“Favola Blu” di Sonia Perin. A cura di Alessandra Micheli

Favola blu- Sonia Perin

 

Ho sempre ritenuto il dolore un elemento fondamentale dell’esistenza di ogni uomo.

Lo considero una porta, il modo migliore per rendersi conto che anche un povero, in fondo, è ricco.

Ma c’è un dolore che non so comprendere al pari vostro.

Uno che mi fa rabbia, uno che considero ancora distruttivo.

Uno che posso soltanto affrontare con lo scudo della fede: la malattia. Quando il corpo cede, quando qualcosa inceppa il perfetto organismo quella macchina ineccepibile che ci è stata regalata, ci si sente inermi.

E indifesi.

E quel dio in cui credevamo ci appare un ghignante e diabolico burattinaio.

Crea un qualcosa di meraviglioso, funzionante, legato agli altri organi in maniera precisa e poi, basta un codice genetico, una cellula impazzita per rovinare questo quadro tanto amato.

La malattia spaventa, terrorizza direi, e sopratutto uccide la forza dei sogni e la speranza.

Che fede può esserci in un reparto dove vedi un corpo deperire piano piano?

Dove i nostri figli invece di coltivare favole, tentano di sopravvivere?

Le peggiori malattie restano quelle genetiche.

Incomprensibile come una mancata comunicazione, una sola lettera in più presente nel nostro perfetto codice DNA, portino alla fine di tutto.

La fibrosi cistica è questo.

Una patologia multi organo che invade non solo il sistema respiratorio ma anche quello digerente. E che rende le persone afflitte da tale sbaglio genetico, incapaci di vivere appieno la propria vita.

Con una spada di Damocle sospesa sulla testa a contare i minuti che restano.

E come si può davvero vivere sapendo che la nera signora, in fondo, verrà sicuramente per noi?

Vedete, che sappiamo oramai come la vita abbia una fine precisa.

Ma ci illudiamo, quando stiamo in salute, che la signora con la falce possa essere gabbata.

Con l’arte, con la musica, come racconta Branduardi, con la nostra astuzia o con la scienza, capace di oltrepassare i limiti dei cicli e di dio.

Sappiamo che invecchieremo e saremo soddisfatti e stanchi di quest’avventura, fino a abbracciare noi la triste signora e andare con lei a braccetto, felici di ciò che si è lasciato e curiosi per la nuova strabiliante avventura che ci aspetta.

Ma la malattia spezza questa naturalità.

Non fa invecchiare, non fa godere di ogni istante, spezza le aspettative persino i progetti.

I vorrei diventano i non posso.

Il coraggio diventa rassegnazione.

E l’amore si può trasformare in senso di colpa per quella madre, per quel padre, o quel compagno, che devono assistere al triste ultimo spettacolo.

Sonia non ci sta a questa perversa concatenazione di causa effetto: malattia uguale scarsa qualità della vita.

E pertanto, decide di trasformare una vicenda quotidiana in una favola, dove il finale non sarà tragico, ma sarà semplicemente il coronamento del correre della principessa Bubu.

Capace di sfidare il suo male, di combatterlo accanto a maghi e a una regina forte e indomita.

Ecco che il dolore viene dipinto con i vividi colori della fantasia, e lo squallore di un ospedale diviene una splendida grotta azzurra in un mondo incantato e lontano.

E ancora una volta una grande donna, dall’acuta sensibilità che emerge tra le pagine e ti avvolge e ti abbraccia, usa l’inventiva per colorare anche il nostro peggior incubo.

Dimostrando la forza dell’arte, la capacità di creare realtà diverse della scrittura. E forse è grazie a questa forza immaginativa che è possibile combattere davvero la morte.

Non esistono doctor Frankenstein, o Dottor Moreau.

Basta una donna dai grandi occhi sognanti che mette se stessa e la sua voglia di non cedere, in una storia che diviene la storia di tutti.

Che ci insegna che anche nei momenti più duri, nell’incapacità di vivere come vorremmo, è possibile morderla la vita e non farsi sorprendere fragili e indifesi davanti alla morte.

Possiamo davvero invitarla a un gran ballo e dirle: noi di te non abbiamo paura.

Perché come direbbe Vecchioni lei “non è un cazzo di nulla“.

Noi siamo uomini.

Brava sonia, sei riuscita a rubare una lacrima a questa vecchia, acida cariatide.

 

 

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