“Le aquile d’oro” di Luigi Cardone, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

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I libri sono una risorsa preziosa.

Raccontano non solo storia ma la nostra evoluzione.

Solo da un testo di narrativa, si possono capire dettagli, psicologie e folclore dei tempi che furono e tutto in modo cosi preciso, in grado di superare persino i saggi.

Neanche loro riescono in modo cosi perfetto che neanche un saggio si è mai sognato di cristallizzare.

I saggi sono fondamentali per il mio excursus letterario, eppure ho compreso meglio il periodo vittoriano da Dickens.

O la società inglese elisabettiana dalla drammaturgia di Shakespeare.

Ho amato il mondo degli hipster grazie a Pic di Kerouac e ho familiarizzato con la morte grazie ad Edgar Lee Master.

Ho percorso gli abissi delle allucinazioni poetiche in un viaggio all’inferno indimenticabile con Rimbaud.

Ho compreso il dramma dei lavoratori inglesi, sostituiti dalla meccanizzazione, nei funestati tempi vittoriani grazie a Shirley della Bronte.

Ho visto l’insensatezza delle suggestioni romantiche, contenute in certi testi, grazie alla sfortunata Madam Bovary.

Ho vissuto la peste del 600 grazie ai promessi sposi.

E ho amato il riscatto dei vinti assieme a Edmonds Dantes.

E cosa dire della rivoluzione femminista?

Io e le memorie di una ragazza perbene ci siamo alleate sfoderando come arma i nostri reggiseni in piazza.

Pertanto, la mia preoccupazione è salita alle stelle quando, all’inizio della mia misera carriera di recensora (odio il temine blogger) ho iniziato a notare quanti libri carini ma insensati e a tratti diseducativi, circolavano sul circuito facebucchiano.

Mafiosi sensuali, psicopatici paragonati al mio Heatchliff ( con la differenza che il selvaggio indomito Heatchliff era vittima delle convenzioni sociali dell’epoca che lo confinavano nel suo ruolo di reietto, mentre le sofferenze dei nuovi sex simbol si limitavano a un lontano ricordo di quando la balia o la mammà non li assecondavano comprandogli chili di zucchero filato quando da piccoli andavano alle giostre).

E per me eterna idealista, cosi fissata con l’etica, era sconvolgente osservare la penuria di messaggi capaci di far evolvere l’uomo e presentargli le sue potenzialità.

Possiamo essere eroi e vincitori.

Possiamo alzarci dalla polvere e fronteggiare con ardore il male e persino i draghi.

L’uomo qualunque fatto passare per valore lasciamolo a Guglielmo Giannini.

Perché se un libro non ti insegna a lasciare le tue vesti da pollo per specchiarti nello stagno e vederti aquila, non va assolutamente scritto.

Siamo già decisi a restare nascosti nelle nostre comode buche da coniglio, senza che però esse portino a un paese delle meraviglie. Ecco che all’improvviso mi capita tra le mani le aquile d’oro.

E finalmente capisco che i polli stanno lasciando la presa su di noi e stiamo diventando capaci di solcare i cieli e di affrontare il male.

Ma attenzione.

Nel libro la vera rivoluzione non è l’incontro con l’abisso.

Ma lo si ritrova nella modalità con cui affrontare con i sentimenti e gli impulsi più oscuri dell’animo.

E’ il modo con cui si contrasta a fare la differenza.

Non battaglie sanguinarie ma una forma di compassione che nasce appunto dall’empatia.

Io so cosa ti è successo.

Conosco gli sbagli che certe regole, nate per ordinare la caotica realtà, comportano.

Perché sono applicate in modo cosi pedissequo da scordare che esse sono soltanto al servizio dell’armonia.

E che a volte una regola, una convenzione sociale, un muro, vanno semplicemente abbattuti.

O ignorati.

A volte basta spogliarci della nostra grandezza e abbracciare la sofferenza dell’altro.

Non guerra, non contrapposizione ma lacrime capaci di pulire e guarire un cuore sofferto.

Paragono il testo, poetico, bellissimo, etereo a una vecchia favola che ho amato da piccola e amo tutt’oggi: la donna scheletro.

Una donna gettata negli abissi a causa dell’infrazione di un tabù, dimenticata, malridotta, ingarbugliata dalla rete con cui un pescatore ignaro e un po’ folle. la ripesca dai fondali.

La prima reazione è terrore.

Terrore per il suo teschio ghignante.

Finché alla luce della luna il sorriso appare addolorato e pieno di dolore.

Rassegnazione.

E basta una lacrima che lo scheletro, ciò che resta dopo la vendetta, beve, assetato dopo tanto tempo.

La lacrima della comprensione.

E lo scheletro inizia a cantare, affinché nuova carne ricopra le pallide ossa.

Il libro Le aquile d’oro è la lacrime del pescatore sulle ossa ingiallite della nostra società.

E’ il canto che si sprigiona dalla lettura, quel canto capace di far nascere una nuova identità sulle macerie del nostro assurdo mondo.

E’ la magia che insegna e che rende uomini.

Che ci dice, come raccontava Antony De Mell,o che siamo favolose aquile che appartengono al cielo.

Che possiamo cavalcare i venti e non lasciare che essi ci devastino.

Che non esistono regole ferree ne grosse distinzioni, se si crede e si mira a un unico obiettivo: la felicità.

Ecco io considero questo libro tutto questo e vi lascio con la frase che ha curato la mia anima afflitta da tanta povertà morale:

non esistono creature della notte e del giorno. Non c’è bisogno di avere un legame di sangue per sentirsi fratello e sorella, ma l’unica cosa che conta veramente è una sola: sentirsi parte dello stesso nido.

Che questo libro cosi prezioso possa farci sentire tutti appartenenti allo stesso nido.

 

 

 

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