Una delle cose che adoro fare, quando recensisco, è comparare i libri, anzi, mi spiego meglio. Non tanto i libri intesi come stile, trama e struttura, quanto le emozioni che essi contengono e che hanno suscitato in questo vecchio e arido cuore. Il libro che più si avvicina al viaggio intrapreso con “un paese di emozioni” è senza dubbio Cielo chiaro di Romano Battaglia.
Entrambi gli autori, con una tecnica diversa ma al tempo stesso accattivante e intensa, dipingono un paese particolare, uno di quelli che si incontrano, se si è fortunati, in quei momenti di totale spaesamento, di totale smarrimento, quelli in cui ci si ritrova tremanti e spaventati davanti a un bivio.
Sono i capolinea, sono i momenti di bilancio, quelli che ci pongono di fronte allo specchio magico di potteriana memoria, e si fanno i conti non con i risultati raggiunti, ma con i desideri del cuore, quelli veri, quelli infantili, quelli colorati di sogno.
E spesso si comprende come, il nostro fanciullino interiore, si senta abbandonato, maltrattato e negato alla coscienza vigile.
I risultati raggiunti, quindi, non sono quelli che il nostro Io, o la nostra anima si merita, perché si raggiungono a scapito di sensazioni autentiche, semplici e al tempo stesso più ricche di quello che questo mondo di apparenza ci promette.
E così, come mi capitò tanti ma tanti anni fa, mi sono ritrovata nel paese gemello di Cielo chiaro, un paese che, però, rispondeva ad altri miei quesiti, ad altri miei bisogni, forse meno cervellotici della mia adolescenza e più…basilari.
Dio per esempio, i valori della famiglia, il rapporto con il dolore e con un estremo e quotidiano senso di abbandono.
Quel sentirsi come giramondo senza un vero centro, perduto a rincorrere chissà cosa, forse un brillio lontano, forse un’idea di rivalsa contro un mondo che senti distante. Perché oggi è facilissimo perdersi, nei meandri di una ragnatela di opportunità, di possibilità, persino di conoscenze, dove tutto è a portata di mano, dove le distanze fisiche si annullano. Ma quelle interiori diventano profondi burroni, in cui è facile cadere, in cui è difficile distinguere la luna, il sole o persino le stelle. E arrivata al mio personale bivio, piena di domande ma per una volta scarsa di risposte, mi sono abbeverata alla fonte di Spadafino. Non è un libro di grandi interrogativi, eppure è un testo che personalmente mi ha aperto un mondo, un universo colorato di emozioni semplici, di saggezze quasi scontate, eppure sono quelle che arricchiscono di significati l’esistenza mia e vostra.
Vedete, a volte abbiamo questa strana perniciosa smania di contestare ogni valore, famiglia e persino Dio, come se le saggezze antiche fossero incapaci di guarire noi stessi e quel nostro distratto modo di essere “umani”.
Ma se come me decidete di sedervi e di affrontare la salita che porta a quel paese dell’anima:
Ho sognato ancora di quel paese un po’ strano,
dove la gente si saluta senza dare la mano.
Dove si chiacchiera e qualcuno canta una canzone;
tutti in piazza senza guardare la televisione.
Dove al mattino non ti offrono un caffè o un biscotto…
così tutto intorno, case di pietre e legno,
caratteristiche strutture di ormai nobile sostegno,
abbracciano le stradine naturalmente colorate
da piante e fiori, agli usci e alle balconate, e le finestre, da ricami e da pizzi abilmente abbellite,
sembrano quadri familiari di armoniose tradizioni antiche.
Nel borgo vecchio, stretti vicoli, alti muri ed arcate senza tempo, nascondono luoghi, dove non s’incontra mai, né sole né vento.
Questo, un paese di montagna dall’aria pulita,
con poche strade, corte e tutte in salita.
Con la rima, Spadafino, rende la parola demiurgo ed è capace di creare un incanto, una sorta di portale dimensionale, fino a farci riscoprire frasi della nostra infanzia, una fede semplice che sa che, la divinità qualsiasi nome a essa gli darete, non ha mai camminato distante da noi, prendendoci in braccio quando le ferite facevano troppo male. E allora ogni cosa torna al proprio posto, e come diceva De Mello va tutto bene.
La mente si acquieta, l’anima si nutre di lacrime, pioggia, paesaggi, si diventa un po’ folli ma autentici; si riscopre il gusto del lavoro manuale, la gioia per un calcio a un pallone.
E in quel paese che abbiamo snobbato perché alla ricerca di emozioni luccicanti come le luci di quelle città ripiegate su sé stessi, così soli, così tristi, forse ritroviamo noi stessi.
Un po’ bambini, un po’ saggi.
Pazzi e capaci di correre incontro all’unico sogno per cui vale la pena: quello che ci rende così pieni di gloria e di stelle, e poco più su di angeli e Dei lontani.
È il sogno di essere davvero uomini e non più burattini.