“La congiura dei fratelli Shakespeare” Di Bernard Cornwell, Longanesi editore. A cura di Alessandra Micheli

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Fata.

O non ravviso bene la tua forma, e il tuo sembiante,

o tu sei quel birbo malizioso folletto chiamato Robin Bravuomo!

Non sei tu forse

colui che ai villaggi

spaventa le ragazze; che screma il latte

e a volte frucchia nella zangola del burro

e la massaia invano s’affanna a rimestare;

e talora la birra non lascia lievitare,

e di notte fuorvia i pellegrini

ridendo della lor disavventura?

E se invece qualcuno ti chiama “follettino”,

e “caro Robertino”, i suoi lavori ti addossi

e gli porti fortuna. Non sei tu quello?

Puck.

Hai proprio indovinato.

Son io quel mattacchione che va in giro di notte.

Di Oberon, mio re, sono il buffone.

E lui sorride quando inganno lo stallone,

ben satollo di fave

col nitrito d’una bella puledrina.

Qualche volta mi rannicchio

nel boccale d’una vecchia ciancerona, sotto forma

di mela selvatica arrostita,

e quando beve, le salto sulle labbra

e giù sgorga la birra lungo la gorgia vizza.

La vecchia zitella saccentona cui piace

raccontar tragiche storie, a volte per sgabello

mi scambia, e io dal sedere le scappo,

e lei rotola a terra, e grida

Oh povero mio culo!”, e affoga nella tosse.

E allor gli astanti si tengono i fianchi dalle risa,

gongolan di gioia, starnutano, e giurano

di non aver mai trascorso ora più allegra.

Ma adesso fai largo, ché arriva il mio Re!

Voi non avete idea di quanto il mo cuore bramava e desiderava essere li, nascosta tra le felci a assaporare con un beato sorriso, lo scambio di battute tra la fata e il mio amato Puck.

Non sapete e non potrete mai capire quanto ho amato questa commedia, il sogno di mezza estate che ancor oggi fa capolino nei miei occhi socchiusi.

Rivedo le scene, borbotto tra me e me le parole, ogni parola gustandola come si gusta certa frutta matura dai colori sgargianti.

Shakespeare ha anch’esso, come fece Lewis Carroll, dato vita con i verbi ai sogni, alle emozioni che custodisco oggi, non più bambina, non più adolescente, ma venerando agli occhi degli altri membro di questa composta società.

Il mio amare Puck era un atto di ribellione, era venerare il caos creativo, quel soffio di sana follia che sono certa, lo sono nel profondo, ha investito e forse funestato la mente eccelsa di William.

Sono stata, come penso ogni adolescente che si rispetti, innamorata della sua remota figura.

Quale splendido essere umano aveva dato alla luce queste commedie, le tragedie cosi spettacolari, cosi poetiche pur, tuttavia, non lesinando un certo tono satirico?

Era un nume, un genio o forse un po’ “disadattato” come me, troppo grande per dei tempi burrascosi e a volte lerci di sporcizia.

Era cosi la Londra di quegli anni.

E rivivono le suggestioni grazie alla penna elegante e potente di Cornwell, che ho imparato a conoscere grazie alla saga di Excalibur.

Ma come lui nessuno è capace di penetrare in quell’ethos dei secoli di cui vado blaterando da anni.

Non dati, non elementi colti e polverosi, ma quelle atmosfere, quelle culture anche subalterne, che adornarono gli aventi rendendoli veri e reali, cosi tangibili da poterli quasi toccare.

Lo ripeto.

Non è il fatto storico con le sue date e e i suoi eventi a darci l’idea del tempo che scorre.

Sono i residui logici di Pareto, le emozionalità, le sensazioni, i piccoli infimi dettagli che ci raccontano, davvero un epoca.

E anche l’interpretazione che l’autore fa scendere, come candida neve, negli interstizi di quel racconto mai omogeneo, mai perfettamente lineare.

La storia è una spirale di luci e di ombre, di bellezza e decadenza, di grandi conquiste e di burrascose cadute.

E nella Congiura si avverte tutto questo: non la melmosità della Londra elisabettiana ma il suo decadente fascino, quella volontà di godere dell’attimo che fugge, di fantasie e di finzioni, e l’inclinazione di operare la volontà di dio, quella di renderci probi e quasi tutti uguali, tutti incasellati in un perfetto disegno grigio e tiepido.

L’attore, invece, non ci sta.

Ha bisogno di voli pindarici, di immaginarsi altro dal ruolo che la società perbene ha cucito su di esso: un povero diviene un ricco mercante, l’uomo si trasforma in donna seducente, il giovane sciocco in un saggio o in un folletto irriverente.

Ecco che la vera rivalsa in quel secolo in cui aleggia il fetore delle fogne, sintomo di una povertà malata, sintomo di una società che mostrerà poi la sua incapacità a essere davvero un paese civile (cosi come denuncerà Dickens) è quella del sogno che allontana la realtà ingiusta.

E sullo sfondo di questi tentativi di riprendersi una vita mangiucchiata, anzi divorata dai privilegi dei signori, che si snodano congiure, ladrocini, contrapposizioni e lotte intestine: essere attore significava non solo vivere un ora di meraviglie, ma anche essere soggetto alla discriminazione dei puritani che quella fantasia salvifica la temevano, preferendo la predestinazione divina, ferrea e egoistica, e all’invidia di chi, il talento, lo confondeva con la vil pecunia.

Mastro Shakespeare fu vittima di questa volontà assoluta, portata all’acme di vendette: ognuno geloso di quel genio nato per caso, nel paese oscuro e povero di Stratford.

Oggi meta di chi come me, vuole rubare un tocco di genio, come se l’aria stessa respirata dal sommo, fosse intinta essa stessa di arte.

E nel libro è il fratello, l’alter ego del mio William, la parte più arrabbiata, il suo doppglanger, a salvare la situazione, con un moto di orgoglio, di rispetto di se raro, molto raro, in quei tempi oscuri.

Sullo sfondo spicca lei, la regina Vergine, eterea, senza tempo, con quella fronte alta e la massa infuocata di capelli.

Lei amata e odiata, osteggiata e contraddittoria, a cui io oggi mi inchino.

Perché pur se definita spietata, fredda, rigida, senza cuore è a lei che devo la salvezza di quel teatro, fucina di incanti e magie.

La congiura di Shakesperare è più di un thriller storico: è il racconto di un sogno, di stanti sogni, quelli che oggi ammiriamo affascinati seduti su comode poltrone di velluto.

Ma in questo libro, rivivono nella loro vera essenza, irriverenti, satirici, anticonformisti, a volte volgari, a volte oltre le linee del buongusto, ma cosi vicini a quella parte ribelle del nostro cuore.

Noi siamo gli attori del Lord Ciambellano. Raccontiamo storie. Mettiamo in scena la magia. Trasformiamo i sogni in realtà. Siamo commedianti.

 

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