“Come una randagia” di Anna Serra, Les Flaneurs edizioni. A cura di Ilaria Grossi

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Ci sono incontri destinati a scalfire l’anima per sempre.

Sul bus 55, Emma giovane architetto torinese, incontra tra la diffidenza e il disgusto della gente, una senza tetto che senza esitare un attimo la guarda e le pronuncia premonizioni “di incidenti e morte”.

Emma resta profondamente turbata dalle sue parole, intrise di paura e angoscia, sembrano annunciare qualcosa di più grande ed imprevedibile.

Dopo l’abbandono del compagno Tommaso, Emma decide di partire per Amatrice, cercando rifugio a casa della nonna Vittoria.

Quella maledetta notte, le case si trasformeranno in buchi neri, dove nulla somiglia più ad un rifugio, dove nulla è più capace di proteggere ciò che inghiotte la terra in quei terribili e tragici minuti. In quel limbo di vita e morte, tutto scorre davanti agli occhi, ricordi e gli ultimi mesi della propria vita.

Una vita che ricomincia, nonostante le crepe che porterai dentro come quelle delle case, ricordo di fragilità e della precarietà di un attimo che non puoi fermare. Ritornare in piedi, sarà un percorso che riporterà Emma dove tutto è iniziato, sul bus 55 e l’incontro con la senza tetto. Si chiama Maddalena ed ha una storia dolorosa da raccontare.

Sono forti i temi toccati dalla scrittrice Anna Serra, il tragico terremoto di Amatrice e tutto il carico di dolore, paura per il futuro e quel senso di precarietà fortemente radicato in eventi imprevedibili come il terremoto, dove in una frazione di secondi si sgretola tutto… le case, la vita e i ricordi.

Maddalena, la clochard con il vestito di indifferenza cucitogli addosso da una società che guarda con disprezzo e che evita come un cane randagio.

Con uno stile fluido e armonioso, l’autrice è stata capace di mettere assieme con profonda sincerità una storia che intreccia più sfumature della vita senza banalizzazioni, anzi portando alla luce la dicotomia che la caratterizza, da una parte la fragilità e la precarietà, dall’altra quella forza di andare avanti, motore della vita stessa.

Complimenti.

Buona Lettura

Ilaria Grossi per Les Fleurs du mal blog letterario

 

“Il paradiso di Allah” di Puccio Chiesa, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

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E’ un piccolo e snello libro quello di Puccio Chiesa, dal colore rosso come la passione e come il sangue, quasi a sottolinearne il significato.

Perché di meraviglia e di violenza quelle poesie si nutrono e divengono carne pulsante.

Dalle macerie di un Europa che rinnega se stessa e le proprie radici fino a un Islam perduto, come direbbe Fatema Mernissi, nella foschia della sue paure.

Potrei semplicemente raccontarvi la bellezza dei versi del paradiso di Allah.

Ma vedete, quando si tratta dello snodo Islam, la mia coscienza mi impone un approccio molto meno “poetico” e più professionale.

Perché è oramai sdoganato l’orrido concetto di scontro di civiltà.

E io, che per fortuna o per fato, ho studiato a fondo il binomio islam Vs Occidente arretratezza Vs sviluppo, espresso nel complesso argomento la democrazia nell’islam (utopia o possibilità concreta), non potevo non riprendere i concetti socio-politici appresi e inserirli nel contesto intessuto da ritmo e parole di Puccio Chiesa.

Vedete, le sue bellissime poesie affrontano l’attualità.

Ma l’attualità si risolve non solo nel sistema guerra che funesta la Siria o l’Afganistan, nel dilemma morale e umano del terrorismo, ma anche nella manipolazione dell’informazione, oggi eccessivamente illusoria e incentrato su tanti, troppi sentito dire e su immense omissioni storico culturali.

Come direbbe Schimdt, l’escamotage del nemico funziona ancora, non solo per riunire sotto le bandiere ideologiche popoli divenuti massa, ma anche per evitare loro di arrivare a un percorso diverso più consapevole: il famigerato uomo nuovo di guevariana memoria.

L’islam il nostro fratello rinnegato, diviene il fulcro di ogni possibile cambiamento ma anche dimostrazione di ogni nostra imperfezione. Donare a una religione il marchio satanico è purtroppo, antico affare.

E seppur presente come macchia indelebile sul nostro curriculum coscienza, seppur fonte di ogni prostrato pentimento, non si è del tutto superato il binomio occidentale noi e l’altro.

Ed è ovviamente dimostrato dagli eccessi della nostra storia che oramai questo modello costitutivo dei rapporti sociali ha espresso ogni sua potenzialità, finendo per divenire rancido e nefasto.

Lo scontro è portato avanti in modo quasi ossessivo, come se rinunciare alla tranquillità degli schemi gerarchici, o ai pregiudizi valoriali ( buono, non buono) fosse per noi un affare di vitale importanza, unico elemento che riesce a non farci affondare nel mare dell’immensità della vita. Troppo immenso, troppo variegato, troppo sfumato questo dono divino, da poter essere compreso da noi miseri omuncoli impotenti davanti alla meravigliosa organizzazione del cosmo.

Più la scienza e la tecnologia riescono a scrutare gli orizzonti, più il terrore della nostra piccolezza ci assale, tanto da farci desiderare il tranquillo ritorno al pregiudizio confortevole e stabile.

L’altro torna cosi a essere il turco perfido.

Il bene e male tornano a giocare a dadi con le nostre vite.

Il nemico torna a ghignare satanico e noi siamo sereni perché il conosciuto domina e scaccia le ombre dell’ignoto.

L’altro non diviene specchio ma ostacolo, il motivo per acquisire gloria in battaglia, gloria sul web, gloria nelle invettive.

Una gloria priva di gloria verrebbe da dire in un atroce gioco di parole, il cui senso profondo dilania l’anima.

Ecco che la vendetta per un passato troppo tentacolare, diviene l’unico mezzo per comunicare: pugno contro pugno, chiusura contro parole, cecità contro le immagini.

L’islam diviene per la prima volta l’arcano nemico, il satana che minaccia, l’orrore dietro l’angolo di ogni strada e di ogni mercatino. Diviene l’oscuro grigiore che annichilisce l’immaginazione.

Diviene l’ortodossia che pur di dominarci se ne frega dell’uomo.

Diviene tutto quello che, in realtà siamo sempre stati.

E, poco importa se sia esistito o meno, ma vi ricordo che un tempo lontano un ribelle Rabbì fu capace di denunciare l’ipocrisia del fariseo che non rende l’uomo più importante del sabato.

La religione non è altro che il contenitore che racchiude ogni elemento sovrannaturale che spesso si risolve in un tentativo estremo di decifrarlo il cosmo, di dialogare con il tempo e di comprendere in sommi capi l’eterno legame tra noi e dio.

Legame stretto, forte, a volte un patto che presuppone, come ogni ACCORDO, il cedere di quella strana creatura di una parte della sua libertà.

Una libertà che è spesso caos, che è impulso sfrenato che è, per dirla all’araba, jahilyya, il tempo zero dove la sessualità indomabile, la creatività senza scopo non sempre producevano bellezza.

La umma, ossia la comunità, diviene un po’ simile alla mano del cavaliere che domina e dirige i suoi focosi destrieri ( impulsi, necessità, bisogno e oscurità) come descritto in Platone.

Diviene luogo in cui le volontà particolari si annientano per formare il bene superiore o la volontà generale a cui l’anima irrazionale e totalmente caotica deve sottomettersi.

L’uomo lupis che diviene uomo sociale.

E perché allora se dalla filosofia dell’islam mutuata dalla meravigliosa scienza araba, noi traiamo sempre elementi che la rendono totalmente aliena al nostro modo di pensare?

Se entrambe affondano le stesse radici in quel senso di meraviglia di chi tentava di dominare il tempo e le stelle, la consapevolezza dell’immenso meraviglioso dono di Allah/Jahve/Elohim.

E furono i turchi a dare forma al mediterraneo, con incontri e scontri, scambi e contaminazioni che resero quella regione cosi intrigante, cosi effervescente da essere estatico oggetto di studio da una Alessandra incantata dalla costante scoperte che, eravamo in fondo, un solo unico popolo.

L’esile filo che lega fra loro uomini diversi per per questo potenzialmente nemici che tuttavia riescono a interagire a scambiarsi conoscenze ed esperienze comuni per esempi nella pesca, attorno alle reti di una tonnara dove è forte l’influenza nord africana o in agricoltura dove prendono a prestito gli uni dagli altri usi, strumenti e metodi di lavoro (la denominazione degli attrezzi di lavoro nel centro Europa è spesso di origine turca)

I turchi il mediterraneo e l’Europa -Giovanna Motta

Lungo le coste del bacino del mediterraneo, nei territori dove occhieggiava l’impero ottomano il contatto tra cristiani, ebrei e musulmani consentì alle diverse culture (non etnie ma culture) di attuare le prime forse limitate forme di integrazione nelle strutture mentali, negli usi alimentari, nella musica, nei termini.

Dove sono finite quelle meraviglie oggi?

L’inutilità dell’essere umano

illumina la terra che si spezza

la terra vista dalla luna

che in mare si schiuma e si arena.

Dove sono i funzionari in carriera antesignani della nostra strana burocrazia provenienti dal costume del deviscirme? ( il proto servizio militare turco)

corpi condivisi a occidente

sulla rete sociale sulle pagine vuote

corpi martirizzati a oriente

promessi al paradiso

la battaglia di Aleppo di avvicina.

Dov’è L’islam del cielo, delle stelle?

Dove sono le scienze e le meraviglie filosofiche Sufi?

Dove sono le poesie di Umayl Ibn Ziyād, Qutayla. Hassān ibn Thābit, Jamīl, Akhtal, Jarīr, Kuthayyir, Dhū’l-Rumma?

Aleppo è polvere e urla

osceno scheletro in cerca dei propri sensi

e tutto questo orrore mentre

dagli ouzeri del piereo ai bistrò di Marsiglia

alle bettole di ogni sordida città

l’Europa canta

il desiderio delle proprie macerie.

L’Europa di oggi, quella che dovrebbe essere migliore dell’Europa di Lepanto, vuole semplicemente essere sommersa dalle rovine.

Desidera morire uccidendo se stessa, l’altra parte di se che l’ha resa la bellissima regina del mediterraneo.

E noi possiamo oggi assistere solo al decadimento, disperatamente nostalgici dei tempi in cui

tra il mare e l’Eufrate

I minareti di Aleppo

le stelle inchiodate

nel cielo delle mille e una notte

segreti e racconti di oasi

sommerse nella sabbia

odore di olio di rose

sotto di portici di Kham al Kabir

il richiamo dei muezzin risveglia le strade silenziose

questo è stato

Vorrei tanto ritrovare quei sogni di sabbia dorata, di incanti e magia tra le strade della meraviglia d’oriente.

Ma la terra non è più color bronzeo.

Ma è rossa come il sangue che sgorga dai nostri infranti sogni.

no, non si può più dormire

la luna è rossa, rossa di violenza

bisogna piangere insonni per capire

che l’ultima giustizia borghese si è spenta

Banda Bassotti

“Frange di interferenza” di Teresa Valentina Caiati, Eretica edizioni. A cura di Alessandra Micheli

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Se avessi lo stesso potere creativo di ogni mio autore, disegnerei la vita a colori sgargianti, come certi tessuti di seta, morbidi e perfetti nel loro maestoso intreccio, cosi tattili e al tempo stesso cosi gelidi, come se conservassero dentro di se l’ombrosità di quei minuscoli esseri che nei boschi segreti li hanno prodotti.

La seta con il suo perfetto reticolo, appare perciò simile a una vita che sembra straordinariamente organizzata in minuscoli e incantevoli dettagli, che all’occhio del mortale sfuggono.

Eppure, in quella perfetta tela, qua e la esistono delle frange e il tessuto cosi brillante non appare perfetto.

La seta produce dei fili che sembrano richiamare la loro origine solitaria, cibo inglobato da un esserino minuscolo e quasi snobbato, capaci di adornare corpi monumentali di re, regine e attori.

Ecco che il tessuto della vita si sfilaccia in mille altri labirintiche vie, fili e fili che ci appaiono sorridenti e che ci sussurrano altre storie, diverse dalla compattezza originaria.

Nel tessuto della vita le frange sono quei momenti in cui tutto può ri-niziare da capo, in un’imitazione sempre più maestosa del gioco della vita.

E sono quei momenti che interferiscono con la normale veglia a cui siamo abituati, scorci sul passato, visioni, creatività che anche in questa raccolta poetica si riversano nel ritmo.

Un ritmo antico che appunto, ci sembra riportare la memoria indietro, ai poeti che per innalzarsi al di sopra dell’umana virtù, costruivano un linguaggio possibilmente più vicino alla parola che diede l’avvio a questo pazzo mondo.

Ecco che la Caiati cerca appunto di riportare indietro l’attimo della generazione, non tanto della vita quanto di quel suono che si costruì attorno al primo organismo.

Ritmo e linguaggio fanno da padrone più delle immagini, più delle emozioni è il suono che gorgheggia lieto:

Faccio breccia nel cuore della poesia

e, spavalda,

insegno al vento a soffiare,

alle nuvole a navigare,

all’acqua a sgorgare,

e, mentre tutto scorre,

pianto i miei piedi nell’arsura della terra perché lì, immobile,

possa nutrirmi di linfa vitale.

Lei la dea suprema intesse la propria tela lasciando pendere nei confini dell’esistenza le sue frange, in attesa che altri ominidi possano intrecciare con lei la trama del reale:

Noi altri

abbiamo insenature

e promontori sulla schiena

simili alla gobba di Leopardi

per il peso crescente

cui la natura sottopone.

Incompatibilità di sistema.

E’ un percorso assolutamente creativo, laddove si incontrano e si inchinano:

mie false partenze,

le infinite rincorse

ignara o forse decisa a contrastare:

tra la cecità di un mondo indifferente.

È uno specchio in cui si riflette, prepotente, la mia immagine del Niente.

Ed è il riflesso, di se stessi, dei desideri, di un lontano perduto ideale che diventa gigantesco durante questo strano accidentato ma assolutamente estatico percorso poetico:

Crediamo a quel che siamo,

a quel che vediamo.

Mai a quel che crediamo di essere o di vedere”.

Il riflesso è menzogna

e manca di sinapsi con l’oggetto.

Il sole, vecchio collante,

non avrà più cura d’allungar le sue braccia per omaggiare il mondo

con il mirabile fascino dei riflessi.

Quanta energia disperde!

Quanti sguardi illude!

E ciascuno di noi inciampa

lì dove crede di vedere una via

o l’abbondare della duplicità.

E soltanto parlando con se di se stesso, è solo indagando i luoghi remoti del paradiso di idee precluso ai più che il poeta si stacca dalla quotidianità per divenire di tutto diritto egli stesso creatore:

Imparai da sola a camminare

quando tutti, ai primi passi,

iniziarono a ripetermi:

vai,

ritmicamente,

vai,

burlandoti

dell’asincrono battito

ch’ hai nel petto”.

Ed è nella sua costante voglia di seguire le frange dell’esistenza, gli angoli attraverso cui gli angeli ci parlano, che il poeta inizia a conoscere i misteri.

Da sempre a ripeterci

che la natura è lo spettacolo più bello a cui possiamo assistere,

ma io voglio origliare dietro le quinte per scoprire le ore

nell’istante fecondo

in cui fanno l’amore

per far nascere il giorno.

Ecco che il vero ruolo della poesia torna ad appartenere alle parole del buon vecchio Shelley, consigli e moniti di cui la Caiati fa tesoro

La poesia toglie il velo di bellezza celata al mondo e fa sì che oggetti a noi familiari ci appaiano sotto una luce diversa… La poesia traduce tutte le cose in amore, esalta la bellezza di ciò che è più bello, aggiunge bellezza a ciò che manca di grazia, sposa l’esultanza l’orrore il dolore e il piacere, l’eternità e il mutamento tutte le cose inconciliabili che unisce sotto il suo giogo leggero….La poesia ci fa abitanti di un mondo diverso di cui quello che comunemente conosciamo è solo un’ombra…La poesia libera il nostro animo dal velo dell’abitudine che ci impedisce di scorgere la meraviglia del nostro essere, ci spinge a sentire ciò che percepiamo e a immaginare ciò che conosciamo”

In difesa della poesia

Shelley

Intervista di Alessia Mocci a Cristina Zaltieri: vi presentiamo Spinoza e la storia. (Fonte http://oubliettemagazine.com/2019/06/12/intervista-di-alessia-mocci-a-cristina-zaltieri-vi-presentiamo-spinoza-e-la-storia/)

 

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Nietzsche coglie cinque motivi di consonanza tra il suo pensiero e quello del pensatore olandese: entrambi combattono l’illusione del libero arbitrio, confutano il finalismo di matrice aristotelica, distruggono la concezione di un ordine morale inerente al mondo, mostrano l’interesse come motore di ogni umano agire, negano il male ontologico, insito nelle cose stesse.” – Cristina Zaltieri

Spinoza e la storia” edito nel maggio 2019 dalla casa editrice mantovana Negretto Editore è un saggio critico sul filosofo olandese Baruch Spinoza (Amsterdam, 24 novembre 1632 – L’Aia, 21 febbraio 1677) comprendente una ricca selezione di saggi curati da Cristina Zaltieri e Nicola Marcucci, pubblicato nella collana “Il corpo della filosofia”.

Il saggio si apre con l’introduzione “Spinoza. Come pensare altrimenti la storia” di Cristina Zaltieri nella quale sono illustrate le quattro parti che compongono l’ambizioso e ben riuscito progetto corale di nuova rilettura del filosofo olandese seguendo la moderna attenzione riservatagli dai filosofi Gilles Deleuze e François Zourabichvili.

La prima parte, “Alle radici di una storia spinoziana”, inizia con il saggio di Chiara Bottici e Miguel de Beistegui, seguono il saggio di Patrizia Pozzi, il saggio di Francesco Toto, con chiusura di Nicola Marcucci.

La seconda parte, “Una solitudine condivisa. Tra precursori e seguaci”, prende avvio con il saggio di Augusto Illuminati, seguono il saggio di Guillermo Sibilia, il saggio di Riccardo Caporali, con chiusura di Cristina Zaltieri.

La terza parte, “Contro la lettura astorica”, vede come primo saggio “Spinoza e la storia” di Vittorio Morfino, seguono il saggio di Thomas Hippler; il saggio di Andrea Cavazzini, con chiusura di Homero Santiago.

La quarta parte, “Spinoza oltremoderno”, si apre con il saggio di Ezequiel Ipar, seguono il saggio di Manfred Walther, il saggio di Maria de Gainza, con chiusura di Stefano Visentin.

Cristina Zaltieri è docente di filosofia ai licei e cultrice di filosofia all’Università di Bergamo. Dirige assieme alla stimata collega Rossella Frabbrichesi la collana “Il corpo della filosofia”. Precedentemente altri suoi lavori filosofici sono stati pubblicati per gli editori Guerini e Mimesis.

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A.M.: Ciao Cristina ci siamo conosciute grazie alle pubblicazioni che hai curato sul filosofo francese di origini georgiane François Zourabichvili che si dedicò interamente alla comprensione al commento dell’opera di Baruch Spinoza e Gilles Deleuze. Oggi non ci discosteremo molto dall’argomento, infatti la nostra chiacchierata verterà sulla nuova pubblicazione che hai curato con Nicola Marcucci, “Spinoza e la storia”. Come nasce l’idea di questa raccolta di saggi su Baruch Spinoza?

Cristina Zaltieri: Nel giugno 2013 alcuni studiosi italiani di Spinoza, Raffaella Colombo, Vittorio Morfino, Gianfranco Mormino e Nicola Marcucci convocarono a Milano per un convegno di tre giorni esperti di studi spinoziani da ogni parte del mondo al fine di considerare il complesso rapporto che il pensiero di Spinoza intrattiene con la storia, al di là di un secolare interdetto che nelle interpretazioni tradizionali gravava su tale rapporto. Ne emerse un panorama di studi e di letture variegato e davvero cospicuo che subito si mostrò meritevole di pubblicazione in quanto il tema risultava nella letteratura spinoziana pressoché inesplorato. Ma per alterne vicende, in primo luogo legate al finanziamento della pubblicazione, l’impresa si bloccò fino a quando, nello scorso anno, Silvano Negretto mostrò interesse al testo per la sua collana di filosofia “Il corpo della filosofia”. Nicola Marcucci ed io, che avevo partecipato come relatrice al convegno, ci facemmo carico ben volentieri del lavoro di curatela della pubblicazione.

A.M.: Quali sono − nella diversità dei punti di vista evidenziati nei diversi saggi − i temi e concetti chiave per i quali Spinoza può dirsi interessato al movimento e alle trasformazioni della storia?

Cristina Zaltieri: Spinoza nella sua breve vita ha elaborato una filosofia che ha il proprio cuore pulsante in un progetto di liberazione etico-politica, progetto ben testimoniato dall’Etica e dai due Trattati. Emancipazione, democrazia, libertà, formazione, sono tutti temi che riecheggiano nelle pagine di Spinoza e la storia e che ogni studioso di Spinoza sa essere cari al nostro filosofo. Di certo un interesse per la storia traspare lungo il Trattato teologico-politico ed è presente pure nel Trattato politico; ciò spiega come la gran parte dei saggi raccolti in Spinoza e la storia si riferiscano ai due testi in questione. Nel primo testo Spinoza mostra una profonda conoscenza dei costumi e delle vicende della storia ebraica biblica che fa valere in senso critico nei confronti di una lettura astorica della Bibbia. Nel Trattato politico la disamina dei tre modelli statuali, monarchico, aristocratico e democratico (quest’ultimo purtroppo non affrontato da Spinoza che muore lasciano incompiuto il testo) è arricchita da continui exempla tratti dalla storia delle comunità umane – dei romani, degli aragonesi, degli inglesi, ecc. − ben conosciuta da Spinoza.

Ora, un progetto emancipativo richiede un confronto con la storia come luogo del divenire umano. Si tratta di capire quali caratteri assuma l’indubbia attenzione di Spinoza per il divenire umano. È questo il tema centrale del testo, declinato in molteplici forme dai vari autori. Ad esempio, Manfred Walther considera la distanza (e anche i punti in comune) tra la concezione spinoziana, che non ammette l’emergere dell’assolutamente nuovo, e la lettura evolutiva. Homero Santiago legge nel more geometrico non l’antitesi ad ogni divenire (come spesso si è detto), bensì la possibilità di dar conto delle trasformazioni nel senso di un’esplicazione di ciò che ogni ente inviluppa in sé, proprio come ogni figura geometrica implica in sé molteplici proprietà. Mariana de Gainza legge in Spinoza una lettura della storia che l’autrice chiama “prospettivismo critico” e che è antidoto ad ogni costruzione di una storia universale.

A.M.: Quali sono, secondo te, le fasi storiche fondamentali (e relativi autori più significativi) nelle quali si svolgono e via via mutano le interpretazioni della filosofia complessiva di Spinoza?

Cristina Zaltieri: Quando Spinoza muore, nel 1677, non ha adepti né lettori, al di fuori della cerchia ristretta dei suoi amici; è in odore di ateismo e per un secolo sarà pressoché dimenticato (se si escludono rari commentatori come Pierre Bayle) fino a quando nel 1785 il filosofo tedesco Jacobi rende pubblica una sua conversazione con il grande letterato illuminista Lessing in cui quest’ultimo dichiarava di sentirsi in piena consonanza con il pensiero di Spinoza. Lessing asseriva che le tradizionali forme di religione non gli dicevano più niente, egli riposava ormai su un unico pensiero: en Kai pan, ossia “tutto è uno”. Ne emerse un dibattito che coinvolse i maggiori pensatori del momento e che servì per riportare all’attenzione di tutti il pensiero dell’eretico Spinoza anche se molti dei lettori del tempo, tra cui Kant, stigmatizzarono in Spinoza un razionalismo esaltato, fanatico, privo di alcuna misura e limite, che pretende di spiegare ogni verità metafisica. Le letture idealiste che ne seguirono, quella di Hegel, in primis, se da un lato riconoscevano al pensiero di Spinoza una grandezza indiscussa, dall’altro lo inchiodavano a pensiero della sostanza immota, dove il finito e il molteplice, in quanto effimera apparenza, si inabissano.

Bisogna giungere agli anni sessanta del Novecento per assistere, in terra francese, a un radicale cambiamento di paradigma nella lettura di Spinoza. Ne è esponente significativo Gilles Deleuze che nelle sue ricerche dedicate a Spinoza, Spinoza et le problem dell’expression (1968) e Spinoza. Philosophie pratique (1981) fa di Spinoza il filosofo della radicale immanenza valorizzando temi quali quello del desiderio, del corpo, della filosofia come cammino di liberazione. Negli anni settanta Althusser e i suoi discepoli, Etienne Balibar e Pierre Macherey, leggono in Spinoza un filosofo rigorosamente materialista, una sorta di precorritore, nella considerazione dell’ideologia, del pensiero di Marx. Ad Althusser dobbiamo la lettura di uno Spinoza portatore di una storia “altra”, una storia policronica e evenemenziale.

Da allora ai giorni nostri Spinoza è sempre più studiato, in tutte le parti del mondo, come dimostra la varietà di provenienza degli studiosi ospitati in Spinoza e la storia. La popolarità di Spinoza ha reso paradossalmente questo filosofo − così difficile e arduo da comprendere − una sorta di esponente della pop-filosofia, citato persino da Vasco Rossi prima di un suo concerto qualche anno fa. Questa popolarità di Spinoza dà ragione a Deleuze che, mentre lo definiva “il principe dei filosofi”, lo chiamava anche il “filosofo dei non filosofi” perché il suo pensiero rende possibile una sorta di approccio “affettivo”, selvaggio, ai suoi concetti.

A.M.: Perché le interpretazioni raccolte sul saggio “Spinoza e la storia” sono differenti da quelle tradizionali?

Cristina Zaltieri: Spinoza, accompagnato in vita come dopo la morte, dall’aura negativa del pensatore che fu maledetto dalla sua stessa comunità di appartenenza, esecrato da tutte le chiese, isolato dalla cultura ufficiale del suo tempo, ritornò ad essere oggetto di attenzione, anzi di una vera e propria Spinoza Renaissance, nel contesto del Romanticismo tedesco. Ora, sia i detrattori sia gli entusiasti adepti del filosofo dell’Etica, lo lessero, in quel contesto, come colui che considerava la totalità del reale, incarnata nella Sostanza infinita, come immobile, dunque senza storia, abbandonando il divenire dei singoli modi, uomini, esseri animati o cose, alla conoscenza immaginativa. Questa è una lettura di Spinoza che è durata più di due secoli e che ha inibito una ricerca in direzione dei possibili apporti della filosofia di Spinoza per pensare la storia.

Nei saggi raccolti in Spinoza e la storia si va oltre la tradizionale accusa volta a Spinoza di un rifiuto della storia e si assume ciò che il testo stesso di Spinoza, in particolare i due Trattati, chiaramente esprime: un interesse per la storia, considerando le peculiarità della storia pensata à la Spinoza. Ne emerge una storia in cui costantemente è al lavoro l’imprevedibilità del desiderio che sfugge a ogni incanalamento (Bottici – de Beistegui). Una storia che assume dal toledot, storia generativa ebraica, caratteri singolari e carnali, legati al passaggio madre/figlio, senza possibilità di uno sguardo universale e oggettivo, quale la storia dominante nella cultura platonico-cristiana – di ispirazione erodotea – esige (Pozzi). Una storia in cui non è agente un soggetto libero e autodeterminantesi ma un automaton, ossia un soggetto sociale che si esprime in pratiche determinate (Toto). Si deve considerare che alla base della concezione spinoziana del tempo, sta la lettura epicureo-lucreziana che lo vede come una pluralità di ritmi, una policronia (Illuminati), restando il tempo privo di valenza ontologica, mero ausilio dell’immaginazione, mentre è la durata, sempre singolare, del modo finito che ogni ente è, a scaturire dalla potenza della sostanza, ad avere quindi una realtà ontologica (Sibilia).

A.M.: “Nietzsche e Spinoza contro la moderna formazione dell’umano” è il titolo del tuo contributo che chiude la seconda parte del saggio. Cito dal testo: “Sia Spinoza sia Nietzsche rifiutano di considerare degni di valore concetti quali quelli di «perfezione» o «imperfezione», «ordine» o «disordine» attribuiti agli enti, poiché entrambi vi leggono il segno di una riduzione delle cose alla misura dell’uomo, al criterio del proprio utile.” Quali sono in breve gli elementi di fondo che si ritrovano nei due filosofi?

Cristina Zaltieri: Nietzsche incontra Spinoza almeno dieci anni dopo i suoi esordi filosofici, come testimonia la famosa lettera a Franz Overbeck del 31 luglio del 1881. Ne rimane estasiato, finalmente non si sente più totalmente isolato, si sente legato a Spinoza in una solitudine a due, come egli stesso racconta. Nietzsche coglie cinque motivi di consonanza tra il suo pensiero e quello del pensatore olandese: entrambi combattono l’illusione del libero arbitrio, confutano il finalismo di matrice aristotelica, distruggono la concezione di un ordine morale inerente al mondo, mostrano l’interesse come motore di ogni umano agire, negano il male ontologico, insito nelle cose stesse. Si potrebbe dire che Nietzsche legge in Spinoza un suo antecedente in quanto maestro del sospetto, impegnato a distruggere i falsi idoli della nostra tradizione di pensiero. In realtà, nella mia ricerca, intendo evidenziare che i punti di contatto sono ben più numerosi, alcuni non considerati affatto da Nietzsche che spesso condanna in Spinoza un atteggiamento ascetico, un razionalismo esangue che in realtà non c’è. D’altra parte come ha recentemente mostrato lo studioso Maurizio Scandella, Nietzsche non lesse di prima mano Spinoza ma si affidò alla lettura offerta da Kuno Fischer nella sua storia della filosofia di impostazione hegeliana. Nel mio lavoro mi interessa in primo luogo la comune lettura “energetica” della realtà: per entrambi l’essenza di ogni ente è potenza. La formazione dell’umano è letta da entrambi come pieno dispiegamento dell’essenza/potenza che definisce ognuno di noi e che richiede un percorso singolare: entrambi contrastano l’idea di una formazione dell’uomo mirante all’utile da conseguire il più velocemente possibile e fondata su modelli universali pre-costituiti. Infine entrambi vogliono combattere i moralisti, i maestri che giudicano e condannano in nome di passioni tristi (disprezzo per l’uomo, odio, risentimento…) al fine di una vita che sia davvero liberata e finalmente umana.

A.M.: Poco più avanti troviamo “[…] l’aggettivo «duplice» si presta a due letture: in primo luogo dice l’innaturale naturalità di cui l’uomo è affetto in quanto animale che crea per natura l’artificio, che contravviene alla natura modificandola. Dunque, non ha senso, per Nietzsche, il motto stoico «vivere secondo natura» poiché la vita umana è ‘innaturale’, ossia è natura che si fa sforzo, artificio, tentativo di dar forma e stile alla forza”. Che cosa ci fa pensare che l’artificio − la possibilità di intervenire sulle “cose” − non sia esso stesso dato dalla Natura essendo una nostra capacità “innata”?

Cristina Zaltieri: Hai colto perfettamente il senso di ciò che chiamo “naturale innaturalità” dell’uomo: è la nostra natura quella di essere innaturali, ossia di produrre tecnicamente continue protesi del nostro corpo, dal bastone acuminato con cui ai primordi del tempo umano il primitivo suppliva alla scarsa forza delle sue mani per uccidere l’animale, fino al computer, protesi della nostra mente, della nostra memoria. Questo carattere dell’uomo era perfettamente colto ben prima di Nietzsche, dal sofista Protagora come testimonia il mito a lui attribuito e narrato nel dialogo di Platone, il Protagora. In tale mito Epimeteo è incaricato dagli dei di distribuire i doni divini a tutti gli esseri viventi. Egli li esaurisce tutti (denti aguzzi, artigli, zampe veloci…) attribuendoli agli animali e, quando giunge all’uomo, non ha più doni da offrirgli. L’essere umano avrebbe dovuto soccombere nella lotta per la vita se non fosse intervenuto il titano amico dell’uomo, Prometeo, che ruba a Efesto il fuoco e lo dona all’uomo insieme all’entechne sophia, alla tecnica. Protagora nullifica, migliaia di anni fa, tutte le lamentazioni, ancora inutilmente presenti, sulla tecnica che snatura l’uomo. In verità la tecnica, l’artificio, anche quello educativo, è la nostra innaturale natura.

A.M.: Che cos’è la Bildung e perché “entrambi i filosofi condividono un progetto di Bildung che resta isolato nel contesto di una modernità protesa a formare nel modo meno dispendioso e più veloce individui utili e docili alle richieste dello Stato e del mercato; entrambi avvertono il pericolo della cattiva educazione che vedono in tal senso agire nelle diverse società a cui appartengono.”?

Cristina Zaltieri: Uso il termine tedesco Bildung perché è equivalente a ciò che i greci chiamavano paideia e perché è utilizzato con grande profondità teoretica da Goethe che è il vero tramite tra Spinoza e Nietzsche. Goethe era spinoziano, si potrebbe dire non per scuola, ma per natura di pensiero e Nietzsche, amandolo e facendo propria gran parte della sua riflessione, si è nutrito di pensiero spinoziano ben oltre il suo cosciente e tardivo entusiasmo per Spinoza di cui ho prima parlato. Bildung, ci spiega Goethe, è termine legato a Bild, che è forma mobile, non fissa come invece in tedesco è Gestalt. Dunque Bildung dice una formazione dell’umano che non è legato a un modello universale e stereotipato e che si addice perfettamente a ciò che intendono sia Spinoza che Nietzsche quando riflettono su tale tema. Spinoza nell’Etica si scaglia contro i cattivi maestri che invece che firmare l’animo dei discenti, frangono, distruggono la loro singolarità. Ancor oggi questo monito severo contro l’omologazione nell’educazione (che è appunto la distruzione della singolarità) deve farci pensare. Nietzsche è sconcertato, da parte sua, degli esiti nefasti che egli legge all’esordio dell’educazione di massa e che consistono nel ridurre l’uomo a moneta corrente, ossia a merce il più presto possibile pronta ad essere utilizzato nel mercato. I veri maestri non sono coloro che ci abbandonano all’istinto del gregge (presente per pigrizia, per inerzia, in ognuno di noi), ma sono coloro che ci indicano la nostra vera natura, che ci aiutano a dispiegarla appieno. Lo scopo di ogni educazione autentica è proteggere quel nucleo ineducabile che è la nostra propria singolarità. Si tratta di riflessioni che sembrano purtroppo poco o per niente frequentate dalle nostre istituzioni scolastiche.

A.M.: θαυμάζω. Thaumàzein. Nel Teeteto, Platone indica nel pathos della meraviglia il principio primo. Aristotele parte dall’idea che la meraviglia possa far stimolare alla ricerca delle cause ultime. Contrari Nietzsche e Spinoza. Ma trasportiamo questa diatriba ai nostri giorni e consideriamo quanto la psiche umana sia confusa da orari da rispettare, notizie che si accavallano ed alle quale non si riesce a trovar il tempo per creare connessione. Il mondo virtuale che ha modificato l’attività giornaliera del mondo fisico per un’esaltazione della maschera o dell’Io. In questa insicurezza del vivere è possibile che la meraviglia di veder il tramonto od il sorgere del sole senza il bisogno di scattare una fotografia da inserire su un profilo social, possa portar la capacità di interrogarsi? L’uomo riesce ancora a chiedersi: ma perché avviene? Se la meraviglia può portare nuovamente il dubbio a quel punto ci può essere l’ascesa alla pace, al bene, al silenzio?

Cristina Zaltieri: Per quanto concerne la lettura che Spinoza offre della meraviglia rimando al bel saggio di Nicola Marcucci contenuto nel libro. Ricordo solo che per Spinoza l’admiratio è il nostro atteggiamento mentale di fronte a ciò che non colleghiamo a nulla di già esperito, di fronte all’insolito, o meglio, a ciò che pensiamo, immaginiamo, lo sia. Per questo non ha valenza conoscitiva, ci fa sospendere qualsiasi connessione e relazione e ha il potere di ingigantire le passioni che accompagnano l’emergere dell’insolito. Nietzsche poi propende per concepire l’inizio del pensiero piuttosto che dal tradizionale thaumàzein, da un trauma, da una ferita che richiede il pensiero come farmaco, come rimedio. Quanto alla meraviglia che tu identifichi piuttosto con la contemplazione, con il raccoglimento, con il tempo del pensiero, mi trovi del tutto in sintonia con la tua preoccupazione: è triste e disumano che le nostre vite non trovino più modo di ospitare un po’ di vuoto, di silenzio, di tempo da perdere che poi è quello che nutre il nostro pensiero critico e la nostra creatività.

A.M.: Ci sono in programma presentazioni di “Spinoza e la storia”?

Cristina Zaltieri: La prima presentazione di Spinoza e la storia è prevista in Università degli studi di Milano lunedì 24 giugno e vedrà alcuni autori dei saggi contenuti, Vittorio Morfino, Riccardo Caporali, Stefano Visentin, i curatori del libro, Nicola Marcucci ed io, discuterne con Roberto Diodato e Giorgio Mayer Gatti sotto la presidenza di Gianfranco Mormino. Sarà una buona occasione d’incontro tra spinoziani sulla questione della storia.

A.M.: Puoi darci un’anticipazione? Stai lavorando ad un nuovo saggio?

Cristina Zaltieri: Sono impegnata nella scrittura di un testo collettaneo che, a cinquanta anni dalla pubblicazione di Differenza e ripetizione, capolavoro giovanile di Gilles Deleuze, si interroga sull’attualità dell’opera.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Cristina Zaltieri: Direi che dobbiamo concludere con Spinoza, con le ultime parole con cui egli chiude la sua Etica:

[…] la via che ho mostrato condurre a questo [la vera tranquillità dell’animo] pur se appare molto difficile, può tuttavia essere trovata. E d’altra parte deve essere difficile, ciò che si trova così raramente. Come potrebbe accadere, infatti, che, se la salvezza fosse a portata di mano e potesse essere trovata senza grande fatica, venisse trascurata quasi da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.”

A.M.: Cristina ti ringrazio per questa interessante chiacchierata. Seguo il tuo esempio e saluto anche io con una citazione dell’Etica, dalla parte terza “Essenza ed origine delle emozioni” (Laterza, 2009):

“Di quanti hanno scritto sulle emozioni e sulla maniera di vivere degli uomini, i più sembrano trattarne, non già come di cose naturali, conformi alle leggi comuni della natura, bensì come di cose estranee ad essa. Anzi, sembrano concepire l’uomo, nella natura, alla stregua d’un impero all’interno d’un altro impero; credendo che, anziché seguire l’ordine della natura, lo perturbi, poiché avrebbe un potere assoluto sulle proprie azioni, come non determinato da altro che da se stesso.”

Written by Alessia Mocci

Responsabile Ufficio Stampa Negretto Editore

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Fonte

http://oubliettemagazine.com/2019/06/12/intervista-di-alessia-mocci-a-cristina-zaltieri-vi-presentiamo-spinoza-e-la-storia/

“Creature oscure. Il dio drago” di Francesco Lombardelli. A cura di Alessandra Micheli

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Come sa chi oramai mi conosce e mi segue ritengo l’antesignano del fantasy il mito e la leggenda e quei racconti folcloristici che oggi noi snobbiamo come vetusti.

Eppure è grazie a Cu Chulainn, a Arth Fawr (lArtù gallese) o al buon vecchio Talisien o alla mitica Caladvwlch la spada capace di intagliare la roccia, simbolo di regalità nell’Irlanda dei sogni e degli incanti se oggi, possiamo vantare una miriade di trame che ci trasportano in reami incantati.

Lo stesso Tolkien e la stessa Bradley non hanno fatto che rimestare nel calderone ribollente della tradizione per prendere a prestito idee che hanno colorato con le tinte brillanti della loro originalità, nata in seno al tempo che scorre, alle esperienze e alla peculiare visione del potere e della cavalleria eroica.

Ed è grazie al saggio di Campbell se oggi, questo percorso affascinante che rende l’uomo, da semplice pedina di un dio beffardo, in un vero e proprio protettore di arcani e eterni valori, quelli che lo stesso sant’Agostino chiamerà verità eterne.

Il fantasy, dunque, diviene non solo narrazione capace di trascendere le idiosincrasie del tempo attuale, di una società che mano a mano, complice i secoli gettanti più ombre e luci, diviene sempre meno capace di badare a se stessa, ma è percorso evolutivo, introspezione psicologica atta a farci affrontare mostri e demoni, nemici e meraviglie promettendoci l’eternità dell’azione eroica, celebrata, appunto dai canti dei trovatori.

Ogni fantasy è quel tentativo di dare voce al miglior istinto umano, quello di interagire con il mondo senza esserne sottomesso e senza subirlo.

Ogni eroe del fantasy, brillante, furbo, astuto, disperato o inconsapevole diviene il simbolo della capacità dell’uomo di sfuggire alla sua terrena e materiale mortalità, divenendo appunto eroe.

E’ in questo percorso scosceso, irto di pericoli ma anche ricco di insegnamenti, che si nasconde il segreto di questo genere, che ancor oggi celebra l’unione del conosciuto e dell’arcano, della carnalità con la gnosi capace di elevarci a semidio.

Cosi come i personaggi delle saghe irlandesi e gallesi, gli stessi protagonisti dei moderni racconti epici (perchè il fantasy non è altro che un racconto epico) sono coloro che spianano la strada all’uomo qualunque che diviene persona, unica e irripetibile.

E per divenire eroi di cosa si ha davvero bisogno?

Di una spada direte voi.

Di avventure e misteri.

Di una dama a cui elargire i pensieri dai più pudici ai meno leciti.

Di mostri e prodigi?

No.

Dell’oscurità.

Non esiste eroe che non si trovi a combattere oscure creature, nate nei meandri dei peggiori sogni e non si trovi a combattere con divinità infere.

Lombardelli, questo canone lo rispetta appieno, donando al suo “eroe” o al suo proto-eroe un rivale degno di questo nome, ma sopratutto ricco di innumerevoli sfaccettature simboliche.

Cosa si troverà, dunque a combattere?

Ebbene si..il drago!

Creatura che funestava i miei sogni di bimba, con il suo alito di fuoco e le sue scaglie di volta in volta argentee o dorate, diviene qua il prototipo di ogni prova che il prode DEVE poter superare.

Il drago è simbolo del potere regale ad esempio.

E tutti voi sapete che la regalità non è soltanto vista come impegno ma anche come legittimazione di ogni azione umana.

Io posso essere il re scelto dal popolo o da qualche arcana autorità e essere, pertanto libero di compere ogni misfatto nell’ottica macchiavelliana del fine giustifica i mezzi.

E in questo libro, assolutisti in cerca di gloria e di guadagno ne troverete, tanto che ad un tratto il fantasy virerà verso una lieve ma non meno intrigante, fantascienza distopica.

In un mondo del tutto modificato da atti scellerati e irresponsabili, l’uomo tenta di tornare a primeggiare su una natura divenuta nuovamente, come nella preistoria, ostile usando l’intelligenza scientifica.

Esprimenti e volontà di possesso e di sopraffazione guideranno le intelligenze perdute di alcuni soggetti, preposti in realtà alla conservazione della vita umana.

Il fine giustifica i mezzi qua regna sovrano sbeffeggiando e irridendo i pochi idealisti che aborriranno tali scelte.

Ma altresì, il drago è anche la figura collegata al ciclo della rinascita.

E ci insegna che per rinascere, bisogna morire.

Bisogna che l’io cosciente si sfaldi per dare la luce alle più remote capacità, misconosciute e allontanate con timore da tutti noi.

Ma è in quel lato oscuro, privato delle scorie, nel riallacciare i fili della nostra esperienza umana anche laddove essi siano stati intessuti da signora sofferenza, che possiamo trasformare l’impulso più pericoloso in elemento positivo.

La rabbia di Ferdinand può essere trasformata in volontà di giustizia.

Il suo dolore, in compassione.

Ed è quell’empatia, cioè il sentire la pena dentro di se non più come punizione ma come dono, che lo rende e ci rende immuni dalle seduzioni del potere.

Il drago è la speranza che dal caos possa scaturire una nuova creazione, forse più equa, forse meno elitaria.

E’ la consapevolezza che il lato oscuro, va semplicemente analizzato, spezzettato e ricomposto in una nuova forma.

Accanto a un linguaggio moderno che non stona con l’idea classica del percorso dell’eroe, Lombardelli da alla luce un tema antico e spesso troppo pieno di ragnatele, in una nuova forma, più vicina alle nostre esigenze moderne, più comprensibile attraverso la ricerca del significato immediato privo e scevro da ridondanze moraleggianti.

Eppure, essa, l’etica, brilla con una maestosa semplicità e la si assorbe durante la lettura non priva di risate per la grottesca e tenera comicità di quei personaggi capitati per caso in un mondo fatto di gloria e onori:

La verità è che un eroe è colui che sceglie di essere la versione migliore di sé stesso.

E questo significa che tutti noi, anche se ci sentiamo cosi goffi come un albatros disceso sulla terra, siamo in realtà capaci di meraviglie più grandi di quelle effettuate da Ferdinand:

La verità è che se ci fossero più eroi non ci sarebbe più bisogno di cambiare il Mondo.

E forse è ora che anche una semplice lettura di svago, piacevole divertente, possa accendere dentro di noi una piccola scintilla.

E con in mano Durlindana, Excalibur o anche un semplice bastone di faggio, possiamo andare incontro la nostro personale drago.

 

“How i met, your mother.La narrazione al tempo delle serie TV” di Francesco Amoruso, Il terebinto editore. A cura di Alessandra Micheli

How met yuor mother. La narrazione al tempo delle serie tv- Francesco Amoruso

 

 

C’era un tempo in cui i nostri antenati avevano un unico mezzo per tener unita la società e la famiglia: le storie.

Quando ancora non esisteva TV, romanzi, fumetti.

Quanto le notti contadine erano buie e tempestose, quando finivano le stagioni del raccolto (l’ultima avveniva proprio il famigerato 31 ottobre) la famiglia, il clan, la tribù si ritrovava attorno al fuoco e ricostruiva il patto sociale attraverso la tradizione orale del racconto.

La narrazione, quindi, non può distaccarsi da questa componente storico antropologica che aveva la funzione sacrale di riallacciare la cooperazione comunitaria, il legame sopratutto vivi e morti, e rinnovare grazie all’incantesimo ammaliatore della voce ripetuta, i valori che sostenevano e facevano sopravvivere il clan.

Il racconto, dunque l’arte della narrazione, nasce e si sostiene grazie ai cantastorie che innalzano la loro voce a formare quello che Clarissa Pinkola Estes chiama il cando hondo, ossia il canto rotondo, laddove ci esalta e di festeggia il cosiddetto cerchio della vita, quella sequenza circolare di vita, morte, vita, importantissima per il sostentamento delle primitive civiltà agricolo pastorali.

Ecco il nascere attorno a questi ricordi mitici o reali e pertanto divenuti leggenda, i primi agglomerati urbani, le prime forme di civilizzazioni stanziali.

L’agricoltura da l’avvio persino alle prime religioni e alla prima forma di gestione del potere; la terra madre e sostentatrice degli uomini diviene l’origine del necessario ruolo di pacificatore, di custode dei suoi arcani segreti e di protettore degli uomini suoi figli.

Tutto parte dalle storie.

Le fiabe, il mito, la tradizione, la leggenda, la favola, il folclore divengo i contenitori a cui, poi attingerà il romanzo moderno.

Unico neo di quest’inversione narrativa, ossia l’oralità a favore della scrittura, sembra essere la perdita di un contatto diretto tra ascoltatore e narratore.

Nei tempi in cui il racconto si tramandava esso era sempre vivo.

Capitava e capita di trovare versioni diverse di una stessa fiaba proprio perché, per non farla morire di stenti la si corredava di diverse interpretazioni, di visioni ogni volta parziali che acquisivano lo status di generalità.

Ogni fiaba diveniva cosi viva proprio perché si instaurava un patto interpretativo capace di essere “toccato” con mano: la tradizione orale diveniva dinamica proprio dall’intromissione del pubblico che partecipava attivamente e proponeva nuovi finali di volta in volta coincidenti con i primari bisogno emotivi e irrazionali dell’animo.

Questo con il romanzo e ce lo descrive perfettamente il saggio in questione, rischia di perdersi perché la lettura diviene un fatto privato, uno scambio non universale ma binario tra due entità distinte: l’artista e il fruitore.

Attenzione non più lettore, ossia elemento partecipativo del processo di creazione, ma soltanto il destinatario ultimo delle ardue fatiche del venerabile scrittore.

Il tema su cui quindi il saggio di Amoruso va a riflettere è la modifica sostanziale del processo di narrazione, che diviene interessante non soltanto per comprendere la fascinazione delle serie TV ma anche per sdoganarle da un contenitore etichettato come cultura di massa, con ogni connotazione elitaria del caso.

Chi è dunque il narratore?

E come si è modificata la narrazione dall’era antica a quella post moderna?

Non negherò che le tesi di Amoruso sono da me assolutamente condivise e anzi spesso utilizzate inconsciamente nelle mie recensioni.

E trovo assolutamente fondamentale questa conclusione sul senso dell’atto del narrare mutuata dagli studi del buon Pirandello:

ciò che unisce alchimia e letteratura è il magico processo di falsificazione della realtà. E se ci aggiungiamo la capacità dei Narratori, quelli con la N maiuscola, di perpetrarla in secula seculorum,

Perché falsificazione?

L’arte libera le cose, gli uomini e le loro azioni da queste contingenze senza valore, da questi particolari comuni, da questi volgari ostacoli, da queste ccidentali miserie: in un certo senso, li astrae: cioè, rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Crea così un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) e irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tendono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. Non già che egli rappresenti tipi o dipinga idee: semplifica e concentra. L’idea che egli ha dei uoi personaggi, il sentimento che spira da essi evocano le immagini espressive, le aggruppano e le combinano. I particolari inutili spariscono; tutto ciò che è imposto dalla logica vivente del carattere è riunito, concentrato nell’unità d’un essere, diciamo così, meno reale e tuttavia più vero.

Pertanto, narrare non significa altro che:

Narrare significa quindi mettere in piedi un mondo ex novo, sia che si inventino nuovi sistemi, come nel caso di fiabe e fantasy, sia che si rappresenti, più fedelmente possibile, quelli già esistenti. In entrambi i casi, si ottiene un qualcosa che è altro rispetto alla vera realtà.

Sempre partendo dal presupposto che il termine di realtà, ed ha ragione la Virginia Woolf, è perfettamente vago, inattendibile e riguarda la percezione unica e persona che ciascuno ha del mondo che ci circonda. Lo stesso psicologo Adalbert J. Ames con i suoi esperimenti dimostrò l’assoluta inesistenza di ciò che noi chiamiamo reale, propendendo il termine interpretazione del reale: ogni visione è quindi frutto di un processo cognitivo affascinante ma non oggettivo.

Ecco che sdoganando l’arte del racconto da un fatto puramente tecnico, coloro che amano questo processo costruttivo, questo processo puramente creativo capace di rendere idee parole, non può non interessarsi anche alle nuove forme di narrazione e sopratutto al ruolo o non ruolo del novello demiurgo della parola:

È per questo innamoramento verso l’arte del racconto, unito all’incontro quanto mai decisivo con il filosofo tedesco, Walter Benjamin, che ho voluto, in un’era di trasformazioni e ri-codificazioni del messaggio narrativo, indagare sullo stato di salute attuale della narrazione e sulle sue evoluzioni.

E non posso non ringraziare quest’omaggio profondamente appassionato a un arte che fin da bambina incantava il mio cuore.

Le serie TV in quest’ottica di rappresentazione non dei valori oggettivi della realtà ma piuttosto dai suoi umori, dal suo particolare ethos, dei residui illogici dietro a questa presunta oggettività diviene un “sostituito” dell’antica arte del racconto orale, sopra descritta.

Chi viaggia, ha molto da raccontare”, dice il detto popolare, e concepisce il narratore come colui che, vivendo onestamente è rimasto nella sua terra, e ne conosce le storie e le tradizioni[

In sostanza il racconto orale:

meccanismo attraverso cui l’esperienza viene tramandata oralmente: il peso del giogo non è sullo scrittore, il cui compito è solo quello di registrare, mettere agli atti, l’esperienza collettiva: il suo è ancora « il gesto artigianale che dà permanenza e fisicità al liquido scorrere delle storie

Nelle serie TV si avverte, dunque una sorta di ritorno infinito all’antichità, perché il loro racconto a episodi, la loro capacità anche di essere visti non in termini sequenziali ma di significato comportano un approccio che coinvolge, a differenza del romanzo, narratore, attore e ascoltatore in un emozionante viaggio in cui il patto interpretativo è di nuovo instaurato.

Il sortilegio della narrazione è riuscito perché è il viaggiatore ad incantare Il sortilegio della narrazione è riuscito perché è il viaggiatore ad incantare oltre ad essere lui stesso incantato. L’intreccio si muove sulla falsa riga di un lungo racconto orale esposto ad ascoltatori attenti e partecipi. Sono tante le occasioni, infatti, in cui questi ultimi interrompono il narratore per essere meglio delucidati su di un particolare evento, per poi invitarlo, curiosi, a riprendere il racconto.

Il pubblico stesso può decidere addirittura se influenzare o no il processo creativo, cosi come successe al mio amato Dickens

Prima del Copperfield, Dickens aveva scritto Dombey and son. Era la storia di un uomo che perde la moglie e poi assiste al lento consumarsi della vita dell’esile figlioletto, oggetto dei suoi sogni per il futuro. […] Quando si spense, accasciandosi sul braccio della sorella, i lettori non gradirono la dipartita e disertarono l’acquisto dei successivi fascicoli di Dombey and son Dickens, accorgendosi dell’interesse del pubblico nei confronti di Paul, cercò di tenerlo in vita, almeno qualche altra puntata, ma il destino – è il caso di dirlo – era già stato scritto. Per recuperare il legame coi lettori – Dickens dichiarò di «aver perso la stella polare e di procedere a vista» – l’autore, prima di inviare il progetto del Copperfield al suo editore, fece esercizio di scrittura, reintrecciando i fili laddove si erano sciolti:

Ultimo punto da analizzare.

Perché scegliere come esempio proprio la serie How i met your mother?

Per due motivi.

La serie rappresenta benissimo il suo alter ego troppo spesso dimenticato ossia il feuilleton, ossia il romanzo d’appendice:

è una modalità narrativa specifica che nasce con la modernità, il cui tratto distintivo è la pianificazione della suddivisione di unità discrete da pubblicare in intervalli di tempo successivi e regolari

Secondo.

Sempre dalla viva voce dell’autore:

il primo, il più fondamentale, è perché ho ritenuto How I Met Your Mother pieno di narratività, cioè gravido di elementi più tipici della narrazione tradizionale oltre che pienamente rispettoso dei parametri benjaminiani di solidità, utilità e irripetibilità; il secondo, perché, probabilmente, per la stretta attinenza con i live anthology drama, di cui abbiamo già fatto cenno, rende il genere più reale e meno fictio

La serie è innanzitutto una concentrato di narrazione esemplare non solo per il contenuto dolce amaro, ma sopratutto per le tecniche stilistiche proposte.

Quella capacità di far coincidere ricordi reali con una falsificazione del reale ci riporta al tipico puro racconto che di un evento, ne tira fuori i valori portanti.

Nel caso della serie ad essere annichilito e a uscirne sottomesso e perdente è l’eterno rapporto con la morte.

E’ in questa lotta incessante con la fine che il ricordo, seppur a volte comicamente bugiardo, la doma e la conquista.

Come nel ballo in fa diesis minore la musica sconvolge la signora con la falce, il ricordo, posposto dal protagonista Ted quella volontà di ripercorrere la vita che lo ha portato alla somma felicità nonostante il terrore dell’abisso, è solo un rinnovare un profondo legame con un esistenza fatta di piccoli innumerevoli passetti che non si inchinano mai davanti all’oscura signora.

La morte nulla può contro la rimembranza.

A nulla può contro quel far rivivere persino l’amore attraverso la sottile ma potente voce del narratore.

intrattenendo i figli e, in un certo senso, rievocando il passato, percorrendo passo dopo passo, gag, sfide, risate, fallimenti, pianti, ogni briciolo importante di medeleine, cerca di assopire un grande dolore.

E allora la vera narrazione non è soltanto un processo che porta allo svago o alla manifestazione egoica del proprio genio.

Non è un solo struttura o tecnica.

Ma è un elemento che si nutre e deve nutrire l’anima della persona, svegliarla da torpore e farla iniziare a raccontarsi e raccontare attraverso l’utilizzo dei mille colori che la tavolozza della vita ci regala

è la leggerezza stessa della vita, di un tentativo quotidiano di resistere e andare avanti, nonostante tutto.

Ecco che la Serie TV diviene non uno strumento di annichilimento del pensiero, ma una sorta di incantesimo capace di far risorgere l’Ofelia/anima dagli inferi.

Basta semplicemente non voltarsi

Note 

Walter Benjamin è stato un filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, pensatore eclettico che si è occupato di epistemologia, estetica, sociologia, misticismo ebraico e materialismo storico.

Il lavoro di Benjamin, riconosciuto postumo, ha influenzato filosofi (quali Theodor Adorno, Georg Lukács e Hannah Arendt ), mistici (come Gershom Scholem) e drammaturghi come Bertolt Brecht.

“L’equazione aliena” di Alessandro Dolce, La Strada di Babilonia. A cura di Alessandra Micheli

 

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Non cerco di immaginare un Dio;

mi basta guardare con stupore e

ammirazione la struttura del mondo,

per quanto essa si lascia cogliere

dai nostri sensi inadeguati.

Albert Einstein

E’ molto difficile parlavi del libro equazione aliena.

E questo perché è spettacolare.

Un libro di quelli che vanno “divorati” in un attimo, in un boccone per chi come me è affamato di scienza e di azione.

Per voi altri palati fini da gourmet, consiglio una lettura lenta, assaporando ogni pagina e godendovi un istante magico in quest’estate afosa, in cui solo un buon libro potrà donarvi un vento fresco capace di stuzzicare e titillare i vostri addormentati sensi.

Del resto l’estate è il periodo del mistero, nonostante quel sole che con i suoi raggi tenta di stanare ogni ombra.

Ma quella luminosità non può nascondere il lato tenebroso della vita, che si rianima ogni notte, con quella luna cosi luminosa complice del mistero che scorrazza felice.

Per tutti coloro che credono nel potere esoterico dell’inverno, ricordo che è nelle notti di mezza estate che il magico e il numinoso si affacciano cantando inni alla natura che si rivela in tutto il suo splendore.

Il mondo dell’arcano si fa cosi vivo e reale, nonostante la sua peculiare ombrosità, si affaccia in quegli odori caratteristici delle vacanze, nel rumore del mare che sembra un canto di sirena, nel frusciare degli alberi dei boschi che raccontano le voci allegre dei popoli magici e invisibili ai più.

Per questo, equazione aliena appartiene non solo alla scienza ma anche a quel mondo dell’impossibile che tanto amo, quel sovrannaturale che lungi dal frenare il mio ardore verso la scienza l’abbraccia divenendo unica, immensa, stupefacente teoria.

Per troppo tempo la dicotomia tra pleroma e creatura, tra soprannaturale e meccanico ha funestato le scoperte di ogni tempo.

Ha diviso i sapienti, i saggi e messo in trincea i due opposti sostenitori del sistema vita.

Da una parte lo scienziato che rifiutava in toto, ogni velleità mistica, tutto incentrato su una spiegazione totalmente razionale della realtà, Dall’altra parte i reietti coloro che nella fede, nell’incanto meraviglioso del mito o dei libri sacri trovavano le annose risposte al quesito dei quesiti :perché l’uomo?

Entrambi feroci combattenti, entrambi rei di aver lacerato, spezzettato e quasi distrutto tutta l’omogeneità antica dell’interconnessione del reale. Un reale che per secoli era considerato al pari di un mosaico incredibile dove ogni pezzo, ogni tassello era precisamente posizionato in un omaggio costante all’energia cosmica chiamata dio.

Togliere Dio dalla scienza non fu un atto ribelle, pari a quello di Lucifero, Eva o Prometeo.

Fu solo un atto folle e scellerato teso a reiterare le conclusioni machiavelliane del fine giustifica i mezzi, de-responsabilizzando la scienza e rendendola il nuovo totalitarismo.

Ogni scienziato che credeva nella forza del numero diventò cosi personale arconte capace di gestire e imprigionare ogni piccolo tassello di verità.

Lo scienziato non poteva assolutamente aver nulla da spartire con il mistico, figuriamoci con la Bibbia.

Questa dicotomia ha però, mostrato la sua insensatezza.

I numeri di dio e gli studi batesoniani e persino gli sforzi di Einstein hanno riportato dio nelle equazioni.

E da questo tentativo davvero ribelle e rivoluzionario che parte il libro, invadendo anche il campo di chi, privato della divinità, ha tentato di ritrovare un sostegno in una galassia lontana, in fratelli diversi eppure superiori a lui: gli alieni.

La paura di essere soli in questo fantastico universo interconnesso e perfettamente strutturato e non secondo la teoria del caso, ma secondo un preciso intelligente piano, è diventata cosi claustrofobica da dover essere sopperita dalla new religion dell’ufologia.

Non possiamo concepire che una macchina perfetta, capace di unire coscienza e struttura fisica sia nato da una semplice favola causale.

Non è possibile concepire l’uomo stesso e il suo progresso solo frutto di tentativi ed errori.

E cosi la scintilla divina antica, la polvere di stelle diviene esperimento genetico di evolute forme di vita.

Eppure, sia negli scritti sacri che nelle mie amate filosofie mistiche esiste tutto quello che possiamo desiderare: una forma di energia che si nutre dell’amore e che per amore, compassione e desiderio di crescita ci ha posto come perla della sua creazione:

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,

che cosa è l’uomo perché te ne ricordi

e il figlio dell’uomo perché te ne curi?

Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,

di gloria e di onore lo hai coronato

E’ questa la creatura che il libro, con ritmo incalzante e una buona dose di umorismo racconta.

Uno scienziato che non si accontenta più della divisione nette e tenta, come fece Gregory Bateson al suo tempo, capace di creare una teoria che concepiva Dio non come ostacolo ma come elemento fondamentale della vita.

A tal punto non posso non citare le considerazioni di di John D. Barrow (scoperte a cui erano già pervenuti gli gnostici e dai pitagorici per cui il numero era Dio) che si è focalizzato sul significato che, per l’universo, assumono le costanti di natura. Se solo uno degli elementi che caratterizzano tali costanti, fosse leggermente variata essa comporterebbe e implicherebbe numerosi stravolgimenti, dalle strutture nucleari alle scale cosmologiche, tali che la vita NON SAREBBE PIU’ POSSIBILE.

Queste considerazioni ( consiglio la lettura del suo strabiliante saggio) non possono non avere ripercussioni sulle considerazioni morali, etiche e persino antropologiche, rendendo quegli scritti considerati frutto di illazioni fantastiche, in realtà veri manuali scientifici altamente simbolici.

Anche una parte della nostra bibbia contiene una favolosa lezione di storia naturale che è semplicemente un’arcana espressione della teoria del tutto, laddove sofferenza, morte, vita e rinascita trovano il loro giusto posto:

Sai tu quando figliano le camozze

e assisti al parto delle cerve? 

Conti tu i mesi della loro gravidanza

e sai tu quando devono figliare?….

Chi lascia libero l’asino selvatico

e chi scioglie i legami dell’ònagro, 

 al quale ho dato la steppa per casa

e per dimora la terra salmastra?….

Conterai su di lui, che torni

e raduni la tua messe sulla tua aia?

Puoi tu dare la forza al cavallo

e vestire di fremiti il suo collo? 

Lo fai tu sbuffare come un fumaiolo?….

Forse per il tuo senno si alza in volo lo sparviero

e spiega le ali verso il sud?

O al tuo comando l’aquila s’innalza

e pone il suo nido sulle alture?

( Libro di Giobbe)

Una meravigliosa lezione di storia Naturale, come direbbe Bateson.

Ecco che Alessandro Dolce continua la strada tracciata dal grande filosofo e biologo raccontando in un thriller intelligente e accattivante lo sforzo e la capacità di tanti valenti scienziati di far ritornare dio sul suo trono.

Era dio che si mostrava attraverso lo studio degli astri, attraverso equazioni e numeri aurei, attraverso lo stupore costante di Pitagora, attraverso il pi greco e le storia mitologiche che non erano altro che perfetti manuali della precessione delle stelle (cosi come scoprirono i grandi Dechand e De Santillana nel loro mulino di Amleto)

Ed è proprio questo impossibile che diviene reale a darci quel senso di incanto, quella curiosità rispettosa per indagare i misteri del cosmo e trovare un dio benevolo che ci sorride.

Scienza e religione non sono assolutamente nemici.

Sono le stesse parti di un diamante che noi stessi abbiamo deciso di non vedere.

L’uomo incontra Dio dietro ogni porta che la scienza riesce ad aprire.
Albert Einstein

“Garibaldi nel “Secondo Mondo” L’eroe in Sudamerica”. A cura di Alfredo Betocchi

 

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In quell’ultimo scorcio del 1835, la nave con le vele abbassate s’avvicinava velocemente alla costa brumosa del Brasile. Gli occhi azzurri del ventottenne guardavano assorti il porto di Rio che brulicava di gente e di merci. 

Nonostante la giovane età, Giuseppe aveva già sulle spalle una condanna a morte emessa dal Reale Tribunale di Genova per diserzione e alto tradimento.

Fra poche ore la città avrebbe salutato l’inizio dell’anno nuovo e Giuseppe ripensò alla famiglia perduta e a Nizza, la città dove aveva trascorso una felice fanciullezza1.

Sbarcato sul molo, si guardò intorno ma non riconobbe nessuna faccia nota poi una voce maschile lo fece voltare:

«Giuseppe! Benvenuto in America!» Era un ragazzone dall’accento ligure, accento di casa, che lo chiamava.

Rio De Janeiro, a quell’epoca abbondava di italiani e molti di loro erano liguri, suoi compatrioti. Il cuore gli si allargò e Giuseppe l’abbracciò fortissimamente. Anche l’amico ritrovato, Luigi Rossetti, era un patriota. Il giovane presentò Giuseppe ai molti esiliati italiani della città ed essendo un esperto marinaio mise ben presto su una piccola azienda di trasporti marittimi. Con i primi prestiti e un po’ di denaro risparmiato in Italia, comprò una tartana 2, iniziando a trasportare merci su e giù tra le coste del Brasile e dell’Argentina.

I tempi erano duri e gli affari non prosperavano. Giuseppe, spirito ribelle e con l’istinto dell’azione politica, si era intanto messo in contatto con i circoli mazziniani e rivoluzionari della zona. Tra gli altri, vi erano gli indipendentisti della ricca provincia brasiliana di Rio Grande do Sul 3

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Il Brasile a quell’epoca era un Impero dominato da una dinastia di origine portoghese. Proprio poco prima di quegli anni, l’Imperatore Pedro Primo di Baganza era morto lasciando un erede minorenne, il piccolo Pedro Secondo.

A causa della debolezza dello Stato, si erano riaccesi gli aneliti repubblicani e secessionisti di alcune delle regione periferiche del vasto impero.

Rio Grande do Sul fu la prima provincia che, con una rivolta coronata da successo, raggiunse l’indipendenza. Data la violenta reazione dei brasiliani, il neonato governo ribelle chiamò a raccolta tutti gli amanti della libertà e Giuseppe fu tra i primi, nel maggio 1837, ad accorrere a Porto Alegre, la capitale ribelle.

Data la sua esperienza di navigazione, gli fu concessa una patente di “corsa” nell’imminente guerra. Doveva perciò fare il Corsaro per conto della Repubblica.

Giuseppe, con soli dodici uomini, assalì coraggiosamente una goletta brasiliana carica di merci e se ne impadronì. Subito dopo, si diresse verso il porto di Maldonade, nel neutrale Uruguay, dove sperava di rivendere il carico a favore degli insorti ma, all’apparire delle due navi, il governatore locale, non volendo riconoscere la bandiera del Rio Grande, fece aprire il fuoco ai cannoni del porto.

A Giuseppe non rimase che la fuga. Dopo altri abbordaggi e altre battaglie, inseguito da numerose navi nemiche, continuò la sua guerra di “corsa” sui larghi e pescosi fiumi del Brasile, dell’Uruguay e dell’Argentina.

La situazione militare peggiorò quando anche l’Uruguay entrò in guerra contro la neonata Repubblica di Rio Grande.

Per Giuseppe fu un periodo pieno di peripezie e di rischi, stretto tra potenti flotte armate.

Un giorno fu ferito ma riuscì quasi miracolosamente, a sfuggire alla cattura.

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Si diresse in Argentina, anch’essa neutrale, ma le autorità lo fermarono perché combattente di una Repubblica non riconosciuta.

Fu ricoverato presso le carceri di Galeguay. Dopo il lungo e forzato riposo, Giuseppe, mai domo, tentò la fuga ma fu riacciuffato e crudelmente frustato per punizione. Dopo un breve periodo di detenzione, nel 1839, venne liberato.

Ritornò,con mezzi di fortuna e sotto falso nome a Porto Alegre, dove i compagni lo accolsero in trionfo. Il governo ribelle gli affidò, quindi, una piccola flottiglia con la quale riprendere le operazioni nella laguna riograndese e nell’Atlantico.

Un giorno, le truppe navali brasiliane circondarono la flottiglia nella laguna.

Con coraggio e faccia tosta, sbarcò e fece trasportare per terra le sue piccole imbarcazioni, attraversando la lingua di terra che lo divideva dal mare, salvando in tal modo sé stesso e la sua flotta dalla cattura.

Un’altra volta, invece, dovette dar fuoco alle sue navi, danneggiando gravemente anche quelle del nemico e salvando così nuovamente tutti i suoi compagni.

Continuò a combattere per tutto il 1840, ma oramai le sorti della piccola Repubblica erano segnate. Si ritirò perciò sotto falso nome a Montevideo, in Uruguay, mantenendosi dando lezione di algebra e geometria.

E’ in quel raro momento di pace che conobbe la bella Ana Maria Ribeiro da Silva, detta Anita, moglie di un pescatore brasiliano

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. Essa, impazzita d’amore per il biondo eroe italiano, lasciò il marito e fuggì con lui ignara della tragedia che avrebbe provocato. Il marito abbandonato cercò con tutti i mezzi di riavere indietro la donna infine, scoraggiato, morì di crepacuore.

Liberi da obblighi legali, la storia d’amore di Giuseppe e di Anita si concluse sull’altare il 16 marzo del 1842 a Montevideo.

Neanche la nascita di tre figli, Menotti, Teresita e Ricciotti, frenarono la pulsione guerresca di Garibaldi. Ben presto, con al fianco la bella Anita, potè riprendere il mestiere delle armi, arruolandosi al servizio dell’Ururguay in quella che fu detta “La Grande Guerra” con l’Argentina, governata dal dittatore Juan Manuel de Rosas.

Nel giugno del 1842, Giuseppe è al comando di tre navi. Con queste sfidò le preponderanti forze nemiche, talvolta vincendo, talvolta fuggendo sconfitto.

Ad agosto, dovette abbandonare definitivamente le sue navi per salvarsi la vita.

Assunse poi il comando di una nuova flottiglia ma, a novembre, la disfatta dell’esercito uruguayano rese inutile ogni ulteriore ostilità. Il dittatore Rosas, allora, assediò con numerose truppe Montevideo e Garibaldi accorse con i suoi compagni e l’intrepida Anita per dar man forte agli assediati.

Nell’aprile 1843 formò, con ottocento patrioti emigrati, una Legione Italiana issando un vessillo nero con un cerchio bianco, contenente un verde vulcano che eruttava lava rossa

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 Il nero era stato scelto da Garibaldi come colore di lutto per la lontana patria oppressa. I Legionari vestirono una casacca rossa, per la circostanza casuale di un blocco di camicie da macellaio destinato agli scannatoi argentini e rimasto disponibile a poco prezzo.

Nel novembre del 1845, con i suoi Legionari, sfuggì all’assedio e s’imbarcò su alcuni velieri, dirigendosi all’interno del fiume Uruguay fino a un luogo strategico chiamato “Il Salto” a causa di una grande cascata.

Lì il largo fiume si congiungeva a un immissario, detto San Antonio e, con questo nome, è passata alla storia la vittoria di Garibaldi sulle preponderanti truppe argentine, nel febbraio del 1846. Vittoria celebrata da tutto il Sudamerica e perfino nella lontana Europa e che gli diede la fama di generale invincibile.

Mazzini, da Londra, esaltò le gesta della Legione Italiana e a Firenze venne aperta perfino una sottoscrizione per una spada d’onore da donare a Garibaldi.

Erano ormai maturi i tempi che l’eroe dei Due Mondi abbandonasse il “Secondo Mondo” .

Il 15 aprile 1848 Giuseppe Garibaldi partì finalmente per Italia insieme ad Anita per iniziare l’avventura che lo porterà a coronare l’Unità del nostro Paese.

Note 

  1. 1Piccola imbarcazione di legno a un solo albero e con pochi remi,
  1. 2Ossia, Rio Grande del Sud che si trova tra il Brasile e l’Uruguay.
  1. 3 Nizza a quell’epoca faceva parte della regione ligure nel Regno di Sardegna.

“Un giorno o l’altro” di Tommaso Borelli, Kairos editore. A cura di Alessandra Micheli

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C’era un tempo, non tanto lontano ma felice, in cui lo scrittore sfuggiva dai salotti colti per immergersi in un umanità priva di artifici e di velleità intellettuali, per ritrovare un’essenza e una verità perduta.

Per scrivere, per vivere, doveva bearsi del fango, quello che davvero era capace di far nascere i fiori.

Nella fatica del quotidiano, in quella ferrea volontà di farcela nonostante i venti contrari, la vita si rivelava in tutta la sua magnificenza. Nonostante le periferie disastrose, nonostante la minaccia dell’anonimato e dell’oblio a ogni angolo, quella cacofonica vitalità primitiva e di borgata aveva una sua assoluta poeticità.

Nella saggezza contadina, nell’ironia disarmante e in una certa brutale carnalità che era quasi una disperata ricerca di piacere.

Attenzione piacere, non oblio o assuefazione.

Disperazione, persino ignoranza culturale nascondevano l’anima indomita e forte dell’umanità che non intendeva arrendersi davanti agli ostacoli.

Quella scugnizza, rea di ispirare canzoni immortali come guapparia, rea di aver incantato poeti del calibro di Pasolini (mi dispiace a voi detrattori ma le sue poesie sono dei veri autentici capolavori che non posso non esaltare).

In una cultura che si arroccava su se stessa, la massa era l’unica salvezza per garantire all’anima autentica e priva di artifici e di abbellimenti, di esprimere tutto il suo potenziale.

Ce lo narra Pasolini nel maestoso Pianto della scavatrice:

Stupenda e misera città,

Che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre,

come andare duri e pronti nella ressa delle strade,

rivolgersi a un altro uomo senza tremare,

non vergognarsi di guardare il denaro contato con pigre dita

dal fattorino che suda

contro le facciate in corsa in un colore eterno d’estate;

a difendermi,

a offendere,

ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore,

a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto:

che non mi sono fraterni,

eppure sono fratelli proprio nell’avere passioni di uomini

che allegri,

inconsci,

interi

vivono di esperienze ignote a me.

Stupenda e misera città

che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota:

fino a farmi scoprire ciò che,

in ognun, era il mondo.

Pier Paolo Pasolini

In questa critica sociale, ritroviamo il tema di De Andrè:

Dai diamanti non nasce niente

dal letame nascono i fiori

Fabrizio De Andrè

e quella ricerca assoluta del senso della vita che non si rifuggi in idilliache e incantate visioni sfuggenti, ma riguardi la concretezza della terra, delle sensazioni tattili, del pianto e del sudore.

Tempi felici in cui la vita non era assolutamente divisa in elevato e basso, in élite e massa, ma era solo e soltanto vita.

Poi la modernità che incalza, che irrompe e prosegue la sua folle corsa fino a divenire post modernità.

Post come se fosse troppo oltre quell’autenticità vissuta come arte, troppo avanti e troppo impregnata di strani valori che lungi dal trasformare la massa, la gente ,in percorsi evolutivi diversi che dal basso sanno guardare in alto, divengono evanescenti e stantii personaggi.

Ecco che la tecnologia inizia a ingabbiare a sdoganare il kitsch totalmente distante dalla poetica rappresentata da Pasolini e dai veristi. La poesie si rintana in un sottobosco in cui, causa rovi altissimi e pieni di spine, solo il temerario decide di avviarsi, armato della spada rappresentata dalla penna.

E cosi la gente fonte di ogni perfetto sonetto, diviene massa, informe e improntata non all’ignoranza culturale che non rappresenta ostacolo reale al senso della bellezza: il contadino seppur analfabeta poteva godere dei meravigliosi miracoli della vita, anzi spesso era una saggezza che proveniva direttamente da un animo impastato dalla terra.

No.

Il virtuale, la TV divenuta solo strumento manipolatorio e illusorio, oblio ipnotico, livellatore di contenuti, procura un’ignoranza morale ed etica.

Non più pianti della scavatrice ma pianti urlati nei reality.

Non più saggezze antiche ma opulenza mostrata senza ritegno dalle massa contenta di festeggiare l’avvento dell’uomo qualunque.

E chi ancora riesce a udire il soffuso effluvio della poesia, di una volontà di continuare a osservare il cielo si sentirà un alieno racchiuso in una costante, deleteria e assassina frustrazione.

Borelli questo disagio questo scellerato passaggio, lo racconta abilmente nel libro un giorno o l’altro.

Una routine che lo affligge, uccidendo ogni velleità di eternità e di candore, ogni aspirazione all’assoluto o alla ricerca del senso della vita senza il quale l’uomo non può assolutamente essere “umano”.

I sogni di un tempo considerati solo passatempi dal resto del mondo, abituato al diktat che solo il vivere comune possa essere assurto a unica sana condizione umana, diviene cosi prigione e abbandono.

L’uomo senza sogni non è che un guscio vuoto che suona rintocchi a morto.

Allora non esiste più movimento, nessuna spinta vero l’evoluzione, verso il miglioramento del se che letteratura e arte portano nel loro DNA, se non un vanesio e distante e illusorio ritorno a un tempo felice, un eden che però non diviene sprone ma piuttosto una sabbia mobile da cui farsi risucchiare.

E restarne ingabbiato morendo di asfissia.

Non ci sono eroi in questo testo.

Il protagonista è come lo definisce lo stesso autore:

Indeciso, sgradevole, maschilista, rancoroso.

Che però nella sua lucida e cinica visione rende evidente un omicidio ben architettato: quello dell’autenticità.

L’intellettuale deve tornare a richiudersi in se stesso.

Perché altrimenti la sua forza distruttiva, la sua verve poetica, il suo impatto ribelle rischiano di svegliare la società addormentata, come il bacio dell’intruso risvegliò quel mondo innaturale e sempre orrendamente uguale in se stesso della fiaba di Rosaspina

Nessuna Bella addormentata deve essere stimolata. Risvegliarsi significherebbe riscattarsi e la società non può permettersi di uscire da un pallido e morente status quo.

E cosi, il protagonista, mette i suoi talenti sotto la sabbia, nelle regioni ctonia dell’io e inizia a irrigidirsi su posizioni inconciliabili, distruggendo l’originaria comunione tra gli uomini e mettendo un muro feroce tra il suo presente e il giorno altro.

E l’altro istante diviene però il suo sogno di riscatto, un procrastinare giorno per giorno quel movimento che lo porterebbe a reagire e agire, rendendo la sua mente fertile e intellettualmente costruttiva, semplicemente luogo cambiamento.

Perfetta la descrizione di Borelli

è un ribelle vigliacco,

un rivoluzionario da poltrona:

teorizza il superamento del matrimonio e tradisce la moglie, ma di nascosto. Litiga con i colleghi insegnanti e svolge il suo lavoro in modo svogliato,

però senza mai oltrepassare il limite,

senza trasformare la sua inerzia in protesta aperta.

Perché, se lo facesse,

sarebbe un eroe,

un personaggio da romanzo,

e lui invece non lo è: gli manca la stoffa.

 

Ed è forse la condizione che vive oggi il nostro intellettuale.

Un soprammobile da salotto.

A volte grottesco e ridicolo ma mai incisivo.

Una pallida imitazione di cosa un tempo significava cultura.

Cosi come lo descrive causticamente Renato Zero

Gente troppo complicata

Così disorientata

Gente, che ti è successo mai

Hai perduto quel tuo fascino

Quel tuo profumo tipico, il brio

Furbizia ed ironia

Stavi sempre alla finestra

Eri generosa, onesta

Maestra di vita non sei più, gente

Catenacci alla tua porta sì

Un lucchetto sul tuo cuore lì

L’amore da te non bussa più

Non è un libro positivo.

Ma è un libro necessario perché solo raccontando senza veli la situazione morale della cultura di oggi, forse si può pensare a una vera modifica sostanziale.

 

 

“Brandelli di memoria” di Alessio Vecchioni, Scatole Parlanti edizioni. A cura di Francesca Giovannetti

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Aron si trova incatenato a una sedia, al buio.

Non ricorda niente, nemmeno il suo nome.

Oscure presenze appaiono e scompaiono, una voce esce da una cassa.

Aron annega e riaffiora, a tratti, nei suoi brandelli di memoria.

Soffocante e inquietante, questo romanzo breve mette a nudo la potenza della memoria e del ricordo.

Chi siamo realmente?

Cosa ci spinge o ci trattiene?

Siamo i nostri ricordi o siamo altro da loro?

Quanto influiscono sulla nostra individualità?

Alla fine di questa lettura le domande saranno più numerose delle risposte.

Pagine costruite con un ritmo straordinariamente serrato, che guida e confonde allo stesso tempo, lasciando il lettore in uno stato confusionario e onirico.

L’autore gioca sul filo della realtà e dell’illusione, racconta di un palcoscenico reale che si trasforma spesso in un panorama passato, dove riaffiora il racconto.

Un faticoso gioco di costruzione del passato per comprendere il presente. Visioni confuse di ricordi che affiorano con difficoltà, alla ricerca di figure femminili, una donna, la madre; e soprattutto alla ricerca della verità: cosa è successo?

Che cosa ho fatto?

Quale male ho compiuto o subito?

La presenza di una vittima è il pretesto, quasi, dal quale si parte, per affrontare un viaggio insidioso e difficile.

Un flusso continuo di emozioni e immagini, a volte raccapriccianti, come il cervello vivo e pulsante dal quale escono indizi per continuare il cammino attraverso ciò che è stato e si tenta di ricordare.

Uno stile che si snoda in bilico fra il racconto e il pezzo teatrale, dove il cambiamenti di scena sono repentini e spiazzanti.

È più facile procedere scrivendo cosa NON è questo libro

Non è una lettura leggera.

Non è una caccia all’assassino.

Non è una linea retta.

Cosa rimane?

Una matassa disordinata di incubi e angosce, una ricerca faticosa del ricordo attraverso pochi frammenti, un brancolare alla ricerca di ciò che è stato e del perché.

E alla fine ci si chiede: non è quello che ciascuno di noi ha provato, almeno una volta?

L’autore lo fissa con inchiostro e carta; e il lettore riflette.