Per fortuna il thriller è un genere che sta tornando alla ribalta.
Per fortuna per me intendo.
Nuovi modi di uccidere, nuove idee macabre per raccontare la violenza, quella che noi pazzi vogliamo esorcizzare tramite un testo.
Perché lo ripeto, ognuno di noi viaggia su un filo sottile, sospeso sull’abisso.
E basta davvero poco per cadere di sotto e far male e farsi male.
Quello che però mi mancava era l’omicidio semplice, pulito ma non per questo meno macabro,alla Aghata Christie.
Nei suoi gialli, e nei gialli dei grandi classici, si trovavano omicidi apparentemente banali ma inquietanti, simboli di una quotidianità che la vendetta, l’odio, la passione, la paura di perdere il proprio benessere, stravolgevano definitivamente.
Veleni, accidentali cadute dalle scale, … raramente uno stiletto o una pistola.
Molto spesso era uno strangolamento o un incidente con una stufa manomessa a decretare la punizione terrena.( in questo caso il migliore di tutti era Chesterton con padre Brown).
Insomma, questa vecchia signora, vintage, sorseggiatrice folle di tè al gelsomino, sentiva un po’ la mancanza di arsenico e vecchi merletti.
Però, al tempo stesso, era assuefatta alle sottili introspezioni psicologiche dei personaggi, veri e propri profiler, assurdamente perfette dei thriller contemporanei. In questi, infatti, l’indagine verteva sopratutto sul movente e sulle implicazioni psicologiche profonde, che illuminavano i lati più oscuri della mente. Era questa attenzione all’impulso junghiano ad avere il suo primo piano sulla scena, protagonista vanesio e indispensabile, che adombrava gli altri elementi, vissuti come mere comparse, intenzionate soltanto a omaggiare l’ombra.
Spesso erano le componenti inconsce a costruire il vero senso del libro. La trama non era altro, in fondo, lo sopratutto su cui le altre note dovevano risuonare nell’anima.
Quindi cosa fare?
Tornare a rileggere i miei amati gialli?
Le mie adorate detective stories?
O semplicemente accettare che il tempo passa e non torna più?
Mentre mi dibattevo su questo dilemma, mi è venuta incontro la Dunwich, la mia “spacciatrice” di orrore quotidiano, proponendomi un titolo accattivante dalla suadente e musicale promessa: omicidio sul lago di fuoco.
E come posso io, restare inerme e silente di fronte a queste lusinghe?
Infatti non ci sono riuscita e mi sono immersa nella lettura.
Primo dato di rilievo, non è la solita trita americanata.
Intendo con questo termine il batter cassa sul dato scenografico a ogni costo, immortalando le prodezze in scene al limite del credibile.
Badate bene.
Io adoro quelle azioni rocambolesche.
Però quell’acme fatto di adrenalina e di emozioni tirate fino al parossismo, fanno perdere al tema centrale, l’investigazione e lo scoprire i lati bui della società, delle persone e di noi stessi, di mordente.
E per carità adoro i delitti artistici, laddove le più turpi fantasie divengono realtà.
Ma mi manca la semplicità e la bellezza dell’indizio, perché per creare tensione esso deve essere sacrificato in un rito antico al dio Visibilità.
E come sapete la accessibilità, l’immediatezza, la cacofonia del elemento scenico, l’eccesso, il kitsch, dopo un po’ mi procura noia.
Anzi rende l’omicidio anche cruento, un’abitudine.
Tipo si vabbè lo ha sgozzato che noia.
Altro che rabbrividire.
Io direi che provoca intorpidimento della mente.
E questo sicuramente non mi fa bene.
Ecco perché l’idea dell’autore ( dio benedica la Dunwich) restituisce una classe, non meno angosciosa, all’atto criminale, senza però esaltarlo.
Anzi quella volontà investigativa di contrappasso ci fa comprendere come sia di primaria importanza non raccontare l’arte incompresa, per dirla alla De Quincey, del pazzo di turno, ma l’impellente necessità che esso venga scoperto e fermato.
L’importanza di porre ordine nel caos, perché l’atto criminale, quello descritto perfettamente dalla Rowling come narcisismo estremo per poter essere immortali come un dio, è in fondo solo una macchia in un armonico quadro.
Ma soprattutto, l’indagine deve per forza contemplare la parte psicologica dell’assassino.
E quindi ecco che, per dirla in modo folcloristico, ho preso due piccioni con una fava: antico e moderno si fondono in un libro dalla bellezza abbagliante….come un fuoco.
E altro elemento importante.
Wilson ti sconvolge senza splatter.
Ti sconvolge ogni certezza, distrugge ogni percorso lineare, creando brusche inversioni, e capovolgimenti estremi…rendendo questo testo un degno e riverito erede della mia adorata Agata.
Ecco che il finale vi stupirà e soprattutto vi farà comprendere che la vita non è un rigoroso percorso di causa e effetto, ma è spesso accompagnato da imprevedibili e appassionanti deviazioni. Ed è in quelle deviazioni che si trovano i veri significati: è nel dato che stona che si possono davvero capire gli abissi oscuri in cui si precipita quando la barriera tra vorrei e posso cade.
Inesorabile.
Cosa dirvi di più?
Entrate nel lago di fuoco, affrontate i mille misteri, svelate gli enigmi e osservate i draghi negli occhi: vi appariranno di cartone.
Mentre le innocue blatte, schifate se non considerate inutili, fastidiosi esserini che brulicano invadendo un mondo votato alla realizzazione del se, diverranno scorpioni dalle code acuminate.
E velenose.
E sapranno colpire senza essere mai scoperti.
A volte l’essere più anonimo, la vittima predestinata, il nerd forse nasconde un ombra cosi nera da far impallidire la notte.
Buona lettura.
E attenti a pattinare.