, alla nostre sciocche misere volontà di conquista: una casa su uno strapiombo ( ovviamente condonata) fatta crollare da quella maligna montagnola di rocce e terra.
Terremoti che sono quasi un urlo agghiacciante di una divinità selvaggia e poco incline alla sottomissione.
Un fiume che rompe i nostri miseri argini e ci trascina con sé, ricordandoci a noi esseri spaventati che, per dirla alla Bateson il dio Eco non si può beffare.
E non lo si coccola promettendogli una diretta su sky. O una partecipazione a un reality.
Essa ha e ci mostra cosa davvero significa ciclo naturale, sorda ai nostri disperati tentativi di dire: no.
Non siamo noi a ereditare la terra.
E’ la terra che ci ospita.
Siamo noi a dover necessariamente accettare le sue leggi.
E sapete quali sono?
Rispetto.
Collaborazione.
Cooperazione.
Integrazione.
Tutte parole che rifiutiamo perché tutti propensi a venerare un sistema basato ancora su vinti e vincitori, sul business, sul lucro, sulla finalità cosciente, sulla competizione sfrenata, laddove leggi sane non hanno possibilità di fiorire.
Seppur questo patetico tentativo di tornare ad avere un sistema binario Amico-nemico, di noi contro gli altri, noi persino contro nostra madre, la terra continua a mantenersi, nonostante il suo fetore cadaverico (di marcio). La natura ci dimostra non soltanto la fallacia del sistema, ma la sua stupidità.
Noi ci affanniamo a costruire, a voler comandare, a imprigionare.
E lei si scuote come una fiera leonessa, ridendo beffarda di noi miseri mortali. E non ascoltiamo la sua voce.
Perché se l’ascoltassimo ci parlerebbe di un tempo lontano, il tempo del sogno ( espresso mirabilmente dalla mitologia aborigena) in cui bastava cantare o incantare, bastava nominare il creato per farlo esistere. Nel canto, in quella musica che proveniva da alte sfere, noi intessevamo il sogno di essere splendidi ibridi, metà materia e metà spirito.
Era il nostro sforzo creativo a bagnare di rugiada la terra.
Non il sangue.
Non i cadaveri.
Non i soldi.
Non le costruzioni simili ad arroganti torri di Babele.
Roccapiatta è questo.
Un avamposto di sogno che si erge come un faro in una distesa desertica, dove in fondo, una pianta millenaria capace di adattarsi, di trasformarsi in accordo con i cambiamenti climatici,per noi è semplicemente il modo per prolungare la nostra stantia vita.
Beh sapete?
Una vita senza sognare io non la desidero.
Una vita senza poter più ascoltare il respiro della mia terra, non la desidero.
Vorrei ancora quella capacità di immaginare e di ricreare, di tornare alla vita ab origine…perché lo sento e lo sentite anche voi, che ci manda, disperatamente, struggentemente qualcosa.
Esistono abitanti delle zone più remote del pianeta che hanno ben presente il valore della grande madre; esistono popoli primitivi che fiutano l’odore di una pianta a chilometri di distanza, che parlano agli animali, che si orientano senza bussole, che non lasciano orme quando passano sulla sabbia… Sono gli ultimi figli della terra, i suoi eredi legittimi, gli unici degni di combattere l’unica guerra che oggi avrebbe un senso combattere, la difesa del pianeta da noi stessi.
Ma se noi, se noi occidentali… li imitassimo?
Aldo de Virgilio
Leggete questo sogno assieme e me. E imparare a cantare perché dal deserto nascano fiori.
Sono l’eco della mia terra
il suono del mio tamburo
Sono il sangue che mi scorre tra le venerare
Sono il sale del mio cuore
Sono parte dello stesso fuoco
e sono la voce di uno stesso cantare
La meraviglia benedicente di mille razze
sono il mio orgoglio di essere
Cosa posso chiedere al cielo?
SE mi ha dato la sua benedizione
La mia terra il mio canto la mia lingua
E per scudo questa canzone.
Ricky Martin