Voi non lo sapete, ma ora farete una scoperta epocale: la sottoscritta non è nata come “blogger” ma come mediatore culturale.
E per tutti coloro che non conosco questa figura, ve la spiego in due parole: il mediatore culturale è colui che aiuta l’immigrato a integrarsi.
Ovviamente per riuscirci, deve imparare a conoscere in modo il più possibile perfetto, i meccanismi delle leggi italiane, i suoi diritti e i doveri, la costituzione,tutto questo per potersi inserire a livello lavorativo senza il rischio di divenire “illegale”.
E non solo.
Affinché l’impatto con il nuovo risulti meno traumatico, il mediatore sarà anche il ponte in grado di mettere a confronto e in condizioni di dialogo due parti: il paese ospitante e la persona che da ospite si dovrà sentire parte di quella comunità.
E dato ancor più importante, l’integrazione non dovrà mai far perdere del tutto la sua cultura ma semplicemente adattandola all’esistente. E magari creando una terza via, impedendo cosi alla società di marcire e di fossilizzarsi su un ridondante passato.
Sembra difficile ma vi garantisco che è uno dei lavori più semplici e più intensi che ho mai avuto l’onore di praticare, perché oltre all’esaltazione delle diversità provoca anche una vera e propria crescita interiore. Infatti, come mediatore ho dovuto rendermi conto dei miei personali razzismi e conviverci e addirittura farli scomparire.
Perché per essere ponte, devi diventarlo un ponte.
E per congiungere due estremi, devi fare piazza pulita di ogni tua limitazione, di ogni pregiudizio e devi devastare i tuoi stereotipi. Questo rende la mente aperta e cosi flessibile. Ma attenzione, non significa affatto capace di trasformarsi in una bizzarra creatura senza briglie, ma semplicemente riuscire a domare le stesse non con una mano rigida ma capace di adattarsi al movimento dell’equino.
Siete mai andati a cavallo?
Chi ha avuto questa fortuna ha compreso il segreto della vita.
Spesso noi abbiamo un atteggiamento granitico e statuario nei confronti dell’esistenza.
Ma l’esistenza non procede con passo felpato e tranquillo, ma sgroppa, galoppa, trotta a seconda, addirittura, del terreno che incontra.
E chi ama l’equitazione sa che, il miglior modo per non sfracellarsi al suolo, è quello di assecondare i movimenti divenendo tutt’uno con l’adorabile destriero.
E questo assecondare i suoi movimenti significa anche cambiare prospettiva, visuale e interpretazione del reale: condottiero e purosangue non sono dominante e dominato, ma due esseri viventi capaci di dialogare e di danzare assieme.
E cosi è la vita, e sopratutto cosi è l’immigrazione.
Nonostante le evidenti problematiche del vivere moderno, influenzate dal colonialismo, dai periodi storici e dall’etnocentrismo, irrorare un terreno seminato con nuove colture non è mai un difetto.
Sempre che l’agricoltore sia in grado di interpretare la terra e di trovare un compromesso tra i nutrienti della stessa e la coltura da innestare. Trovando accorgimenti, sistemando le differenze, livellando e preparando il terreno all’accoglienza.
E la coltura suddetta può addirittura fecondare il nostro campo, donando a esso nuova vita e una rigogliosità inaspettata.
La base è il rispetto.
Ma anche la gioia, il piacere di lavorarci, le soddisfazioni e la curiosità. Mi piace paragonare il lavoro di integrazione a quello dell’agricoltore; entrambi sono frutto di una conoscenza dei cicli vitali e di MERAVIGLIA.
Senza quest’emozione, ogni racconto di adattamento, ogni incontro con l’altro, risulterebbe statico, elogiativo e propagandistico.
Insomma, la lusinga non produce mai un buon raccolto.
E questo difetto l’ho ritrovato in molti racconti, in molti saggi che lungi dal prospettare l’immigrazione come un evento sano, caratteristico delle società umane, lo fa diventare più penoso delle avventure dello sfortunato David Copperfield.
Immigrare è difficile.
Ma non rappresenta un problema.
Non più di tante interazioni umane comunque.
Perché in ogni e sottolineo ogni incontro con l’altro, troveremo diversità.
Altrimenti non si sarebbe chiamato altro ma uguale a me.
Quando si sottolinea SOLO, la difficoltà, il dolore, il disagio senza usare l’ironia, senza parlare anche della meraviglia dell’interazione, si rappresenta una situazione eccezionale, una situazione fuori dal comune quando invece, immigrare e creare culture è fatto di sempre.
Dice infatti Franco Cardini:
Io ritengo che le identità siano necessarie e la ricerca delle radici legittime: a patto tuttavia che ci si renda ben conto del fatto che non esistono, se non nel mito o nell’utopia, culture prive di contaminazioni. Grazie a dio nessuno può vantare alcuna primigenia purezza.
E mano male che lo dice Cardini, quando lo sostengo io tutti mi guardano storto.
Questo significa che l’identità formata dall’esperienza, dall’educazione, dalle difficoltà e opportunità contingenti è importante ma che non rappresenta il tutto dell’individuo.
Ogni società, ogni cittadinanza nasce da un lavoro esterno che tenta di livellare se non omologare, le singolarità di ognuno in vista del bene comune.
E il bene comune, il bene superiore, la volontà generale, insomma chiamatela come diamine vi pare, è la collettività.
E come ho già spiegato precedentemente, se la collettività è minacciata dai cambiamenti epocali, si inventa il nemico.
Oggi il nemico è l’immigrato, considerato quasi un alieno invasore e non più una risorsa.
E reiterare questo pensiero, tramite una sorta di panegirico del soggetto disperato, sottolineandone non le familiarità ma le differenze non agevola il processo di accettazione.
Perché questo pippardone, vi chiederete voi?
Perché il libro C’era una volta un clandestino, racconta un esperienza diversa, meno tragica dell’immigrazione. Seppur si accenna alle problematiche di un Albania che stenta a lasciarsi indietro l’arretratezza causata dal sistema totalitario, e dal suo lassismo ( noi assomigliamo a quella terra che accetta la pecunia come unico dio) il punto di merito nel racconto dolce, ironico e anche “piccante” di Brida è quello di mostrare un ragazzo normale, che della sua identità non ne fa vanto, né barriera, ne scudo, ma ne fa opportunità.
E’ il suo essere “albanese” che lo rende curioso dell’altro, di quell’Italia favoleggiata, sognata ma anche idealizzata.
E al contatto con il mondo gulliveriano, si rende tragicamente ma anche comicamente conto che, in fondo, è vero il proverbio: tutto il mondo è paese.
E pur avendo maggiori opportunità, maggiori risorse, restiamo ancorati a un retaggio antico, chiuso e a volte esilarante.
Incontra uomini illuminati, cosi come spaventati dall’avanzare del tempo e della tecnologia.
Si cimenta con i drammi dell’italiano: lei a chi?
Lei donna, ma anche lei per rispetto…oddio qualcuno faccia ordine.
Si imbatte nei pregiudizi di una società che resta autoritaria e maschilista, forse redimendo un po’ la sua.
Si incontra con il malessere ma anche con la non voglia di darsi da fare dei suoi connazionali.
E si imbatte nel pregiudizio, scavalcandolo però, con la legge. Bellissimo e emblematico è l’episodio del suo incontro con la polizia, abituata alla parola clandestino ma disabituata ai regolamenti legislativi.
Clandestino è colui che entra di soppiatto nel nostro paese.
Non esiste, non è manifesto, appartiene alla schiera utile per la nostra coscienza caritatevole, degli invisibili.
Quando viene scoperto senza il possesso del permesso di soggiorno diviene Illegale.
Piccole ma importanti sottigliezze, perfettamente spiegate nel testo unico dell’immigrazione, quasi più mitologico del Necronomicon.
Ma soprattutto l’autore, dall’ironia graffiante e dallo stile apparentemente semplice, ci parla del vero unico ponte tra i popoli: amore e passione.
Perché davanti alla voglia di sentirsi e di sentire l’altro nella sua nudità (non fate i maiali, parlo di nudità emotive) ogni differenza cade perché la danza eterna dell’amore non ha bisogno di orpelli
L’amore basta all’amore
Amore che nullo amato amor perdona
Ed è quello il messaggio meraviglioso di Brida: siamo tutti esseri fatti di spirito, carne, emozioni e sentimenti.
Non esiste né razza, ne nazione.
Non esistono confini, se non quelli mentali.
Forse ci serve uno stato o una definizione, ma quando ci prende dell’altrui piacere cosi forte come un vento che non ci abbandona, tutti questi meccanismi usmani crollano miseramente.
E non lo dico io ma Dante.
E se lo dice il sommo, beh credeteci.
Io vi consiglio di ridere, emozionarvi, divertirvi e ammirare il coraggio di un uomo.
Lasciate da parte il suo passaporto, ascoltate solo cosa ha da dirvi, da narrare e uscite da questo viaggio cambiati.
E magari meno fissati con queste orrende definizioni.
Conosco una sola razza, quella umana
Albert Einstein