Quando ho iniziato a leggere il vicolo delle Belle, mi sono subito innamorata delle descrizioni.
E ho riconosciuto in esse la mia visita alla splendida città di Terracina, ricca di storia e di magia.
In quei luoghi incantati si sente davvero la mano soave del mito e delle leggende, le cui voci risuonano sia di fronte al meraviglioso tempio di Giove che in quelle distese azzurre, in cui è facile perdersi morire e rinascere.
Del resto non lo raccontava Baudelaire?
E tu sempre amerai uomo libero il mare
Ed è vero.
Chi è davvero libero, libero da se stesso e dalle catene dei proprio impulsi, della rabbia, dall’incapacità di farsi accettare, non può non amare il mare.
In fondo, è l’elemento acqueo che pervade davvero la nostra vita, quella reale, quella interiore, non quella che tanto ci piace oggi e che è tutta dedita all’apparenza.
La questione libertà ha sempre avuto per me una grande rilevanza essendo da sempre, dai 12 anni ( si sono precoce) oggetto di squisite riflessioni filosofiche: cosa significa essere liberi?
Fare tutto quello che i miei vizi mi chiedono?
Essere senza legami?
O semplicemente viaggiare sotto le stelle e con una chitarra raccontare l’emozioni della peregrinazione?
Non è un caso che i miei libri preferiti sono quelli hipster, che il mio vangelo è ancora Pic o sulla strada di Kerouac. Non è un caso il mio amore verso le canzoni country che sapevano di immensi spazi capaci di abbracciare il cielo e quelle distese interiori senza confini o orizzonti.
Poi con il tempo, la mia riflessione si è fatta politica.
Mi sono chiesta come mai l’uomo che dovrebbe amare quella sensazione di vagabondaggio, cosi mutuate dalle vere autentiche idee di Woodstock, fosse stato da sempre incatenato.
Ed in questo caso è nella storia la risposta.
Nei secoli donne, uomini bambini erano considerati meri oggetti di scambio.
E la cosa più drammatica era la coatta accettazione, quasi rassegnata a questo ruolo subordinato, inesistente, e sopratutto NON SCELTO.
E passi per i secoli bui, quelli ammantati da una finta religiosità, da una necessità di porre un freno e di trovare certezze in un mondo in costante cambiamento.
Diverso era il discorso quando si parlava del IX secolo.
Troppo colto, troppo scientifico per porre ancora ruolo cosi rigido a una parte della società.
E troppo profumato di evoluzione per considerare quella parte di società non degna di diritti, ma solo di strani doveri.
Alla soglia del nostro ventunesimo secolo ancora sento parlare di puttane, di femminicidio, di diritti negati, di compravendita del sesso.
E dove sta quindi il nostro progresso?
Il racconto del vicolo di Belle, non è solo quello della riappropriazione del passato per poter vivere e sbrogliare il presente.
Non è solo il racconto mirabile dell’accettazione e della rinascita di una donna che cerca costantemente una definizione che le appartenga e che non fosse elargita dalla società.
Non è solo il racconto scomodo di come l’amore non segua le nostre sciocche regole.
Ma pone due protagoniste vittime delle assurdità di una vera guerra, che sfociò solo in ultimo nel secondo conflitto mondiale.
La vera guerra era quella sociale, quella che cercava di svincolarsi da ataviche convinzioni che ponevano l’altra parte della luna, in condizioni di ignoranza e quindi di sudditanza.
Ragazze vittime delle atrocità di un padre senza coscienza, o vittime di una marito violento perché frustrato.
Vittime di una madre convinta che la sopravvivenza significhi la rottura di ogni remora etica.
E che però si lavava la coscienza andando in chiesa e pregando un dio che lacrimava davvero sangue, vedendo come la sua umanità si prostituiva e non faceva dell’ostacolo stimolo alla virtù.
E’ la banalità del male, perso in piccoli anfratti, in microscopici gesti, giustificati dalla frase e vabbè erano altri tempi, ci stava, era giusto.
Il nostro mondo è un eterna giustificazione continua e patetica.
La nostra società reitera, seppur in altre modalità più occulte, comportamenti che fanno della donna mero strumento.
Di marketing.
Di share.
Di like.
Corpo e mente sacrificati sull’altare del business.
Se prima era difficile per Rosa e Nina pensare a alternative, perché il mondo queste non le voleva, oggi noi donne bestemmiamo le memorie di queste donne reali, vissute in ogni epoca, magari nonne, o zie, o madri, sputando sulle possibilità che abbiamo.
Possiamo studiare, ereditare, farci il culo perché sia ammirata la persona e non una tetta o un culo rifatto.
Possiamo ribellarci fregandocene della morte sociale, perché è cosi vasto il mondo, cosi ricco da poter ricominciare ogni volta.
Eppure non lo facciamo.
Non vogliamo comprendere, superare i limiti a cui siamo abituati, troppo schiavi della nostra cultura, ma sempre capaci di giudicare l’altra.
E Marika ce lo dimostra con la storia di Hussed.
E’ facile condannare il mondo islamico, per le sue mancanze di rispetto. Facile dire io mi sono sottomessa per amore, quando è una vita che ci siamo sottomesse alla storia.
Siamo figlie e nipoti di donne che hanno vissuto le stesse cose, se non peggiori, in periodi neanche tanti cosi lontani.
E’ storia degli anni ottanta quella di Lara Cardella.
Quella bimba che non poteva indossare in pantaloni in una Sicilia cupa, a cui mancava davvero solo il burka.
Allora prima di giudicare, puntare il dito con la strafottenza dello straniero, impariamo a far pace con la nostra di storia.
Magari attraverso l’archetipo eterno di Nina e Rosa.
E magari da quelle macerie iniziare a conoscerci e creare una donna nuova, capace di capire e di piangere sulle ferite.
Perché solo le lacrime sanno curare e solo la vera femminilità sa perdonare, perdonarsi per ricominciare.
Ed è li il vero cambiamento.
Quando il cuore è stanco di soffrire e cerca quella libertà che ho sempre respirato io.
Un libro dai mille significati.
Io vi ho svelato quello che mi sta più a cuore, ma sono sicura che andando a passeggiare nel vicolo delle Belle, troverete anche voi la vostra unica personale essenza.
E magari allora, ricostruite e riappacificate con il nostro essere persone prima che donne, creeremo con il pensiero, un nuovo mondo.
Brava Marika