Deborah Muscaritoli non è un’autrice. E’ una nipote devota e amorevole che ha deciso di mettere per iscritto le esperienze vissute dal nonno durante la Seconda Guerra Mondiale.
Lo dice lei stessa nell’introduzione del “diario”:
“… ho sentito la necessità, il dovere e la responsabilità di scriverlo…”
Non lo scrive per se stessa, ma in memoria di quanti come lui hanno combattuto e sofferto e, soprattutto, per le nuove generazioni affinché:
“sia testimonianza diretta di quanto accaduto… perché è necessario conoscere il passato onde evitare che gli errori si ripetano…”
Ecco che il libro diventa staffetta, e Deborah Muscaritoli, passa il testimone verso il futuro.
Antonio viene chiamato alle armi il 4 gennaio 1941, messo alla ferma per due anni in qualità di allievo marconista. Orgoglioso di servire il suo Paese, mette tutto se stesso nello svolgimento del compito a cui è assegnato, collegamento radio tra l’aeroporto di Albenga e il comando militare.
Grazie alla sua posizione, viene a conoscenza di informazioni riservate tra queste la dislocazione delle truppe sui vari fronti. Quindi si può ben affermare che svolge un ruolo delicato e di responsabilità che richiede grande fiducia da parte del Comando Militare cui appartiene.
A seguito dell’armistizio, le truppe tedesche catturarono centinaia di migliaia di soldati italiani, tra cui Antonio che, rifiutandosi di collaborare con i tedeschi, venne deportato nel Lager Nazista Dora-Mittelbau, nel quale trascorse due drammatici anni. Nel libro, tutto ciò che ha visto e subito viene accuratamente attestato da documenti originali rinvenuti negli archivi storici di competenza.
Non mi voglio soffermare sulle sofferenze patite da Antonio e da quanti come lui, all’interno dei lager, invece, mi piacerebbe soffermarmi su quanto accadde successivamente l’Armistizio.
Questa parte di storia italiana, ben sviluppata nel libro tanto da indurmi ad approfondire il tema, è poco accennata sia in narrativa che in storiografia, presupposto questo, che induce a far dimenticare, a far rimuovere dalla nostra conoscenza culturale nazionale.
Il Generale Badoglio ritenne opportuno non informare dell’armistizio neanche i suoi collaboratori più stretti allo scopo di salvaguardare gli interessi della Casa Reale e se stesso. Il proclama pubblico colse il nostro esercito completamente impreparato, al contrario di quello tedesco che già dal mese di luglio aveva posto in essere piani in vista di un eventuale “tradimento” italiano. Le truppe tedesche, perfettamente istruite, vennero trasferite al Nord Italia, punto militare strategico per la protezione dei confini, ricco di industrie e di potenziale manodopera. Inoltre, il Comando Militare, aveva da tempo dato ordine di affiancare le truppe italiane ovunque fossero dislocate, fu quindi immediato e facile, circondarle e disarmarle.
Ai nostri militari venne chiesto di combattere al fianco delle truppe tedesche, l’alternativa era la prigionia, ma oltre 600.000 militari rifiutarono di collaborare; vennero ammassati in vagoni bestiame e rinchiusi in campi di lavoro in qualità di Internati Militari a vantaggio del Duce, che propagandò l’avvenimento come successo politico dovuto alla sua influenza sul Reich e a vantaggio del Fuhrer che guadagnò una massa di lavoratori a costo zero. Inoltre, non riconoscerli come prigionieri di guerra, permise la non applicazione dei diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra del ‘29
Nel ’44, a seguito di forti pressioni della Croce Rossa Internazionale che voleva sapere le sorti degli IMI, Mussolini promosse un nuovo accordo con Hitler che prevedeva la trasformazione degli IMI in “liberi lavoratori civili” dietro firma di un apposito documento da parte degli internati. I nostri militari rifiutarono tale accordo, nonostante le vessazioni e prevaricazioni che dovettero subire, tanto che Hitler dovette, nel settembre del ’44, trasformare “d’ufficio” le loro figure. Questo accordo prevedeva la cosiddetta “libertà nei campi”, ovvero potevano uscire dal campo di prigionia e andare a lavorare nei paesi vicini sotto scorta delle SS. In realtà fu una prigionia odiosa, progettata a tavolino, avallata da Mussolini, accompagnata dal silenzio più totale del Governo Italiano e considerata “collaborazionismo” dagli Alleati. Un marchio di infamia che i soldati italiani subirono fin oltre la fine della guerra che avvenne nel Settembre del 1945.
A Giugno 1946 il Governo Italiano non aveva ancora inviato in Germania alcuna Commissione incaricata a proteggere gli IMI e ad organizzarne il rientro in Patria.
Questa parte di storia italiana, a mio avviso, meriterebbe essere approfondita anche a livello scolastico perché, se è vero che gli errori e gli orrori dovrebbero insegnare e renderci migliori, non è oscurandoli che si possono migliorare le future generazioni né, tantomeno, approfondire solo quelli perpetrati da un solo fronte.
Un libro che riapre ferite non sanate a causa dell’ostracismo che ancor oggi si perpetra.