“Untold” di Sara Rees Brennan, Triskell editore. A cura di Alessandra Micheli

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Eccomi qua a cercare di narrarvi la meraviglia del secondo volume della saga di Sara Rees Brennan.

E sarà arduo rendervi partecipi di quel sogno che voi chiamate libro: Untold è un mondo incantato da visitare, vivere in prima persona e lasciare che la sua malia rapisca.

Come voi ben sapete e se non lo sapete ancora lo apprenderete con giubilo ora, la parte dei libri che amo di più riguarda la strabiliante tecnica letteraria chiamata “descrizioni”.

Sono quelle più del suggerire ma tacere, che mi fanno entrare direttamente nel mondo creato dall’autore: senza la capacità di raccontarmi in parole i suoi sogni, io non mi sento empaticamente coinvolta.

E sottolineo empaticamente: devo ciò sentire scorrere dentro di me, nel sangue, nella corrente adrenalinica delle emozioni le parole, vive e fulgenti come sole, ma anche acuminate come le spine della rosa.

Il libro con la sua forza deve farmi sanguinare il cuore, altrimenti è un libro perso, un libro carino si, un libro perfettamente eseguito a livello fintamente tecnico (o meglio secondo la tecnica moderna di oggi) ma non vivo.

Muto.

Ed è la capacità di creare un’atmosfera, che lo fa parlare.

Io devo respirare il dolore, l’incanto, il mistero come se fosse una nube o un vento che soffia indomito.

E come si fa a respirare un libro?

Con le descrizioni.

Senza, esso risulta silenzioso.

In pratica l’autore non si sforza di impiastricciare i fogli con le sue visioni, lancia frasi a random dicendomi io suggerisco, la storia creala te.

La Brennan quest’arte della parola la maneggia con maestria.

Non suggerisce, racconta.

Non sussurra urla, con tutta la sua forza, perché le immagini nella sua testa sono troppo invadenti e devono trasbordare sul foglio, o sul pc o dove volete voi.

E cosi che si crea l’intera magica impalcatura di Untold.

Leggete.

Lei e Angela si fermarono davanti a casa dei Green, una delle poche abitazioni d’epoca a non essere state costruite in tufo giallo delle Cotswolds, bensì in granito e ardesia. Era un edificio grigio e cadente che pareva tenuto insieme da un intrico di rovi bruni e avvizziti e dalle rose rampicanti che vi crescevano sopra. Lo spaventapasseri dei Green era sbilenco e i suoi guanti gialli imbottiti di paglia sembravano salutarle mestamente.

E leggete questo

Per un attimo non scorse nulla di diverso sul campo, a parte l’incubo di fronte al quale si era trovata poco prima, ma poi sollevò il viso. Uno sciame di nubi stava divorando il cielo grigio-azzurro. Ben presto i nembi si tinsero di rosso e arancione, come se il sole avesse incendiato la distesa celeste.

Ma non era il sole.

Nel terreno ancora intriso di sangue di Hallow’s Field stava prendendo vita un nuovo fuoco. L’odore del fumo li travolse, intenso e quasi dolciastro.

Cioè sono solo io la pazza che nota la forza evocativa di questi brani?

Ovviamente, l’arte di raccontare e di creare mondi non si esaurisce con la magia da demiurgo, ma si alimenta anche di tanti, diversi, significati, poiché la sua fantasticheria ha una motivazione e un fine: quello di svelare i nodi.

Di parlare del tacito, dell’indefinibile di tutto ciò che la nostra radiosa (sono ironica) società ha seppellito in una fossa, privandoci di una forza essenziale per la nostra sanità dell’anima.

La magia.

La Brennan in Untold osa.

Se prima raccontava del segreto che si animava e nutriva le radici di una città archetipica, Mestavalle appunto, dopo aver svelato o mostrato la fossa in cui l’arcano era sepolto e aver responsabilizzato ogni essere vivente sull’uso corretto dei miti, dei simboli e del mistero, ora osa guardare ancora meglio in quella profonda buca nel terreno e sondare appunto, l’indicibile.

Il tabù è svelato: la magia convive con il mondo quotidiano.

Ora, si tratta di prenderne coscienza, intendo in toto, dei suoi lati oscuri come di quelli benevoli e trovare un diverso modo per far convivere due mondi, che volenti o nolenti, si sono trovati a doversi toccare.

Il mondo sovrannaturale e quello “meccanico” o reale, da secoli oramai, complice una certa tendenza alla tecnocrazia, sono rimasti separati.

Fino a che, qualcuno o qualcosa ha deciso di rompere quel velo e di far penetrare le energie dell’uno nell’altro.

Ecco che gli abitanti di Mestavalle riabilitano il patto, spesso tenebroso, con le energie misteriche, o prodigiose, cercandone i benefici e sopportandone, però, il tributo di sangue.

Del resto la magia stessa presuppone i sacrifici; ossia la venerazione più o meno brutale di quella capacità di essere il fulcro sacro di ogni convivenza civile.

Inutile che ci nascondiamo dietro un dito.

Ogni collettività presuppone un sacrificio.

Che sia del proprio io, di una porzione di libertà o della propria forza immaginativa, da che mondo è mondo, qualcosa viene ucciso.

O per meglio dire posto a servizio di un accordo per garantire la sopravvivenza stessa dell’armonia della società.

Il periodo vittoriano, ad esempio, garantiva prosperità e successo a patto che, la poesia e l’irrazionale venisse esautorato delle sue energie, poste al servizio della grandeur inglese.

E cosi Meastavalle.

Per garantire prosperità, sicurezza, protezione, la propria vita, la propria energia vitale viene posta al servizio della costante purificazione del patto.

Sacrificarne uno per educarne cento.

Fino a che, qualcuno, sconvolto dall’abnorme iniquità dello scambio, che si dirige verso la dimostrazione di sottomissione di una parte all’altra, pensa e suggerisce un diverso modo di cooperare: non più dominazione ma condivisione. Io ti fornisco la mia energia magica, e tu la tua fedeltà. Rispetto al sacrificio di sangue mi sembra molto più equo.

Il problema di Mestavalle, però, è di non raccontare mai esplicitamente la sua vera natura.

Fulco di energia, punto focale di movimenti geomantici, bosco da cui ritrovare la propria forza vitale, nonostante la decisione degli stregoni dominatori, resi oramai reggenti e collanti dell’intera compagine, l’aura di mistero nuoce alla nuova apertura.

In sostanza i Lyburn mantenendo la segretezza della natura reale di Mestavalle la rendono…inconsapevole.

Di se e delle proprie potenzialità, della sua natura ma anche del suo passato.

Ed è il non detto, il segreto di Unspoken, che viene reso accessibile da Kami, colei che assurge il vero ruolo di protettrice della sua città.

Kami è molto più forte degli stregoni, pur non avendo in se nessuna stilla di arcano.

Lei è la sorgente, ossia la fonte da cui il nuovo, la nuova certezza prende vita. Kami è l’unica che rivelando il segreto può scavare a mani nude nella buca in cui Mestavalle ha sotterrato le sue origini e portare alla luce… l’indicibile.

Il taciuto.

E quello non è altro che la capacità tutta particolare di una città di essere diversa, di essere una sorta di rifugio o di eden, una città in cui possono convivere in armonia i due mondi.

Ma per farlo è necessario sconfiggere i privilegi e quella convinzione di essere una sorta di potere senza regole, impersonato dalla crudeltà assurda dello stregone nero.

Ecco che l’incantato mondo “fatato” della Brennan diviene anche una sorta di racconto simbolico, laddove il sogno di riunire le energie arcane e quelle terrene si realizza a Mestavalle.

L’indicile può essere prezioso se maneggiato con responsabilità, e forse Kami è il simbolo dell’uomo nuovo che non ha paura dell’arcano, del non detto dello straordinario.

E non avendo paura non è restia a affrontare i suoi tentacolari impulsi oscuri.

Ci sono persone in città che conoscono già i segreti di Mestavalle: persone che non parlano e non agiscono per paura. Ma negare la realtà non servirà a cambiare le cose.

La conoscenza è potere. Sapere la verità è potere: quello che vi sto rivelando è potere, sia per me che per voi.

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