Venite pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi sopporto, infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perché con questa penna vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza; godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura.
Guccini
Sapevo che lo avrei fatto.
Sapevo che la mia voce interiore non sarebbe stata zitta non tanto di fronte alla nuova esilarante polemica in corso, ma al principio che, nel suo interno, viene sostenuto da tanti, da troppi.
È quello che in fondo mi interessa.
Vedete ogni posizione che prendete, parla molto di voi non solo dell’idea politicamente corretta, ma dei famosi residui paretiani, ossia le motivazioni illogiche alla base di azioni apparentemente logiche.
Ecco che la situazione da una visuale superficiale è questa.
Qualcuno attacca un sistema e le parti del sistema reagiscono, invocando come scudo alibi e slogan triti e ritriti.
E già così analizzata la situazione dovrebbe far riflettere molti: perché mi sento indignato quando qualcuno, in modo più o meno condivisibile, la porta in superficie?
La spiegazione che ho ricevuto è stata il modo o la forma con cui la critica è stata fatta. E io ho ribadito, quindi se vi avessero dato delle superficiali o peggio delle attentatrici del senso stesso del libro in modo, sarebbe stato più accettabile?
Se invece dell’ironia pungente o sarcastica, avessero analizzato cosa in quel sistema che sostenete non va, vi sareste indignate di meno?
Se mi dicono stronza in modo dialettale o per vie traverse, sempre stronza mi hanno dato. E io come ogni soggetto senziente mi faccio la seguente domanda: perché mi definisci stronza?
Ma non tergiversiamo.
Allora, visto che il problema è stato il tono eccessivamente polemico dell’invettiva, proviamo a vedere se il grattacapo è il modo o la forma, o la sostanza che ne viene fuori. E per farlo nel mio modo pseudo- saggistico individuo subito il soggetto (badate bene ho parlato di soggetto e non oggetto) del disquisire: il libro.
E di conseguenza al libro viene fuori un intero mondo, editoria, blogger, letteratura e soprattutto (ed è quello che più mi interessa) ethos societario.
Cos’è questo ethos?
Lo spirito dei tempi usato, come mezzo di spiegazione da tantissimi filosofi. Ogni epoca ha il suo spirito e questo permea di arcani significati tutto il nostro agire. In pratica l’ethos non è altro che il residuo logico paretiano .
Ma evitiamo il mio amato filosofeggiare.
Il libro in questione come scrive la meravigliosa Viviana Viviani, smette di essere soggetto per divenire oggetto. O come meglio spiega lei (che ha più talento della sottoscritta):
.. Il libro sta diventando un oggetto estetico, venduto per ragioni che hanno sempre meno a che fare con la scrittura: la bellezza della copertina, la fama, magari dovuta ad altro, di chi l’ha scritto o di chi lo promuove, la fascinazione che si è riusciti a creare intorno all’autore. Ho visto in pochi anni siti di recensioni trasformarsi, iniziare ad avere come sponsor cosmetici, mobili, alimentari, vestiti. Sui social compaiono foto di libri ovunque, non solo vicino alla tazza di caffè, ma in equilibrio su una mensola, di fianco a una bella lampada di modernariato, d’estate appoggiati all’ombrellone o sulla sdraio, d’inverno con il berretto in testa. Manca solo mettergli il cappottino, come al cane. Il libro come feticcio, gadget, arredo. Ma li leggiamo davvero, tutti questi libri in passerella, tirati a lucido con un perfetto make up? Se il libro potesse parlare, credo oggi griderebbe proprio i più famosi slogan del femminismo storico: non sono un oggetto, ho qualcosa da dire, sono mio! Non le voglio queste tovagliette, non mettermi il rossetto, sono allergico ai fiori. E a meno che tu non voglia davvero leggermi, lasciami un po’ da solo. Perché ammettiamolo, c’è una leziosità in quelle foto, una grazia artificiale che mal si sposa con la sofferenza che la vera letteratura porta con sé.
Viviana Viviani
Un pezzo un po’ lunghetto mi direte voi, ma che non potevo citare, come si dice a Roma, a spizzichi e bocconi.
Casomai se siete troppo pigri per leggerlo ve lo spiego io con il mio becero modo schietto e devastante: il libro non è più un qualcosa di vivo che apre le porte di altre dimensioni, tra cui inconscio, immaginario (un po’ il paese della nostra balda Alice) o dell’onirico. Diviene mezzo, anzi catena per aderire ancor più saldamente alla terra.
Attenzione.
Io sono una persona profondamente realista.
Amo la realtà in tutte le sue sfumature altrimenti non ambirei a divenire saggista. Ma c’è un grosso ma. Io AMO la realtà perché essa è in grado di spiegarmi, o almeno ci prova, il più grande mistero umano, ossia la mente. La mente produce continuamente attraverso la percezione e quindi la comunicazione tutto ciò che ci circonda. È grazie a Ames e Bateson, che questa arcana verità ha preso piede: tutto ciò che produciamo nasce dalla mente e nella mente si ritrova un po’ tutto, dalla logica all’illogica, dai sogni agli oggetti, dai pensieri ai più oscuri e remoti impulsi. E la mente cosi considerata è tutto ciò che fa muove e quindi vivere l’uomo. Non è più il cuore a pompare vita ma la testa. Da questo primo dato si può quindi comprendere che tutto ciò che ci collega al reale e quindi anche la parola è frutto di un processo straordinario che parte proprio da lì, dal vostro testone. E cosi è il libro. Considerare, quindi il libro un mero fatto estetico ne distrugge l’identità, senza però che questa sia sostituita da qualcos’altro.
Mi spiego.
Nel momento in cui volete rendere il libro fatto estetico, dovreste anche completare questa “rivoluzione” (o “involuzione”): cosa vi porta essere profondamente esteti?
Che cosa rende importante e quasi vitale trasformare un qualcosa di così immaginario in un mero fatto di vista?
E qua casca l’asino.
Anzi casca proprio tutta la fattoria.
Anche l’estetica nasce da bisogni incontrollabili ossia bearsi di bellezza. Sì ho fatto la rima.
L’estetica è il tentativo supremo di scoprire in modo molto prometeico il senso e il segreto del fuoco: la percezione del divino, del cosmo, dell’armonia, della matematica, dei numeri, insomma di tutto ciò che regge in un perfetto mosaico cielo e terra.
Però non credo che sia questo il vostro tentativo. Perché, udite udite, il libro grazie alla musicalità matematica della parola, già lo fa.
Allora che rivoluzione è mai creare qualcosa di già esistente?
Quindi non è una ricerca filosofica sull’estetica. Perché accanto a oggetto estetico si accompagna il venduto. E allora tutto precipita dalle alte zone della filosofia e della filologia per divenire puramente marketing. Che usa sì i mezzi a sua disposizione come il virtuale, ma per vendere. E chi vende presenta un prodotto che richiama, un po’ come fanno i fischietti dei cacciatori, la preda che si vuole ingabbiare.
Su marketing e pubblicità si è scritto a iosa.
Ma io che, ahimè, ho tentato di lavorarci vi dico che, a volte essa si collega con una sottile manipolazione. Vi incantate sui colori del detersivo, sui volti noti che lo sponsorizzano e mentre lo usate vi riempite di bolle. Perché magari contiene allergeni. Sì lo so non si dovrebbe fare, ma questa è storia vissuta.
Se il libro diviene solo un qualcosa di commerciale, qualcosa che va venduto, non necessariamente si sposa con l’amore per il contenuto. Nel senso che imbelletti il pacchetto, lo compri, ma a volte lo mostri fiera e orgogliosa come un feticcio. Magari non ti serve neanche. Magari non ami neanche leggere. Ma lo prendi perché fa fashion, fa moda, fa glamour e perché postando foto hai mille e passa followers. E ti senti importante. Uno perché sei sempre un venditore, due lo sei perché apparentemente ti occupi di cultura. Cioè vendo e propongo un libro mica calzini o detersivi.
Il problema è che un libro non è un qualcosa di utilità primaria o serve per soddisfare un bisogno primario. Non è detto che un libro necessariamente possa servire a tutti. La cultura è qualcosa di così vasto che non sempre si collega con la lettura di un libro. Attenzione libro. Non giornale, non pamphlet, non enigmistica. Libro.
Che tutti noi dobbiamo avere la possibilità di saper leggere è un diritto primario. Che questa sia collegata con il libro è una scelta. Neanche un diritto.
E quando la Viviani parla di leziosità e di grazia superficiale, parla proprio di una mancata comprensione dell’anima del libro. Un libro vive. Non comunica solo emozioni, parla proprio.
Per chi legge i personaggi di carta sono reali vivi quanto noi.
E soprattutto il libro serve a chi tenta di rispondere all’annosa domanda cos’è l’uomo, attraverso la visione di qualcun altro, in un’altra epoca, in un altro contesto sociale, in un altro paese. E la visione che l’autore dà di me come archetipo uomo che spiega la fascinazione del libro.
Ma non è un obbligo. Non dobbiamo tutti leggere nonostante leggere sia consigliato a tutti. Leggere è un’attitudine mentale, cosi come è l’arte.
E qua torniamo alla concezione di molti del testo. E inizieranno sicuramente i problemi.
Che facciamo, andiamo a osservare più da vicino le reazioni a questo svelamento del mistero lettura?
Siete sicuri?
Bene, procediamo.
Premesso che nonostante io non sia una fautrice del libero pensiero, convinta come sono che esso debba essere disciplinato, non lasciato scorrere a pene di segugio, capisco anche che, essendo in democrazia, ognuno ha l’opportunità di dire la sua. Tralasciando la questione che non si sa neanche cosa sia la democrazia, accettiamo questa superficiale pretesa.
Non ci interessa, dunque, che il sistema piaccia.
Può piacere.
Magari essere più onesti e non trovare chissà quali scuse filosofico morali e ammettere che, a noi, quel sistema porta benefici e non vogliamo rinunciarci. A tizia porta visibilità e possibilità di pavoneggiarsi, all’altra la possibilità di dare sfogo al suo “esibizionismo”, a Caio la possibilità di vendere appoggiandosi alle influencer. Digressione.
Influenzare qualcuno significa possedere o ottenere la possibilità di intervenire nella determinazione o nella modificazione di un fatto. Talvolta, nel caso umano, in rapporto con una posizione di autorità o prestigio. In sostanza si pensa che X possa cambiare l’idea di Y anche con l’uso della manipolazione (Operazione di condizionamento o controllo oppure di modificazione o alterazione) .
Quindi qualcuno riesce a far acquistare il libro grazie a vari mezzi. Attenzione, comprare non leggere. Perché per vendere basta il marketing, per far interessare serve la cultura.
E quindi poiché il libro è stato per troppo tempo oggetto di cultura distante dalla “massa”, quasi racchiuso in una teca, piace (bella scusa ragazzi) che esso scenda perché in quell’isolamento culturale l’uomo è stato troppo solo. Solo. Il problema è che la lettura stessa, cosi come la scrittura, è un mero fatto personale che vive e si alimenta in solitudine. Quando si scrive, o si legge ci si rifugia o si entra in una dimensione di pura estasi, in un mondo incantato dove vivono le TUE idee, i TUOI ricordi, le TUE esperienze e la TUA PERSONALE capacità di interpretarle. Eh si caro mio lettore, la lettura, così come l’arte, è un fatto privato, quindi solitario. Se poi uno legge un libro con diciotto persone è perché soffre di personalità multipla. Anche se io leggo in un treno affollato, o in un mercato, mi ritaglio un angolino tutto per me agli angoli dell’esistenza, cosi come direbbe la bravissima Simona Accarpio. Quindi lettura e arte nascono in solitudine e poi si espandono nella moltitudine. Bellissimo. Meraviglioso.
Allora cos’è questa acrimonia sulla solitudine? Paura? Rifiuto?
O c’è altro?
Sì c’è altro. La solitudine che accompagna il libro viene rifiutata quando esso non è oggetto di discussione, non è tra le mani di qualcuno, non è venduto insomma. Che poi io con il libro tenti di piantare chiodi nel muro poco importa. In fondo contenti voi no?
Però così facendo offendete due cose: il vostro presunto talento e la vostra dignità di scrittore/lettore. Nel senso che se i primi a non crederci siete voi e vi accontentate delle briciole, pensate gli altri. Se per uno scrittore è importante vendere a prescindere che ci siamo lettori o per il lettore è importante accumulare libri per darsi un tono, in fondo prendete in giro voi stessi e l’hobby o il talento che pensate di possedere. Perché anche leggere, fidatevi, è un talento. Il talento di bussare alla porta del libro, viaggiare tra le sue pagine e scoprirvi i segreti e persino i significati nascosti. O che non sapevano di essere stati infilati a forza dalla fantasia del baldo signor X.
E aggiungo altro. Il libro non può essere fatto democratico, perché appartenendo al lato più segreto del nostro io, è una specie di iniziazione. Il libro lo devi cercare. Devi volerlo, devi pregare come Bastian, che da bianco divenga pieno di scritte. Devi essere un moderno cavaliere armato della tua spada e giungere sulle rive del castello del Re pescatore e riceverei il premio per aver superato mille strade impervie, aver affrontato mostri e draghi e salvato la principessa anima dalla tentazione. Altrimenti non è un libro.
Il problema, quindi, è che se uno sdogana la tendenza a coronare di orpelli il libro non lo rende protagonista. Lo rende schiavo di una sua intenzione. Se uno legittima la propensione al libro a essere un mero elemento decorativo (siete autori editor, editori o arredatori di interni? Mah) sta dicendo proprio l’opposto: non me ve ne frega un cazzo del libro, io voglio una bella immaginetta priva di contenuto.
Oh ripeto, contenti voi.
E non è affatto un buon inizio. È proprio la fine.
Chiusi i giochi, addio sogni e benvenuto sistema che, con il tuo ghigno dici fessi a tutti noi che tentano di configurare apparenza e sostanza, forma e contenuto.
Avete perso.
La foto non è più la foto che sveglia le coscienze così come era quella di Rose Parks o del muro di Berlino che cadeva a pezzi, o di Armstrong sulla luna. È un coreografico cacofonico brulicare di brillantini e di lustrini, un lezioso insieme di elementi soltanto e sottolineo soltanto, visivi.
Il messaggio qual è?
Perdonatemi eh, ma arriva solo “carino”.
E poi vi incazzate pure se qualcuno ve lo fa notare.
E il vostro lavoro è rendere carino un libro o parlarne?
E se ne volete parlare con le foto, perché attenersi a regole dettate da chissà chi?
In realtà voi accettate il sistema dove l’abito fa il monaco, dove la perfezione fa da padrona, dove il difetto del corpo è un’onta, dove la chirurgia estetica tende a renderci tutti uguali. E l’imperfezione che rendeva perfetto il tutto viene totalmente rifiutata. Non vi dirò che questa tendenza non è pericolosa; ma a rinnegare il fango in favore dei diamanti si rischia di creare un mondo omologato, un mondo stantio un universo che rischia il collasso. E il libro, in genere, a casa mia, nel mio mondo fatato, si è da sempre ribellato a tutto ciò
Noi stessi quando leggiamo non siamo così. Non abbiamo il tavolino perfetto, il tovagliolo in tinta, i fiorellini freschi, i capelli impeccabili e i braccialetti perfetti. Anzi, è più facile che diventiamo un po’ animali, nel senso buono. Un libro appassionante è un’esperienza totale, può richiedere un certo abbrutimento. Non è roba per signorine, di entrambi i sessi, sia chiaro. Di solito si legge stravaccati, i vestiti non devono stringere, meglio una tuta o un pigiama. Il trucco dà fastidio, gli occhi si arrossano, bisogna poter piangere. E poi Bukowski con la tovaglietta colorata ci si pulisce il culo. Houellebecq non si può leggere con i fiori sul tavolo, a meno che non siano rigorosamente appassiti. Se leggi Henry Miller o Anaïs Nin, ai capelli non ci pensi, la doccia la fai dopo, anche perché durante la lettura tutto può succedere.
E cosi adeguarsi per sopravvivere significa barattare quella forza indomita che aiutò Rosa Park a sedersi sul pullman per il quieto vivere. Se la signora Rosa avesse ragionato come voi, si sarebbe accontentata della sua vita, e non si sarebbe seduta sul davanti dell’autobus.
Se Palach avesse deciso che, per sopravvivere doveva adeguarsi la sistema e magari attendere un cambiamento che da chissà quale cielo sarebbe precipitato a terra, non avrebbe lottato per la libertà. Se Galileo non avesse sognato e rifiutato il quieto vivere, non avrebbe contestato la chiesa.
E voi mi direte, quelli sono casi eccezionali.
La storia è piena di gesti simili. Il problema è che voi siete oramai così assuefatti alla dittatura invisibile, che non siete più capaci di agire. Siete oramai anestetizzati dall’idea che siete, in fondo uomini qualunque. E infatti è così che apparite. Così che volete apparire.
Perché a voi non interessa che il libro si legga, ma che se ne parli. Non vi interessa che il libro sia raccontato, vi interessa vendere, essere lodati, ammirati, resi importanti, di successo, vi interessa influenzare, appoggiare, non comprendere o condividere.
Vi interessano ragioni diverse e interessanti da un punto di vista sociologico (nel senso che potrei grazie a voi sviluppare almeno 5 saggi sulla società decadente o sulla crisi della rappresentanza che Mongardini spicciami casa) ma che:
l’alternativa, in teoria più vicina ai lettori, degli influencer rischia di arrivare a vendere più libri, forse, ma per ragioni altrettanto sbagliate. Ragioni tra cui la scrittura è sempre all’ultimo posto.
E cosi quando dietro la lode al mio misero lavoro, mi viene consigliato di cedere al sistema, inserendo accanto a recensioni che dovrebbero, in teoria bastarvi, quando vedo che mi abbandonano coloro che ritenevo guerrieri, perché il cammino intrapreso è impervio e difficile, non mi cascano le ovaie. Mi rendo conto semplicemente che eravate delle illusioni: non condividevate un sogno. Semplicemente guardavate il mio dito mentre indicavo la luna.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L’arrivismo?
All’amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco, io non
perdono, non perdono e tocco!
Guccini
Ultimo dato.
Per favore, in nome di Simone e Betty, non confondete e non usate il femminismo per giustificare le vostre ambizioni.
Simone e le suffragette non hanno lottato perché noi postassimo foto di centrini. Ma per il diritto di voto, di ereditare, di indossare i pantaloni, di divorziare, di studiare e di entrare in politica. Non c’entra nulla il sessismo con la vostra accettazione del sistema. Anzi. E proprio il vostro raccontarvi attraverso l’estetica che dà un calcio in culo al femminismo.
Se volete essere femministe fate come me, date un’alternativa all’idea che a noi piacciono solo i centrini e il tè. Bevete birra, fumate sigari, vestire hippy, evitate che so di farvi vedere perfette e siete un po’ Patty Smith. Scrivete poesie incazzate come Alda Merini, studiate astrofisica come Margherita Hack. E impegnatevi in politica come Nilde Iotti.
Insomma, fate la differenza.
Il femminismo è una cosa seria.
Mi sono commossa
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