Come si fa a recensire un mito?
Io non lo so.
E quindi perdonatemi, metto la mia anima ai vostri piedi.
Ma qua si parla di Roberto Vecchioni.
E per voi è solo un nome, forse qualche nota.
Per me rappresenta il mio viaggio di vita.
Dalla delusione per il primo amore, alla lotta per un ideale.
Rappresenta la mia forza e l’intera mission del mio blog.
Non posso essere distaccata con Roberto.
Le sue non sono canzoni.
Sono parti di me che ritrovo alla radio, al festival, in ogni CD.
Lui è me e io sono lui.
Era lui a cantarmi l’ottimismo quando la mia storia più importante cadde a pezzi sopra di me, soffocandomi di detriti.
E mi diceva:
Quando continuerà il tempo dove tu manchi,
senza la nostalgia di strofinare i tuoi fianchi; quando ti fermerò tra i due miracoli di averti amata e perduta,
e li ti schiaccerò e li sarai finita…
Quando di questo amore saranno sparse le foglie,
e morirà l’orgoglio nel mio inventario di stelle;
quando ti avrò battuta,
cacciata sulla luna,
dimenticata per sempre
e avrò cantato il giorno che tu non sei più niente…
Ed è arrivata quella notte.
Assieme a te, con la tua mano che stringeva la mia.
Sei stato tu a consolarmi della perdita di mia nonna, con Ninna nanna
Invecchierai senza cambiare ma
perdonerai a tutti ma non a te
aspetterai come è tuo solito
finché verrà la luna a prenderti
e parlerai di me con tutti quanti
so che parlerai e che ci credo
e che son l’unico dirai
ma sbaglierai, invecchierai
sarà difficile vederti più
quasi impossibile
e non dovrai star con le carte su
non tornerò mai più per ultimo
ricorderai di me le sere
che parlavo insieme a te
un vecchio amore che non è finito mai
e il mio dolore rivedrai
E ascoltandoti il tempo si dilatava ed ero violinista, filosofo, o semplicemente un pastore incantato dalla luna.
Con Roberto il tempo si dilegua, da fattore fisico diventa fattore emotivo, il tempo del sogno degli aborigeni australiani, il tempo sospeso, laddove si ritrova la fame di dio, la voglia di superare i limiti, la volontà di gabbare la morte o di aspettarla quasi rassegnato, quella di prendere il dolore e sottometterlo al bisogno di vita.
E’ il tempo del non tempo, quel luogo incantato che la psicologa Clarissa Pinkola Estes chiamava il rio dabajo il rio, il fiume sotto il fume o più semplicemente l’oscurità junghiana.
E li si ritrova la rabbia e le stelle.
La voglia di spezzare il legame che ci unisce alla tradizione e alla consuetudine dicendo a quel dio dei padri
A furia di tenerci insieme per salvare quel che siamo,
ci mancan, padre, gli altri,
gli altri, quello che noi non siamo;
ci manca,
anche se avessimo soltanto noi ragione,
l’umiltà di non vincere che fa eguali le persone.
E invece li strappiamo via in nome del signore,
come sterpaglia e funghi d’acqua,
nati qui per errore,
dovesse mai succederci,
ad esser troppo buoni di fare,
chissà poi per chi,
la figura dei coglioni.
Arrivederci padre o forse addio: mio nonno, era mio nonno il padre mio!
Cos’è allora il tempo per Roberto?
Bonanno lo indaga e lo fa attraverso la sua arte che è quella delle parole, parole mai finite ma che richiamano altre parole e dentro ci sono altre emozioni altri sentimenti, come se le sue canzoni fossero scatole cinesi. E allora il vero tempo è in un attimo incantato in cui tutto torna a coincidere, ad equilibrarsi a connettersi in un tutto organico e quasi perfetto.
Ed è nella nostra mente, troppo abituata all’immediatezza del reame fisico.
Mentre il cuore, la testa, la mente quella stuzzicata da Roberto non è altro che un eleatico capace di allungarsi cosi tanto da oltrepassare i confini.
E il tempo fisico non è altro che limite e confine esso stesso, cosi come sono le definizioni rigide che in Vecchioni mancano.
Come manca l’altro confine essenziale della sua poetica, (perché Roberto è un poeta) ossia Dio.
E nel rapporto Vecchioni /dio, che Bonanno e la stessa me umile allibita e sedotta dalla musica del suo mito, si ritrova.
Il rapporto con il signore del tempo, ossia colui che decide il nostro finale è estremamente libero, complesso e ribelle.
Ed è espresso dalla magnifica canzone la stazione di Zima.
In questo dialogo arrabbiato con Dio, Roberto e noi stessi non siamo estasiati di fronte alla sua magnificenza.
Anzi forse infastiditi.
Dio si mette sul suo trono adornato di cherubini, con la sua voce tonante e ci elenca tutte le sue formidabili doti: ha creato il cielo e quest’uomo imperfetto, suddito e servo, è degno soltanto di portare lodi riverite e timorate alle sue indegne labbra.
E quindi il tempo è scandito dalla agiografica fede di chi non si fa domande e accetta, probo e umile la sua decisione incomprensibile. Quella che divide in buoni e cattivi, in fortunati e poveracci, in atei e religiosi, in fortunati o sfortunati, quella che ci rende in fondo tutti sottomessi alla signora oscura con la falce, che stermina senza vedere, cieca e arrogante, lei signora morte.
Vecchioni non ci sta.
Non gli frega di cosa ha fatto Dio.
Non per blasfemia ma per l’orgoglio di questo essere che è stato messo per una scommessa o per caso su questo imperfetto universo, cosi innamorato della vita, da voler declinare l’invito di dio a raggiungere le alate schiere dei sui seguaci con un no fiero e pieno d’amore
Continua con me questo viaggio!-
E così sono lieto di apprendere
Che hai fatto il cielo
E milioni di stelle inutili
Come un messaggio,
Per dimostrarmi che esisti,
Che ci sei davvero:
Ma vedi, il problema non è
Che tu sia o non ci sia:
Il problema è la mia vita
Quando non sarà più la mia,
Confusa in un abbraccio
Senza fine,
Persa nella luce tua
Sublime,
Per ringraziarti
Non so di cosa e perché
Lasciami
Questo sogno disperato
Di esser uomo,
Lasciami
Quest’orgoglio smisurato
Di esser solo un uomo:
Perdonami, Signore,
Ma io scendo qua,
Alla stazione di Zima
Perché la vita, nonostante limiti ostacoli imperfezioni, nonostante quel dolore bastardo che ci porta a assistere alla morte insensata di ragazzi, di padri, di nonne, di innocenti, la vita è una grandissima avventura, favolosa e terrificante per la sua meraviglia.
Questo venire al mondo è stato
Un gran colpo di culo,
Pensa se non nascevi,
E se non potrai correre
E nemmeno camminare
Ti insegnerò a volare,
E non è il dolore che ci arresta, quell’ombra che noi coraggiosi affrontiamo e annichiliamo con la sete di vita
Ho conosciuto il dolore
(di persona, s’intende)
e lui mi ha conosciuto:
siamo amici da sempre,
io non l’ho mai perduto;
lui tanto meno,
che anzi si sente come finito
se, per un giorno solo,
non mi vede o non mi sente.
Ho conosciuto il dolore
e mi è sembrato ridicolo,
quando gli dò di gomito,
quando gli dico in faccia:
“Ma a chi vuoi far paura?”
Ho conosciuto il dolore:
ed era il figlio malato,
la ragazza perduta all’orizzonte,
il sogno strozzato,
l’indifferenza del mondo alla fame,
alla povertà, alla vita…
il brigante nell’angolo
nascosto vigliacco battuto tumore
Dio, che non c’era
e giurava di esserci, ah se giurava, di esserci….e non c’era
ho conosciuto il dolore
e l’ho preso a colpi di canzoni e parole
per farlo tremare,
per farlo impallidire,
per farlo tornare all’angolo,
cosi pieno di botte,
cosi massacrato stordito imballato…
cosi sputtanato che al segnale del gong
saltò fuori dal ring e non si fece mai più
mai più vedere
Poi l’ho fermato in un bar,
che neanche lo conosceva la gente;
l’ho fermato per dirgli:
“Con me non puoi niente!”
Ho conosciuto il dolore
e ho avuto pietà di lui,
della sua solitudine,
delle sue dita da ragno
di essere condannato al suo mestiere
condannato al suo dolore;
l’ho guardato negli occhi,
che sono voragini e strappi
di sogni infranti: respiri interrotti
ultime stelle di disperati amanti
-Ti vuoi fermare un momento?- gli ho chiesto –
insomma vuoi smetterla di nasconderti? Ti vuoi sedere?
Per una volta ascoltami!! Ascoltami
…. e non fiatare
Hai fatto di tutto
per disarmarmi la vita
e non sai, non puoi sapere
che mi passi come un’ombra sottile sfiorente,
appena-appena toccante,
e non hai vie d’uscita
perché, nel cuore appreso,
in questo attendere
anche in un solo attimo,
l’emozione di amici che partono,
figli che nascono,
sogni che corrono nel mio presente,
io sono vivo
e tu, mio dolore,
non conti un cazzo di niente
Ti ho conosciuto dolore in una notte di inverno
una di quelle notti che assomigliano a un giorno
Ma in mezzo alle stelle invisibili e spente
io sono un uomo….e tu non sei un cazzo di niente
E quante volte ho urlato al cielo “Io sono un uomo e tu un cazzo di niente!”
E allora la meraviglia della vita si mostra nella semplicità schietta e genuina delle cose espressa mirabilmente in Rotary Club of malindi
Chi l’ha detto che siam nati per soffrire?
Pagare prima, poi vedere.
Chi l’ha detto che noi non ci abbiamo niente
è una falsa lingua di serpente.
Qui da noi c’è sempre roba da buttare,
mica siamo un mondo occidentale.
E abbiamo in mente un’organizzazione
per tutti i bianchi in depressione.,,,
E ancora grazie al primo esploratore
e all’inglese che era un gran signore,
l’italiano che non ci vuol mai truffare
e lo svizzero dal grande cuore!
Ci hanno cancellato fame e malattia,
e in attesa di sapere cosa sia
abbiamo la democrazia.
Ma quando all’ora del gabbiano tutto se ne va
e nel silenzio si addormenta il sole,
ti prende in fondo una tristezza che non sai,
che non sai da dove viene:
sta nell’odore della sera
nel colore così basso del cielo
inventato dal vento,
e tutto passa e tutto è vivo e niente può tornare,
neanche Dio
da qualche stella d’argento.
E siamo noi occidentali, cosi pieni di storia e filosofia ad essere carenti.
Siamo noi a non salire orgogliosi sul tetto fottendocene dei successi e dei paludi sociali e suonare solo alle stelle perché è bello esprimersi e lasciare che musica e parole escano dal noi stessi per irrorare di luce l’altro:
Mi dicevo quando sarò grande
Sceglierò tra vivere e capire,
Se dovrò cambiare le mutande
Se dovrò restare, se dovrò partire:
Mamma sono diventato uomo,
E mi hai dato centomila lire,
Ma non sò né frate, né pompiere
Nianca sò poeta, nianca bersagliere.
Sai dov’è finito il tuo bambino?
Solo sopra il tetto a sonà il violino,
A sonà il violino sopra il tetto
Con un muro bianco proprio dirimpetto.
Figlio, figlio, se nessuno ascolta,
La tua mamma ti farà una torta,
Sona,sona figlio tutta notte,
Non ti disperare, tanto che ce fotte?
Mamma, mamma, forse il mio destino
Era lì sul tetto a sonà il violino,
Che mme frega se nessuno sente,
Tanto non lo suono mica per la gente
Sona, sona, figlio, figlio bello
Mamma tua ti porta il limoncello,
E ti porta pane e pecorino
Se ti viene fame prima del mattino.
Mamma, mamma, questo è il mio destino
Stare sopra il tetto a sonà il violino,
Dillo a babbo, dillo alle sorelle
Se nessuno sente, sòno per le stelle;
Dillo a babbo, dillo alle sorelle
La vita in Vecchioni in ogni sua sfumatura, nell’amore e nella sciocca esigenza di noi poveri sognatori a scrivere poesie, vale ogni istante e ogni cicatrice.
La vita è l’unico motivo per cui viviamo.
L’emozione di un incontro, di un ricordo, di un eterno cercare, la scoperta di quanto è bello camminare fino ad avere le scarpe rotte, vale ogni respiro mozzato.
Ed è la fede più profonda di Vecchioni per l’altro Dio, quello incarnato, quello che ha tolto a noi poveri stolti le catene che ci ancoravano a una visione distorta del mondo, bastato sulla sudditanza e sul sacrificio.
Ed è quella che Vecchioni in un momento atroce e di piena sofferenza offre alla vera divinità, cosi innamorato e cosi disperato:
Non a caso, in Le rose blu, al Dio delle distanze siderali Vecchioni sacrifica – per un solo miracolo – quanto di più caro, intimo, caratterizzante, ha posseduto sin lì: l’intero corollario degli attimi vissuti. Le piccole/grandi stanze di vita quotidiana (gucciniane ma – di nuovo anche pascoliane) che affiorano alla memoria come ricordi.
Perché ecco che torna il suo concetto più amato, in fondo la morte non è che un risveglio cosi come ci narra in la leggenda di Olaf
sogno sognò sogno
e poi come tutti si risveglio
Allora la nostra esperienza umana è dicotomica. Da un alto c’è tutto quello di corrotto che ci distanzia dall’essenza del nostro esistere, denunciato in la gallina Maddalena:
Era una gallina vecchia,
ma sembrava sempre nuova,
e ingrassò per quarant’anni,
senza fare mai le uova;
ma un bel giorno venne il giorno
di ridare tutto indietro:
è rimasta Maddalena
senza penne sul di dietro.
E si dispera mattina e sera:
“Papà rubbava ma io sso bbrava!”
Tutta colpa dei tacchini,
delle papere e dei polli,
se da grandi i miei pulcini
non diventeranno uccelli;
Maddalena dei lamenti
che stà lì, che aspetta e spera,
Maddalena senza denti,
vittimista di carriera;
Maddalena dei padroni
che van bene tutti quanti,
gli stan tutti sui coglioni:
però manda gli altri avanti….
Cambia bandiera e si dispera,
la cambia ancora e dura un’ora...
e signor giudice,
Signor giudice
Lei venga quando vuole
Più ci farà aspettare
Più sarà bello uscire
Signor giudice
Si compri il costumino si mangi l’arancino
col suo pomodorino
Noi siamo tanti siam qua, già la chiamiamo papà
Di quei papà
Che non si conoscono
Quel giorno quando verrà giudichi senza pietà
Ci vergognano tanto d’essere uomini
Così così
Sogniamo poco sogniamo sogni così così
Abbiamo nonne abbiamo mamme così così
E quasi sempre sposiamo mogli così così
Se ci riusciamo facciamo figli così così
Abbiamo tutti le stesse facce così così
Viaggiamo poco, vediamo posti così così
Ed ogni sera ci ritroviamo così così
Signor giudice noi siamo quel che siamo
Ma l’ala di un gabbiano può far volar lontano
Signor giudice qui il tempo scorre piano
Ma noi che l’adoriamo col tempo ci giochiamo
L’ombra sul muro non è una ragazza
Però ci fai l’amore per abitudine
Lei certamente farà quello che è giusto
Per noi che ci fidiamo e continuiamo
A vivere così così così
Sappiamo poco sappiamo cose così così
Ci accontentiamo perché noi siamo così così
A casa nostra ci sono quadri così così
E se c’è sole è sempre sole così così
E nelle foto veniamo sempre così così
Sogniamo poco sogniamo sogni così così
Ed ogni sera ci ritroviamo così così
e quel vivere in modo profondo ogni esperienza rifiutando il compromesso, e credendo in un mondo diverso dove i poeti sono capaci di sputtanarvi
Sanno treni fermi e una stazione
persa tra il cielo e il mare
hanno la prima metà di una canzone
l’altra metà da ritrovare
Hanno le vostre fandonie nelle orecchie
conoscono le vostre facce di culo
madri piene di tranquillanti
padri che vanno sul sicuro
I ragazzi nascondono lacrime sospese
come gatte gelose dei figli
hanno un bagaglio di speranze deluse
come onde che s’infrangono sugli scogli
Hanno un mondo che avete storpiato ingannato tradito massacrato
hanno un piccolo fiore dentro
che c’è da chiedersi com’è nato
e cercano di amare
domani come ieri
questi miei piccoli comici spaventati guerrieri
e cercano di amare come uomini veri
questi miei piccoli comici
spaventati guerrieri
non azzardatevi a toccarli mai
non azzardatevi a giudicarli
tirate via le vostre sporche mani
non confondetevi coi loro sogni continuate a costruire un mondo perfetto
dove potete specchiarvi
i poeti non saranno anche nessuno
ma hanno il potere di sputtanarvi
e vorrebbero amare
domani come ieri
questi miei piccoli comici spaventati guerrieri
e vorrebbero amare
come uomini veri
questi miei piccoli comici spaventati guerrieri
e vorrebbero amare
volare sui loro pensieri
questi miei piccoli comici
questi miei piccoli comici
questi miei piccoli comici
spaventati guerrieri
E allora tutta la magia, tutto il mio amore per Roberto, nasce dalla sua capacità di comprendere e di mostrarmi un mondo diverso, un mondo meno stantio, meno rigido e meno strutturato.
Un tempo in cui forse la follia diviene creatività. Il tempo che mi resta per vivere appieno questa strabiliante immensa avventura
Ci sono foglie che si aggrappano ai rami
perchè non vogliono cadere mai,
ci sono stelle che si aggrappano al cielo
perchè si accorgono di finire, sai,
ci sono ubriachi che stringono il bicchiere
perchè è sempre l’ultimo che fa paura,
ci sono uccelli che sentono lo sparo
e contano quanto gli resta ancora.
Ed è soltanto una questione di tempo:
quello che serve a salvare un uomo,
il cielo quando è in attesa di un lampo,
una chitarra che aspetta un suono,
una ragazza col cuore in gola
perchè il suo amore non può finire,
il tempo prima della parola che non avresti mai voluto dire.
E tu, quanto tempo hai?
tu, quanto amore hai?
io, non ti perdo mai ti aspetto al fondo di questa strada, sai;
tu, quanto tempo hai,
quanto tempo hai,
quanto amore hai?
Ci sono ragazzi che chiudono gli occhi
e si distruggono in un altro tempo,
ma d’altra parte ci sono vecchi
che darebbero tutto per un momento,
ci sono lettere che non arrivano,
baci che restano immaginari,
ci sono treni che si stanno chiedendo
quando finiscono i binari.
E ci sono poeti che chiedono a Dio
un altro giorno per dire qualcosa
e giardinieri sdraiati di notte col naso sul gambo di una rosa,
ci sono bambini che aspettano
quando verranno per spegnergli la luce,
e uomini che hanno sfidato il tempo
perchè qualcuno fosse felice.
E tu, quanto tempo hai?
tu, quanto amore hai?
basta solo sapere questo, sai; conta solo questo, sai.
Tu, quanto tempo hai tu, quanto amore hai:
non è niente, non è successo niente, sai,
dimmi solo se ti ho perso
o non ti ho perso mai;
tu, quanto tempo hai,
quanto amore hai?
Capisco Bonanno quando scrive
Vecchioni riesce sempre a farmi piangere. Puntualmente. A ogni disco. Anche adesso, che di musica e parole ne ho digerite quanto basta e ne scrivo più o meno per mestiere. Quando credo di averla fatta franca, di essermi assuefatto al pathos dello scrivere/cantare vecchioniano, il colpo di coda, in chiusura di scaletta: la traccia tipica da lacrima in punta di ciglio.
E lui accade ogni volta che ascolta Viola d’inverno
Arriverà che fumo
o che do l’acqua ai fiori,
o che ti ho appena detto:
“scendo, porto il cane fuori”,
che avrò una mezza fetta
di torta in bocca,
o la saliva di un bacio
appena dato,
arriverà, lo farà così in fretta
che non sarò neanche emozionato …
Arriverà che dormo o sogno, o piscio
o mentre sto guidando,
la sentirò benissimo
suonare mentre sbando,
e non potrò confonderla con niente,
perché ha un suono maledettamente eterno:
e poi si sente quella volta sola
la viola d’inverno.
Bello è che non sei mai preparato,
che tanto capita sempre agli altri,
vivere in fondo è così scontato
che non t’immagini mai che basti
e resta indietro sempre un discorso
e resta indietro sempre un rimorso…
E non potrò parlarti, strizzarti l’occhio,
non potrò farti segni,
tutto questo è vietato
da inscrutabili disegni,
e tu ti chiederai
che cosa vuole dire
tutto quell’improvviso starti intorno
perché tu non potrai, non la potrai sentire
la mia viola d’inverno.
E allora penserò
che niente ha avuto senso
a parte questo averti amata,
amata in così poco tempo;
e che il mondo non vale
un tuo sorriso,
e nessuna canzone
è più grande di un tuo giorno
e che si tenga il resto, me compreso,
la viola d’inverno
E dopo aver diviso tutto
la rabbia, i figli, lo schifo e il volo,
questa è davvero l’unica cosa
che devo proprio fare da solo
e dopo aver diviso tutto
neanche ti avverto che vado via,
ma non mi dire pure stavolta
che faccio sempre di testa mia:
tienila stretta la testa mia.
O con le Rose blu
Io ti darò
il mio primo giorno a scuola
l’aquilone che volava
il suo bacio che iniziava
il suo bacio che moriva
io ti darò
e ancora sai
le vigilie di Natale
quando bigi e ti va male
le risate degli amici
gli anni, quelli più felici
io ti darò…
A me accade ogni volta che ascolto Chiamami ancora amore.
E per la barca che è volata in cielo
Che i bimbi ancora stavano a giocare
Che gli avrei regalato il mare intero
Pur di vedermeli arrivare
Per il poeta che non può cantare
Per l’operaio che ha perso il suo lavoro
Per chi ha vent’anni e se ne sta a morire
In un deserto come in un porcile
E per tutti i ragazzi e le ragazze
Che difendono un libro, un libro vero
Così belli a gridare nelle piazze
Perché stanno uccidendo il pensiero
Per il bastardo che sta sempre al sole
Per il vigliacco che nasconde il cuore
Per la nostra memoria gettata al vento
Da questi signori del dolore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Perché le idee sono come farfalle
Che non puoi togliergli le ali
Perché le idee sono come le stelle
Che non le spengono i temporali
Perché le idee sono voci di madre
Che credevano di avere perso
E sono come il sorriso di dio
In questo sputo di universo
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà ben finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e paroleChiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Continua a scrivere la vita
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Che è così vera in ogni uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo
E anche ora le lacrime scendono, rendendomi felice, rendendomi più umana di quanto ero prima di iniziare a scrivere.
E per ogni lacrima per quella notte maledetta che finirà prima o poi.
E difenderò quest’umanità
Anche se restasse un solo uomo
Io e Mario abbiamo lo stesso difetto, bellissimo e impossibile da togliere, quello di far suonare fino allo sfinimento le sue melodie e considerarlo un amico, un mentore, un maestro, un padre o un fratello,
E di non stancarci mai di applaudirlo, prima con il cuore e poi per ultimo con le mani.
So che non sarà la solita recensione, che apparirò quasi pazza o esagitata.
Ma capitemi.
Non si può chiedere a Micheli Alessandra di recensire un libro su Roberto Vecchioni.
e se ha tentato di fregarle
il tempo,
hanno fottuto il tempo
con l’amore.
Passano via così come aquiloni,
corrono dietro un vento che non c’è:
vincono a sogni, perdono a emozioni
le mie ragazze,
proprio come me