C’era un tempo in cui i nostri antenati avevano un unico mezzo per tener unita la società e la famiglia: le storie.
Quando ancora non esisteva TV, romanzi, fumetti.
Quanto le notti contadine erano buie e tempestose, quando finivano le stagioni del raccolto (l’ultima avveniva proprio il famigerato 31 ottobre) la famiglia, il clan, la tribù si ritrovava attorno al fuoco e ricostruiva il patto sociale attraverso la tradizione orale del racconto.
La narrazione, quindi, non può distaccarsi da questa componente storico antropologica che aveva la funzione sacrale di riallacciare la cooperazione comunitaria, il legame sopratutto vivi e morti, e rinnovare grazie all’incantesimo ammaliatore della voce ripetuta, i valori che sostenevano e facevano sopravvivere il clan.
Il racconto, dunque l’arte della narrazione, nasce e si sostiene grazie ai cantastorie che innalzano la loro voce a formare quello che Clarissa Pinkola Estes chiama il cando hondo, ossia il canto rotondo, laddove ci esalta e di festeggia il cosiddetto cerchio della vita, quella sequenza circolare di vita, morte, vita, importantissima per il sostentamento delle primitive civiltà agricolo pastorali.
Ecco il nascere attorno a questi ricordi mitici o reali e pertanto divenuti leggenda, i primi agglomerati urbani, le prime forme di civilizzazioni stanziali.
L’agricoltura da l’avvio persino alle prime religioni e alla prima forma di gestione del potere; la terra madre e sostentatrice degli uomini diviene l’origine del necessario ruolo di pacificatore, di custode dei suoi arcani segreti e di protettore degli uomini suoi figli.
Tutto parte dalle storie.
Le fiabe, il mito, la tradizione, la leggenda, la favola, il folclore divengo i contenitori a cui, poi attingerà il romanzo moderno.
Unico neo di quest’inversione narrativa, ossia l’oralità a favore della scrittura, sembra essere la perdita di un contatto diretto tra ascoltatore e narratore.
Nei tempi in cui il racconto si tramandava esso era sempre vivo.
Capitava e capita di trovare versioni diverse di una stessa fiaba proprio perché, per non farla morire di stenti la si corredava di diverse interpretazioni, di visioni ogni volta parziali che acquisivano lo status di generalità.
Ogni fiaba diveniva cosi viva proprio perché si instaurava un patto interpretativo capace di essere “toccato” con mano: la tradizione orale diveniva dinamica proprio dall’intromissione del pubblico che partecipava attivamente e proponeva nuovi finali di volta in volta coincidenti con i primari bisogno emotivi e irrazionali dell’animo.
Questo con il romanzo e ce lo descrive perfettamente il saggio in questione, rischia di perdersi perché la lettura diviene un fatto privato, uno scambio non universale ma binario tra due entità distinte: l’artista e il fruitore.
Attenzione non più lettore, ossia elemento partecipativo del processo di creazione, ma soltanto il destinatario ultimo delle ardue fatiche del venerabile scrittore.
Il tema su cui quindi il saggio di Amoruso va a riflettere è la modifica sostanziale del processo di narrazione, che diviene interessante non soltanto per comprendere la fascinazione delle serie TV ma anche per sdoganarle da un contenitore etichettato come cultura di massa, con ogni connotazione elitaria del caso.
Chi è dunque il narratore?
E come si è modificata la narrazione dall’era antica a quella post moderna?
Non negherò che le tesi di Amoruso sono da me assolutamente condivise e anzi spesso utilizzate inconsciamente nelle mie recensioni.
E trovo assolutamente fondamentale questa conclusione sul senso dell’atto del narrare mutuata dagli studi del buon Pirandello:
ciò che unisce alchimia e letteratura è il magico processo di falsificazione della realtà. E se ci aggiungiamo la capacità dei Narratori, quelli con la N maiuscola, di perpetrarla in secula seculorum,
Perché falsificazione?
L’arte libera le cose, gli uomini e le loro azioni da queste contingenze senza valore, da questi particolari comuni, da questi volgari ostacoli, da queste ccidentali miserie: in un certo senso, li astrae: cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) e irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tendono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee: semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei uoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono; tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere, diciamo così, meno reale e tuttavia più vero.
Pertanto, narrare non significa altro che:
Narrare significa quindi mettere in piedi un mondo ex novo, sia che si inventino nuovi sistemi, come nel caso di fiabe e fantasy, sia che si rappresenti, più fedelmente possibile, quelli già esistenti. In entrambi i casi, si ottiene un qualcosa che è altro rispetto alla vera realtà.
Sempre partendo dal presupposto che il termine di realtà, ed ha ragione la Virginia Woolf, è perfettamente vago, inattendibile e riguarda la percezione unica e persona che ciascuno ha del mondo che ci circonda. Lo stesso psicologo Adalbert J. Ames con i suoi esperimenti dimostrò l’assoluta inesistenza di ciò che noi chiamiamo reale, propendendo il termine interpretazione del reale: ogni visione è quindi frutto di un processo cognitivo affascinante ma non oggettivo.
Ecco che sdoganando l’arte del racconto da un fatto puramente tecnico, coloro che amano questo processo costruttivo, questo processo puramente creativo capace di rendere idee parole, non può non interessarsi anche alle nuove forme di narrazione e sopratutto al ruolo o non ruolo del novello demiurgo della parola:
È per questo innamoramento verso l’arte del racconto, unito all’incontro quanto mai decisivo con il filosofo tedesco, Walter Benjamin, che ho voluto, in un’era di trasformazioni e ri-codificazioni del messaggio narrativo, indagare sullo stato di salute attuale della narrazione e sulle sue evoluzioni.
E non posso non ringraziare quest’omaggio profondamente appassionato a un arte che fin da bambina incantava il mio cuore.
Le serie TV in quest’ottica di rappresentazione non dei valori oggettivi della realtà ma piuttosto dai suoi umori, dal suo particolare ethos, dei residui illogici dietro a questa presunta oggettività diviene un “sostituito” dell’antica arte del racconto orale, sopra descritta.
Chi viaggia, ha molto da raccontare”, dice il detto popolare, e concepisce il narratore come colui che, vivendo onestamente è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni[
In sostanza il racconto orale:
meccanismo attraverso cui l’esperienza viene tramandata oralmente: il peso del giogo non è sullo scrittore, il cui compito è solo quello di registrare, mettere agli atti, l’esperienza collettiva: il suo è ancora « il gesto artigianale che dà permanenza e fisicità al liquido scorrere delle storie
Nelle serie TV si avverte, dunque una sorta di ritorno infinito all’antichità, perché il loro racconto a episodi, la loro capacità anche di essere visti non in termini sequenziali ma di significato comportano un approccio che coinvolge, a differenza del romanzo, narratore, attore e ascoltatore in un emozionante viaggio in cui il patto interpretativo è di nuovo instaurato.
Il sortilegio della narrazione è riuscito perché è il viaggiatore ad incantare Il sortilegio della narrazione è riuscito perché è il viaggiatore ad incantare oltre ad essere lui stesso incantato. L’intreccio si muove sulla falsa riga di un lungo racconto orale esposto ad ascoltatori attenti e partecipi. Sono tante le occasioni, infatti, in cui questi ultimi interrompono il narratore per essere meglio delucidati su di un particolare evento, per poi invitarlo, curiosi, a riprendere il racconto.
Il pubblico stesso può decidere addirittura se influenzare o no il processo creativo, cosi come successe al mio amato Dickens
Prima del Copperfield, Dickens aveva scritto Dombey and son. Era la storia di un uomo che perde la moglie e poi assiste al lento consumarsi della vita dell’esile figlioletto, oggetto dei suoi sogni per il futuro. […] Quando si spense, accasciandosi sul braccio della sorella, i lettori non gradirono la dipartita e disertarono l’acquisto dei successivi fascicoli di Dombey and son Dickens, accorgendosi dell’interesse del pubblico nei confronti di Paul, cercò di tenerlo in vita, almeno qualche altra puntata, ma il destino – è il caso di dirlo – era già stato scritto. Per recuperare il legame coi lettori – Dickens dichiarò di «aver perso la stella polare e di procedere a vista» – l’autore, prima di inviare il progetto del Copperfield al suo editore, fece esercizio di scrittura, reintrecciando i fili laddove si erano sciolti:
Ultimo punto da analizzare.
Perché scegliere come esempio proprio la serie How i met your mother?
Per due motivi.
La serie rappresenta benissimo il suo alter ego troppo spesso dimenticato ossia il feuilleton, ossia il romanzo d’appendice:
è una modalità narrativa specifica che nasce con la modernità, il cui tratto distintivo è la pianificazione della suddivisione di unità discrete da pubblicare in intervalli di tempo successivi e regolari
Secondo.
Sempre dalla viva voce dell’autore:
il primo, il più fondamentale, è perché ho ritenuto How I Met Your Mother pieno di narratività, cioè gravido di elementi più tipici della narrazione tradizionale oltre che pienamente rispettoso dei parametri benjaminiani di solidità, utilità e irripetibilità; il secondo, perché, probabilmente, per la stretta attinenza con i live anthology drama, di cui abbiamo già fatto cenno, rende il genere più reale e meno fictio
La serie è innanzitutto una concentrato di narrazione esemplare non solo per il contenuto dolce amaro, ma sopratutto per le tecniche stilistiche proposte.
Quella capacità di far coincidere ricordi reali con una falsificazione del reale ci riporta al tipico puro racconto che di un evento, ne tira fuori i valori portanti.
Nel caso della serie ad essere annichilito e a uscirne sottomesso e perdente è l’eterno rapporto con la morte.
E’ in questa lotta incessante con la fine che il ricordo, seppur a volte comicamente bugiardo, la doma e la conquista.
Come nel ballo in fa diesis minore la musica sconvolge la signora con la falce, il ricordo, posposto dal protagonista Ted quella volontà di ripercorrere la vita che lo ha portato alla somma felicità nonostante il terrore dell’abisso, è solo un rinnovare un profondo legame con un esistenza fatta di piccoli innumerevoli passetti che non si inchinano mai davanti all’oscura signora.
La morte nulla può contro la rimembranza.
A nulla può contro quel far rivivere persino l’amore attraverso la sottile ma potente voce del narratore.
intrattenendo i figli e, in un certo senso, rievocando il passato, percorrendo passo dopo passo, gag, sfide, risate, fallimenti, pianti, ogni briciolo importante di medeleine, cerca di assopire un grande dolore.
E allora la vera narrazione non è soltanto un processo che porta allo svago o alla manifestazione egoica del proprio genio.
Non è un solo struttura o tecnica.
Ma è un elemento che si nutre e deve nutrire l’anima della persona, svegliarla da torpore e farla iniziare a raccontarsi e raccontare attraverso l’utilizzo dei mille colori che la tavolozza della vita ci regala
è la leggerezza stessa della vita, di un tentativo quotidiano di resistere e andare avanti, nonostante tutto.
Ecco che la Serie TV diviene non uno strumento di annichilimento del pensiero, ma una sorta di incantesimo capace di far risorgere l’Ofelia/anima dagli inferi.
Basta semplicemente non voltarsi
Note
Walter Benjamin è stato un filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, pensatore eclettico che si è occupato di epistemologia, estetica, sociologia, misticismo ebraico e materialismo storico.
Il lavoro di Benjamin, riconosciuto postumo, ha influenzato filosofi (quali Theodor Adorno, Georg Lukács e Hannah Arendt ), mistici (come Gershom Scholem) e drammaturghi come Bertolt Brecht.
L’ha ribloggato su Francesco Amorusoe ha commentato:
Una bellissima recensione di Alessandra Micheli su «Les Fleurs du mal»
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