“Purple lilies” di Lavinia Morano, Brè editore. A cura di Alessandra Micheli


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Lavinia mi ha molto colpito come autrice perché, a differenza di molti non si ammanta dell’aura di saggia consigliera di vita o novella Bronte, sicura di cambiare il corso della letteratura.

Con semplice umiltà asserisce questa straordinaria verità che lo scopo di ogni racconto è quello di divertire e intrattenere, di donare un solo istante di agognata serenità.

E per lei cresciuta a suon di racconti e fantasia il raccontare, intrattenere come la cantastorie di una volta diviene vitale, essenza stessa della sua esistenza.

E cosi come un moderno menestrello, entra nel mondo del pensiero, l’iperuranio di platoniana memoria, prende parti dell’eterna tradizione fantastica e ce li consegna, con grazia e talento.

Mentre leggevo, mi immaginavo questa ragazza che scappa dalla modernità fatta di apparenza e di virtualità, per rifugiarsi e far rifugiare nel mondo della parola scritta, immaginando storie e ricamando con esse il telaio immenso ed eterno, dell’arazzo chiamato tradizione.

E gli elementi del viaggio imperituro dell’eroe ci sono tutti: i cattivi, la ricerca del senso della vita, e un corollario di personaggi che, sembrano altrettante parti del suo io ma che, per ironia della sorte o per un incanto maliardo, sembrano ripercorrere gli archetipi umani o quei tipi psicologici individuati da Jung.

Ecco che abbiamo la disillusione umana di chi di fronte alla difficoltà si adagia nel fallace traguardo di una stabilità materiale, spesso a discapito di un benessere interiore che porta la serenità anche laddove il nero delle nubi tempestose minaccia il nostro cielo.

Oppure la genuinità dell’innocenza che non può non essere idealista e anche sfacciatamente e assurdamente venata di ottimismo sfrenato, la sete del potere che rende ardii e sterili i cuori e distrugge mondi e universi.

E poi ci sono ossessioni e imperfezioni umane come il cinismo, ma anche la perseveranza, il godere dei beni materiali come il cibo senza assaporarli davvero, l’orgoglio e la fragilità e la speranza, muta musa che ci tiene per mano e tenta di non farci sprofondare nell’abisso. Utilizzando questi eterni simboli del nostro umano errare, Lavinia racconta e si racconta, finché essa stessa e la sua anima si fonde con una voce antica, ma potente che, partendo dalle velleità artistiche che fanno del racconto luogo e oasi di puro piacere, ci accompagna in una zona poco confortevole, irta di pericoli e di splendori inimmaginabili: la nostra personale evoluzione.

Purple lillies lascia cosi il comodo terreno della commedia dell’arte, per immergersi in una saggezza antica ma di primaria importanza, specie oggi, che semplicemente tenta di restituire dignità a particelle divine di luce imperitura sfuggite per un atto di orgoglio o per un momento di stupidità folle, alla fonte primaria di ogni creazione: l’amore.

Il suo testo, non so se inconsapevolmente o no, si addentra nei terreni impervi ma altrettanto indispensabili per far respirare la nostra anima, chiamato gnosticismo e che e lei abilmente descrive in modo semplice e immediato. 

Per lei l’amore non è altro che quella forza superiore a ogni mortale impulso, parte infinitesimale di un universo molto più ampio, più complesso della porzione che arriva alla nostra limitata percezione.

E cosi, il male che non ha spazio in quest’armonia cosmica, per lei diventa qualcosa di estraneo alla vera natura umana. E tale germe non può quindi corrompere totalmente qualcosa che nasce direttamente dal pensiero divino, ma solo una piccola parte, quella che non vive nelle regioni profonde del nostro io.

Qualcosa di puro resta, e sta a noi farla risaltare, farla brillare, farla vincere.

E credetemi non sono frasi banali e scontate.

Vi svelo un segreto arcano: tutta la letteratura gnostica è venata di questa profonda Consapevolezza che in mezzo alla lordura, al peccato, alla trasgressione, alle rovinose cadute dell’anima ingabbiata dagli arconti, esiste sempre una piccola scintilla di pura luce che va, semplicemente, liberata per potere tornare in seno alla sua mater divina.

La stessa storia della Pistis Sophia, scritto gnostico trovato nelle caverne di Nag Hammadi, è abilmente raccontata in modo meno pomposo e con un linguaggio meno complicato, grazie allo stile narrativo del fantasy, che crea un impatto e immediato in grado di penetrare i cuori dei più scettici.

Ecco che il racconto classico, diviene al tempo stesso innovativo.

Proprio perché accostato alla filosofia tradizionale.

Ed ecco che la pistis da scintilla di luce posta in un altra dimensione, diviene l’alieno (letteralmente l’altrui, l’altro da se) piombato sulla terra per un giocoforza di eventi catastrofici, rei di aver distrutto il loro pianeta e soprattutto di averli privati della loro unica forma di sostentamento nutritivo.

Il nutrimento perduto, diviene la parabola perfetta per la descrizione della creazione umana, considerata non un dono ma una maledizione.

Scendendo in un piano materiale che vibra con energie inferiori, l’unica reazione plausibile e condivisibile è quella di un retaggio mnemonico di perdita, trasmesso forse dalla memoria collettiva e che causa e procura odio e un senso di umiliazione costante.

Questo perché non si annulla la percezione di antichi fasti, non si annulla la sensazione scomoda eppure viva di aver smarrito un qualcosa di importante e vitale per il proprio benessere.

E tale frustrazione la si riversa sul mondo materiale, la prigione per antonomasia perché imperfetto e cruento, poco attinente ai ricordi di grandezza di un tempo.

In questo piano malsano (la terra) essi si comportano come imitatori dei più arroganti arconti.

Distruggono, disprezzano, odiano rendendo cosi i loro corpi e i loro cuori talmente aridi da non permettergli più di procreare.

E non è un caso che procreare significhi etimologicamente dare alla luce, ossia tornare alla luce e ritrovare la via perduta.

Tutto il testo è un inno alla gnosi, l’unico vero puro amore liberato da ogni egoismo e da ogni finalità cosciente che diviene unica strada per tornare a nutrirsi di polvere di stelle, la sostanza fatta di purezza, di energie positive, di felici ricordi, di immagini di incantate valli, ossia semplicemente quell’amore venato di compassione e empatia.

Ecco che Lilith e Keith, ma anche Luke e Carla troveranno nelle vicenda e volte oscure, come oscura è ogni caduta, la strada per tornare ad appartenere a un universo fatto di pura beatitudine, quello senza l’ansia dell’arrivismo, o di successo ma fatto di puro piacere intellettuale.

Un universo improntato su gesti, scelte, azioni, compiute solo per nostro piacere, solo per rispetto ai nostri talenti e non per rispondere alle aspettative, spesso malsane, di qualcuno e di un intera compagine sociale.

Ecco che l’antica filosofia accantonata e resa “ridicola” da troppe dotte spiegazioni capaci solo di isolarla dalla realtà concreta e pratica, torna a brillare nel testo e nei significati  di questa giovane e meravigliosa ragazza.

E cosi oltre a divertire, emozionare, scioccare e appassionare, forse è in grado anche si risvegliare quella sopita ma mai del tutto distrutta fame di stelle, concetto primario e essenza di tutta la forza magica e retentiva degli scritti gnostici.

E sopratutto per questa sua maturità filosofica che il libro merita da parte mia una menzione d’onore e un infinito grazie per aver dato alla luce ciò che mancava a questo mondo distratto: la consapevolezza di non appartenere al mondo che ci raccontano come reale ma a una dimensione più alta e splendente, che ci aspetta ansiosa di stringerci in un abbraccio.

Chapeu Lavinia.

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