La societa’ dei magnaccioni
la società della gioventù
a noi ce piace de magnà e beve
e nun ce piace de lavorà
Un annuncio ai vegani e vegetariani: non leggete questa recensione.
Anzi vi consiglio di mettervi a fare altro, che so, l’uncinetto. Qua si parla di cibo! Ma non di cibo nel senso moderno del termine.
Si parla di ricordi, di fantasia, di sensazioni tattili per onorare quel corpo, che una certa tradizione strana e perniciosa, ha relegato nelle regioni del male. Ogni vizio, ogni cedimento, ogni atto godurioso, che sia sesso o che sia gola viene oggi condannato. Del resto siamo una società anoressica. Priva di spontanei moti dell’animo troppo frustrati e attenti, all’apparenza, per gustare i piacerei della vita. Anche se la cucina è sdoganata dai mille reality sui cuochi, essa resta sempre effimera, evanescente, legata comunque e sempre all’estetica.
Il piatto langue, pregno di bellissime composizioni, di colori, ma priva di gusto e sapore. Giusto il nostro moderno eroe, il buon vecchio Rubio, ha finalmente riportato in rilievo la bellezza del mangiare, la dolcezza della convivialità, il senso ribelle della caloria. Mangiare non è solo un fatto di sopravvivenza, ma è un piacere che penetra l’animo, che si nutre di effervescenti e idilliache sensazioni corporee.
Tutti i sensi vengono sollecitati da un piatto che ha sempre il sapore di casa e di ricordi.
Un piatto, un dolce, uno spaghetto con il pomodoro, non deliziano solo il gusto, il palato e l’anima, ma soprattutto la mente, perché ci riallacciano a un senso atavico di casa che da sempre il cibo è collegato. In fondo la cucina nei sogni è un simbolo importante del nostro Io. Il cibo siamo noi, siamo ciò che mangiamo, siamo ciò che mangiando riusciamo ad avvertire con dei sensi mai prima sperimentati, quel terzo occhio che ci apre la vista su un universo sconosciuto. Platone lo chiamava iperuranio, io mondo magico dei faerie, mia nonna il mondo dei nostri antenati. La mamma della mamma, che aveva il suo ingrediente segreto, per i carciofi alla romana…no non era mentuccia…forse un pizzico di acciuga.
La filastrocca che ho scritto all’inizio è per me fonte di una dolcezza che mi commuove.
Eh si ragazzi miei!
È una delle più famose stornellate romane, protagonista di tante scampagnate della mia gioventù, dal profumo di abbacchio, di coratella e di costolette di maiale rosolate con attenzione alla brace.
E attraverso il fumo dell’arrosto, in quella pineta di ostia piena di grida e di canzoni
O chitarra romana…
casetta de Trastevere…
E quella più irriverente e spensierata di fiori trasteverini, faceva da colonna sonora ai sogni che attraverso il fumo della brace si apriva ai miei occhi.
Fiori, immagini di animali strani e quella Ninetta, più bella delle principesse Disney con le sue gote rosse e i capelli neri, di cui parlavano gli stornelli che amava cantare mio padre.
Sei romana, Ale!
Lo dice il cibo che oggi mangi con le lacrime agli occhi, mentre un tozzo di pane secco si immerge in quel sugo strano, corposo come le tradizioni che mi facevano crescere che mi regalava di soppiatto mia nonna, con un occhiolino. Sugo che sapeva di esperienza di un mondo fuso con tante voci diverse, che sapeva di Marche e Roma, con i funghi che danzavano con le interiora di pollo, e raccontavano storie, in una strabiliante danza.
Oh meravigliosa signora dai candidi capelli, dal fazzoletto dentro il cappotto impeccabile, che al mercato, ricco di voci e meraviglie contrattavi il prezzo di funghi e di rossi grossi pomodori, da fare con il riso! “Buoni mi raccomando che sono per mia nipote e lei deve crescere!”
E sembrava un guerriero pronto a difenderci con una spada, che era un’elegante borsetta.
E cosa dire di te nonna Valeriana?
Con quei crostini magici, ripieni di un salmì tosco viterbese, e quella magia di riempire una gallina con mille particolari ingredienti, che facevi vedere solo a me, un segreto nostro, nonna mia.
Un segreto che oggi rimpiango, perché non sei lì con me a girare l’intuglio magico con il mestolo, tu magica bellissima strega, dal viso concentrato ma dal profumo dolce che m’inebriava. Io sono cresciuta così, con voi.
Con le storie mentre cucinavate, con i racconti antichi di persone sconosciute e al tempo stesso vicine a me.
Te le ricordi Zia Norma?
Il più bel ricordo di te, noi due in cucina mentre impastavi raccontando di quante belle trecce lunghe avevi, e fuori il sole…
E oggi vi ritrovo orgogliosa nei tratti del mio volto.
Ecco, il cibo è questo.
Sono antichi echi, è il tuo legame con le tradizioni e il territorio, che si arricchisce a ogni viaggio.
Elio Brossa non racconta solo ricette.
Per ogni segreto culinario ci regala una storia, che sia ricordo o quelle stesse fantasie che si rendevano corporee attraverso i fumi e gli effluvi. E al pari mio immagina balli sfrenati tra tacchini e funghi, tra maionesi che corteggiano pesci in livrea con quei deliziosi ciuffi di prezzemolo, ad adornare il loro taschino. Leggerti è tornare un po’ bambina e usare la fantasia su tutto ciò che mi circonda.
Leggerti è entrare nella tua vita con quel sano stupore che tanti libri colti mi fanno scordare. Leggerti così rapito, così fanciullesco, ma con una saggezza che bramo e per cui ti ammiro, è sentirmi meno automa, meno assetata.
Le ricette in salsa metropolitana sono un po’ come me, e io sono un po’ come Elio: eterni sessantottini in cerca di piaceri che non si possono comprare, nè avere in omaggio con Amazon.
Tornate bambini e fatevi meno problemi, gustate il cibo e godete di quella convivialità che davanti a una tavola si accende, perché quei momenti di brindisi, di allegria, di sapori e odori, rischiano di non tornare più.
E in omaggio a te grande uomo, sorseggio in vinello trasteverino, gustandomi con godurioso trasporto, un pezzo di bruschetta co’ l’ajo, farà male al mio alito, ma tanto bene al mio spirito.
Per Angela (Marietta)
Valeriana (Valeria)
Norma.
I miei angeli che vegliano su di me