C’era un tempo, non tanto lontano ma felice, in cui lo scrittore sfuggiva dai salotti colti per immergersi in un umanità priva di artifici e di velleità intellettuali, per ritrovare un’essenza e una verità perduta.
Per scrivere, per vivere, doveva bearsi del fango, quello che davvero era capace di far nascere i fiori.
Nella fatica del quotidiano, in quella ferrea volontà di farcela nonostante i venti contrari, la vita si rivelava in tutta la sua magnificenza. Nonostante le periferie disastrose, nonostante la minaccia dell’anonimato e dell’oblio a ogni angolo, quella cacofonica vitalità primitiva e di borgata aveva una sua assoluta poeticità.
Nella saggezza contadina, nell’ironia disarmante e in una certa brutale carnalità che era quasi una disperata ricerca di piacere.
Attenzione piacere, non oblio o assuefazione.
Disperazione, persino ignoranza culturale nascondevano l’anima indomita e forte dell’umanità che non intendeva arrendersi davanti agli ostacoli.
Quella scugnizza, rea di ispirare canzoni immortali come guapparia, rea di aver incantato poeti del calibro di Pasolini (mi dispiace a voi detrattori ma le sue poesie sono dei veri autentici capolavori che non posso non esaltare).
In una cultura che si arroccava su se stessa, la massa era l’unica salvezza per garantire all’anima autentica e priva di artifici e di abbellimenti, di esprimere tutto il suo potenziale.
Ce lo narra Pasolini nel maestoso Pianto della scavatrice:
Stupenda e misera città,
Che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre,
come andare duri e pronti nella ressa delle strade,
rivolgersi a un altro uomo senza tremare,
non vergognarsi di guardare il denaro contato con pigre dita
dal fattorino che suda
contro le facciate in corsa in un colore eterno d’estate;
a difendermi,
a offendere,
ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore,
a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni,
eppure sono fratelli proprio nell’avere passioni di uomini
che allegri,
inconsci,
interi
vivono di esperienze ignote a me.
Stupenda e misera città
che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota:
fino a farmi scoprire ciò che,
in ognun, era il mondo.
Pier Paolo Pasolini
In questa critica sociale, ritroviamo il tema di De Andrè:
Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fiori
Fabrizio De Andrè
e quella ricerca assoluta del senso della vita che non si rifuggi in idilliache e incantate visioni sfuggenti, ma riguardi la concretezza della terra, delle sensazioni tattili, del pianto e del sudore.
Tempi felici in cui la vita non era assolutamente divisa in elevato e basso, in élite e massa, ma era solo e soltanto vita.
Poi la modernità che incalza, che irrompe e prosegue la sua folle corsa fino a divenire post modernità.
Post come se fosse troppo oltre quell’autenticità vissuta come arte, troppo avanti e troppo impregnata di strani valori che lungi dal trasformare la massa, la gente ,in percorsi evolutivi diversi che dal basso sanno guardare in alto, divengono evanescenti e stantii personaggi.
Ecco che la tecnologia inizia a ingabbiare a sdoganare il kitsch totalmente distante dalla poetica rappresentata da Pasolini e dai veristi. La poesie si rintana in un sottobosco in cui, causa rovi altissimi e pieni di spine, solo il temerario decide di avviarsi, armato della spada rappresentata dalla penna.
E cosi la gente fonte di ogni perfetto sonetto, diviene massa, informe e improntata non all’ignoranza culturale che non rappresenta ostacolo reale al senso della bellezza: il contadino seppur analfabeta poteva godere dei meravigliosi miracoli della vita, anzi spesso era una saggezza che proveniva direttamente da un animo impastato dalla terra.
No.
Il virtuale, la TV divenuta solo strumento manipolatorio e illusorio, oblio ipnotico, livellatore di contenuti, procura un’ignoranza morale ed etica.
Non più pianti della scavatrice ma pianti urlati nei reality.
Non più saggezze antiche ma opulenza mostrata senza ritegno dalle massa contenta di festeggiare l’avvento dell’uomo qualunque.
E chi ancora riesce a udire il soffuso effluvio della poesia, di una volontà di continuare a osservare il cielo si sentirà un alieno racchiuso in una costante, deleteria e assassina frustrazione.
Borelli questo disagio questo scellerato passaggio, lo racconta abilmente nel libro un giorno o l’altro.
Una routine che lo affligge, uccidendo ogni velleità di eternità e di candore, ogni aspirazione all’assoluto o alla ricerca del senso della vita senza il quale l’uomo non può assolutamente essere “umano”.
I sogni di un tempo considerati solo passatempi dal resto del mondo, abituato al diktat che solo il vivere comune possa essere assurto a unica sana condizione umana, diviene cosi prigione e abbandono.
L’uomo senza sogni non è che un guscio vuoto che suona rintocchi a morto.
Allora non esiste più movimento, nessuna spinta vero l’evoluzione, verso il miglioramento del se che letteratura e arte portano nel loro DNA, se non un vanesio e distante e illusorio ritorno a un tempo felice, un eden che però non diviene sprone ma piuttosto una sabbia mobile da cui farsi risucchiare.
E restarne ingabbiato morendo di asfissia.
Non ci sono eroi in questo testo.
Il protagonista è come lo definisce lo stesso autore:
Indeciso, sgradevole, maschilista, rancoroso.
Che però nella sua lucida e cinica visione rende evidente un omicidio ben architettato: quello dell’autenticità.
L’intellettuale deve tornare a richiudersi in se stesso.
Perché altrimenti la sua forza distruttiva, la sua verve poetica, il suo impatto ribelle rischiano di svegliare la società addormentata, come il bacio dell’intruso risvegliò quel mondo innaturale e sempre orrendamente uguale in se stesso della fiaba di Rosaspina
Nessuna Bella addormentata deve essere stimolata. Risvegliarsi significherebbe riscattarsi e la società non può permettersi di uscire da un pallido e morente status quo.
E cosi, il protagonista, mette i suoi talenti sotto la sabbia, nelle regioni ctonia dell’io e inizia a irrigidirsi su posizioni inconciliabili, distruggendo l’originaria comunione tra gli uomini e mettendo un muro feroce tra il suo presente e il giorno altro.
E l’altro istante diviene però il suo sogno di riscatto, un procrastinare giorno per giorno quel movimento che lo porterebbe a reagire e agire, rendendo la sua mente fertile e intellettualmente costruttiva, semplicemente luogo cambiamento.
Perfetta la descrizione di Borelli
è un ribelle vigliacco,
un rivoluzionario da poltrona:
teorizza il superamento del matrimonio e tradisce la moglie, ma di nascosto. Litiga con i colleghi insegnanti e svolge il suo lavoro in modo svogliato,
però senza mai oltrepassare il limite,
senza trasformare la sua inerzia in protesta aperta.
Perché, se lo facesse,
sarebbe un eroe,
un personaggio da romanzo,
e lui invece non lo è: gli manca la stoffa.
Ed è forse la condizione che vive oggi il nostro intellettuale.
Un soprammobile da salotto.
A volte grottesco e ridicolo ma mai incisivo.
Una pallida imitazione di cosa un tempo significava cultura.
Cosi come lo descrive causticamente Renato Zero
Gente troppo complicata
Così disorientata
Gente, che ti è successo mai
Hai perduto quel tuo fascino
Quel tuo profumo tipico, il brio
Furbizia ed ironia
Stavi sempre alla finestra
Eri generosa, onesta
Maestra di vita non sei più, gente
Catenacci alla tua porta sì
Un lucchetto sul tuo cuore lì
L’amore da te non bussa più
Non è un libro positivo.
Ma è un libro necessario perché solo raccontando senza veli la situazione morale della cultura di oggi, forse si può pensare a una vera modifica sostanziale.