
Ho sempre sentito parlare di Elle Eloise come di una scrittrice con la rara capacità di dare spessore e profondità ai suoi personaggi, portando il presunto rosa lungo le via più impervie ma sicuramente più assolate del romanzo di formazione.
Purtroppo, non ho mai avuto il piacere di leggerla e quindi tendevo a minimizzare gli entusiasmi come frutto di un sentire estremamente personale ma che mancava di una certa capacità di divenire non più libro individuale ma globale entrando con orgoglio nella schiera delle opere che parlano di vita.
Mi spiego.
Spesso le narrazioni sono parziali, riferibili a una data persona, a una data esperienza a un dato accadimento che possono per uno strano colpo di fortuna riguardare altre esperienze similari, ma restando confinati nella comfort zone dello sfogo.
I libri cosi scritti divengono piccole meteore, divertenti, carini ma non possono assurgere la ruolo di racconto universale di tutto ciò che ci rende umani: Amore dolore, gioia, speranza e redenzione.
Sono e restano sfoghi, modi per metabolizzare la propria esperienza di vita, ma non sono e non diventano mai universali.
Partendo da questo presupposto si può costruire una scala graduata di bellezza del libro, partendo dal mediocre arrivando ala capolavoro che, appunto, si dirige verso il racconto non più del singolo ma della globalità umana.
E noi come umani siamo soggetti a percorsi definiti, ossia viviamo, sperimentiamo e poi lasciamo che quest’esperienza torni a far parte dell’infinito.
E lo scrivere, l’arte è un modo per rendere questa quotidianità speciale, unica e glorificata proprio dalla capacità dell’uomo di unire sensi a intelletto, carnalità a spiritualità.
Ed è per questo che nei libri il vivere comune è cristallizzato in un atto coraggioso e eroico.
In Elle, non sapevo se accadesse lo stesso miracoli, i suoi libri mi erano sottratti da altri, semplicemente facendo volteggiare davanti ai miei occhi bramosi gli horror.
Era facile allora lascia andare la piccola Eloise.
Poi finalmente sono riuscita a ottenere una sua raccolta di racconti.
E mi sono immersa curiosa e pronta a essere o stupita o resa indifferente. E ho compreso quanto avessi perso non leggendola. E’ vero. Elle è esaltata, è amata.
Ma mi chiedo se tutti coloro che la seguono si rendano conto di cosa lei inserisce nel libro.
Di quali valori si faccia portavoce e di come ella sia in grado di estraniarsi dalla sua esperienza per entrare nel flusso del mondo, regalandoci non cliché o macchiette, ma archetipi di vita, quelli importanti, quelli che oggi ci possono fa affrontare il peggior nemico di noi stessi: il dolore.
Come ho già spiegato in altre mie recensioni, questo strano sentimento è il più celebrato, forse il motore che mette in atto la creatività di ogni genio letterario e poetico, ma al tempo stesso il più terrorizzante, e parlo di un terrore non sano, ma paralizzante.
Il dolore siffatto non viene accolto, ma odiato, combattuto, ci fa fuggire disperati, e ci fa affogare in ogni vizio, in ogni oblio capace di annichilirlo. I personaggi di Elle sono guidati da questo filo conduttore, l’abisso che si apre sotto di loro, l’abisso dal quale tentano di scappare chi non la volontà di dimenticare in ogni modo, con alcol, sesso, droga o semplicemente la voglia di negare le proprie ferite.
Eppure, al pari del racconto di Babablu laddove la moglie disubbidiente tenta di nascondere la chiave che apre la stanza degli orrori, ma essa continua a urlare e sanguinare, il male non può assolutamente venire ignorato.
Le ferite pulsano, hanno storie da raccontare e insegnamenti da donare.
Hanno voci che non possono essere azzittite e quelle voci accusano la nostra società dei peggiori misfatti, uno dei più terribili è quello di lasciare i giovani prede degli orchi.
Di uccidere la speranza e la purezza, i sogni e la possibilità di essere felici, perché cosi senza l’energia dei ragazzi, tutto è più controllabile.
Ecco che i personaggi minori, ma oserei dire le forze motrici dei suoi libri, sono pedine in mano ai crudeli signori della banalità. Sono lacerati, vilipesi, feriti, massacrati e violati. Sono li eppure invisibili ai nostri occhi. Cercano la via di fuga e una mano per uscire da quell’abisso ma nessuno ascolta, nessuno tende il braccio verso di loro.
E restano li, a ferirsi e tentare di morire dentro.
Ma è in quell’istante id puro abbandono, di una notte più nera della pece, che lo sguardo si alza per un ultimo addio e vede le stelle.
Ecco che il dolore si trasforma grazia alla nostra umana capacità di sopravvivenza in speranza. Ecco che le stelle ci illuminano facendoci desiderare, anche se sembra un desiderio colpevole, di abbrancarle, di farci scaldare il ghiaccio del cuore dalla loro luminosità. E in quel momento i bivi irrompono nella visuale accecata da troppe lacrime, capaci di lasciare solchi aridi sul viso. E’ in quegli attimi che è possibile cambiare la vita, e redimere tanto dolore e trasformarlo in rabbia, in amore, in voglia di riscatto. In opportunità. Perché la vita è una madre che ci vuole felici. E sa quanta strada dobbiamo fare per liberarci dei vermi che vogliono rosicchiare la nostra interiorità.
Ecco che chi ha perduto se stesso, ritrova forse un volto diverso, meno perfetto, segnato ma luminoso come le stelle che desidera mangiare per tenerle dentro di se. Ragazzi che si sono fermati auto punendosi.
Ragazzi che hanno preferito isolarsi invece di affrontare il costo della vita.
Ragazzi che divengono donne e uomini, modelli per tutti voi, che avvertite il dolore nei muscoli, quando iniziate la salite.
Questo libro, prezioso e potente, vi promette che dopo la fatica sarà possibile sostare sulla montagna, osservare l’orizzonte e accorgersi che i draghi che ci facevano tanta paura, rispetto a noi e alla corazza che ha creato il dolore, possono essere sconfitti perché fragili e inesistenti.
E grazie al dolore capisci che oramai sei un uomo e loro, sono un cazzo di niente.
A cura di Alessandra Micheli
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