Elisabetta Cametti è stata per me non solo una scoperta, ma quasi un’amica.
Mi sono resa conto che, quando ero stanca o arrabbiata o delusa dal mio lavoro da blogger, mi immergevo nel mondo (neanche tanto fantastico) creato da Elisabetta.
E sparivo per almeno un’ora.
Un’ora soltanto, perché purtroppo i suoi libri finiscono presto, nonostante siano composti da parecchie pagine.
Li inizi e all’improvviso eccoti arrivata alla fine.
E ti restano dentro non tanto le emozioni, quanto una curiosità incontenibile.
E spesso sono andata a riprendere testi che avevo nel cassetto, sono tornata a scrivere i saggi e a chiedermi, ogni volta che guardavo il cielo, perché in fondo l’astronomia fosse cosi importante per gli antichi e per noi.
Potrei approfondire il suo testo raccontandovi dei misteri archeologici veri, cosi com’è vera l’innovazione del grande Napoleone, cosi piccolo di statura ma cosi gigante nel cuore e nel coraggio.
Potrei narrarvi dei misteri di Waterloo, o della meraviglia dello zodiaco di Dendera, dei segreti millenari della sfinge o della teoria che collega l’inizio della civiltà evoluta nel 10mila A.C.
Potrei portarvi le prove scientifiche della nuova datazione della Sfinge, insomma potrei accompagnarvi lungo i misteri dei guardiani della storia, che non è fantasia per nulla.
Ma, stupitevi, non lo farò.
Dovrete cercarli da soli e usare la vostra mente, stuzzicata dalla curiosità.
Io non vi aiuterò.
Ma farò, a parer mio, qualcosa di più importante.
Svelerò attraverso le parole di una scrittrice di indubbio talento, cosa davvero significa scrivere.
Parlando con tante imbrattacarte ho notato come il sogno ricorrente in Tizia Caia e Sempronia sia diviso in due parti: la prima, essere letta. La seconda, creare un prodotto perfetto.
E le vendite.
Quindi il voler essere letto presuppone un’indagine affannosa verso il lettore: cosa chiede, di cosa ha bisogno, cosa desidera, cosa lo fa emozionare.
E questo è semplicemente marketing.
L’altra è un’incessante quanto assurda ricerca della perfezione.
Che rende il testo fruibile (ossia leggibile) da tutti, coerente, ben documentato, perfetto stilisticamente e a livello di forma, con la giusta dose di infodump e show don’t tell.
E cosi ecco una serie di libri ben confezionati, strutturati rigidamente.
E voi nuovi pionieri della letteratura non storcete il naso.
Già vi vedo iniziare la campagna contro di me.
Fatelo.
Ma intanto io continuo.
Ecco che l’autore sceglie l’argomento più cool, più in voga e si sottomette alla cosiddetta dittatura del lettore.
Voglio il lieto fine!
Voglio sognare!
Voglio la trasgressione!
Voglio piangere ridere, avere l’ormone a palla.
Voglio e sempre voglio.
Il problema è che mai ciò che vogliamo coincide con ciò di cui abbiamo bisogno.
E di cosa abbiamo bisogno oggi?
Di pensare.
Di sentirci parte di un mondo tutto ancora da scoprire, da immaginare, da raccontare, sempre nuovo e sempre elettrizzante.
Abbiamo bisogno di magie di dubbi, più che di certezze.
Questo perché le certezze ci fanno sentire importanti e invincibili ci fanno sentire unici, fortunati, privilegiati, il popolo eletto.
Perché è la certezza di avere raggiunto il massimo livello evolutivo a darci l’illusione di essere liberi.
Un popolo che non pensa e non è stimolato a pensare, può essere davvero libero?
La letteratura è una delle basi più importanti della nostra socializzazione.
È il modo con cui o si assimilano e legittimano gli assunti culturali di una società o si criticano, e si propongono nuove idee, nuove interpretazioni… nuovo e mai vecchio. E sapere di essere solo anelli della catena chiamata civiltà, una catena lunga e complessa, non fa altro che responsabilizzarci non solo su scelte e azioni, ma anche sui significati da proporre.
La bellezza di Dove il destino non muore, non è solo quello di affrontare il tema della storia e dei suoi guardiani, non è solo quello di raccontarci una donna che non è più a bella Biancaneve da salvare, ma è quella di spingerci a dire “ forse non è tutto qua.” Pensateci.
Cosa provate nel leggere di Kathrin che decide di essere sola e di affrontare in totale indipendenza la vita?
Una donna che sa arrabbiarsi e magari difendersi, ma allo tempo stesso è empatica e prova dolore?
Ve lo dico io.
Stupore.
Qualcuno, per la prima volta in un libro, non vi fa passare il messaggio di una donna vittima, un po’ ebete che una volta trovato il principe azzurro, se ne fotte di tutto.
Kat vive e sceglie.
Vive e si impegna.
Contrasta il potere maschile, pensa riflette e si sente fiera di essere diversa.
Iniziate a comprendere il valore salvifico di un libro?
Elisabetta scrive.
Racconta una storia che l’appassiona.
Osa.
Rompe il muto e complice silenzio dell’ortodossia.
Propone una donna che fa una letteratura antica.
Che non crea a tavolino con i nuovi software i personaggi.
Non affibbia loro punti di importanza.
Va nell’iperuranio, trova idee e le trasporta su carta.
E leggete, ma leggete bene questo passaggio:
«Nella mia mente esistono. Eccome, se esistono. Da lettrice, mi sono sempre interrogata su che tipo di relazione avesse Agatha Christie con Hercule Poirot e Miss Marple. Ora che sono passata dall’altra parte, l’ho capito. Chi inventa storie e scrive romanzi non può fare a meno di credere nei propri personaggi. Dedichiamo talmente tanto tempo a crearli e a renderli ciò che sono! Costruiamo il loro carattere, i loro gusti, addirittura le loro manie… non solo diventano reali, ma finiscono per vivere con noi ogni santo giorno
Capite?
Nella sua mente.
Non in un corso di scrittura creativa, non nel manuale del perfetto word-building, non nei consigli dell’editor cool di turno.
Nella sua mente.
Nella sua fantasia, in una regione quasi sacrale, fatata, essi esistono. E la chiamano: Ehi Betta vieni qua devo parlare!
E la nostra Elisabetta li prende con sé e gli dà parola.
E loro parlano a volte sovrapponendosi e accantonando l’autrice.
In questo libro non c’è la volontà del lettore.
C’è un libro che si anima e parla.
Ecco cosa significa scrivere.
Lasciarsi andare, affrontare anche il bellissimo rischio dell’imperfezione, perché quando il libro è creato, quando la pagina VIVE e respira l’imperfezione diviene perfetta.
E quando vi chiederete cosa significa essere scrittori, rispondetevi con questa frase:
«Non mi sento uno scrittore nemmeno adesso.»
«Ma hai già pubblicato una marea di libri…»
«Non basta pubblicare libri per esserlo. Sei uno scrittore quando con le tue parole riesci a mostrare una realtà che il lettore non aveva neppure immaginato… e sulla base di quella realtà lo induci a riflettere, fino a portarlo a vedere le cose dalla prospettiva opposta. Sei uno scrittore se il lettore si sente una persona diversa appena inizia il viaggio con te. Se a metà libro avverte il bisogno di approfondire le verità che gli hai suggerito. Se prima di affrontare l’ultimo capitolo ha già deciso che terrà vive le emozioni di cui si è nutrito pagina dopo pagina. Sei uno scrittore se offri visione, conoscenza, cambiamento, e tutti i vocaboli che il dizionario ti propone come loro sinonimi. Altrimenti sei solo un uomo, uno dei tanti.»
Non è importante pubblicare o essere letti.
Non è importante avere follower o seguaci.
O gruppi dedicati a te che ti esaltano.
Sei scrittore quando proponi cambiamento, quando spingi qualcuno a ricercare le verità che mostri ma non riveli, quando non solo lo fai sognare, ma lo fai interrogare.
Quando sostituisci al vecchio status quo un mondo più ricco e sfaccettato. Quando il sogno deve diventare realtà, una di quelle che sembravano impossibili.
Quando cerchi di creare in terra la tua isola che non c’è e te ne freghi di chi ti chiama pazzo.
Dopo aver chiuso il libro, se il lettore si sentirà ancora legato a te, lo riprenderà rileggendolo e troverà ogni volta un significato, uno sprone, un incitamento, una ribellione.
Quando il libro parlerà con lui e non solo di lui, proponendogli verità che non sapeva di aver bisogno.
Ecco chi è uno scrittore.
Ecco chi è lo scrittore che io voglio custodire dentro di me.
Tenere quel testo sul comodino perché la luce che irradia, non smetta mai.
Perché mi ricordi che anche io non sono un semplice uomo, ma un custode della verità.
per consentire alla storia di non essere dimenticata. Né violentata
Ecco noi che amiamo davvero i libri, leggendo Elisabetta possiamo ricordarci della meravigliosa canzone di Vecchioni, il libraio di Selinute
Così di notte, quando tutto era silenzio nella strada,
io scavalcavo la finestra e camminavo con le scarpe in mano,
e m’infilavo nella luce fioca della sua bottega,
per sentire la voce di quel piccolo uomo.Così di notte in quella stanza dove mi dimenticavo il tempo,
io stavo ad ascoltarlo di nascosto mentre lui leggeva
parole di romanzi e versi come cose da toccare
e al frusciare di pagine mi sentivo volare…e le parole come musica di seta
mi prendevano per mano,
e mi portavano lontano dove il cuore
non si sente più lontano:
dentro le immagini, nei libri e nella pelle
di chi aveva già vissuto cose tanto uguali a me;
nella follia d’essere uomo e nelle stelle
per andare oltre il dolore più inguaribile che c’è;
e le parole si riempivano d’amore,
le sue parole diventavano d’amore,
le sue parole diventavano l’amore
Questa è Elisabetta.
E questo è l’approfondimento che voglio scrivere.
Perché il suo libro omaggia i miei miti, perché cura e guarisce una letteratura azzannata, ferita, e dileggiata.
E questa sua parola salvifica, vale più di mille dati storici.
Quelli li troverete da soli.
Capire, invece, cosa deve darvi un libro in questo mondo cacofonico, è molto più difficile.
Grazie dal profondo del cuore Elisabetta, perché tu si che difendi un libro, un libro vero.
A cura di Alessandra Micheli