E’ bizzarro come certi libri arrivino al momento giusto, proprio quando mi frullano nella mente pensieri specifici.
Ultimamente, in occasione di vari articoli che hanno evidenziato una patologica tendenza societaria, ho iniziato a riflettere sull’iper-tecnolocizzazione del nostro vivere quotidiano.
E non posso non collegarmi alle funeste previsioni del grande Baudrillard, quando in un libro da me amato, leggevo questa profezia auto avveratasi: la televisione ha ucciso la realtà.
E in fondo non è quello che accade oggi?
Il virtuale, lo smartphone, il tablet, i PC sempre più minimal, invadono il nostro mondo sostituendosi all’esperienza diretta.
Non più tattile, non più visiva ma soltanto percettiva.
E noi produciamo continuamente la rappresentazione di una rappresentazione, di un reale che è sempre più irreale, che esiste soltanto nel momento in cui la figura diventa padrona e protagonista.
Ogni esperienza diventa, quindi, immagine.
Persino la lettura, ed è questo il dramma che mi inquieta, diviene soltanto feticcio, mostrato con orgoglio, adornato di orpelli che hanno lo scopo di rappresentarlo e che, ironia della sorte lo annientano.
Se un tempo la foto e la visione dell’oggetto rappresentato veicolavano un messaggio o intendevano creare un effetto dirompente su alcuni valori della società, oggi la foto è anti-messaggio.
Sostituisce cioè la fatica di pensare e diviene essa stessa protagonista.
Non è, dunque, il significato alla base, ma l’immagine che quindi può essere priva di significante.
Come ben sappiamo dagli studi di A Adalbert J. Ames e di Bateson la realtà stessa, ciò che noi vediamo e consideriamo vero, distinto dal mondo fantasioso dell’immaginario, è un prodotto personale del nostro cervello. Tutto diviene quindi relativo e pregno di elementi che appartengono alla semiotica o per dirla alla Pareto, all’universo dei residui illogici.
Ogni nostra visione è dunque costruzione mentale seguita da un atto inconsapevole di arricchimento di idee, valori, ossessioni, paure e sogni.
Nonostante l’esistenza di codici comuni (ci sono elementi che diamo per veri grazie a una voce esterna come l’Autorità sociale) ogni visione è parziale, determinata e ricca di interiorità.
E per questo l’esperienza diretta è cosi ricca e cosi pregna di elementi comunicativi, perché nasce da una costante interazione noi e l’altro, noi e il mondo, persino noi e dio. L’immagine stessa rappresentata dalla foto è fonte di introspezione, di conoscenza e di scoperta dei particolari se.
Cosa accade se, invece dell’esperienza diretta sostituiamo l’esperienza virtuale?
La foto di un libro posta a servizio dell’altro, costruisce una realtà alternativa, costruisce l’interpretazione su un interpretazione di qualcun altro, soltanto che, questo altro diventa indistinto e invisibile.
Ecco perché nelle voci dell’autorità questo sistema paragonato a un grande fratello orwelliano, diviene evanescente, lontano ma profondamente autocratico; donandoci solo il godimento di un risultato, foto, internet, tablet si sostituiscono al nostro personale pensare, a un attività in cui entra il libero arbitrio.
Oggi siamo tutti influenzati da qualcuno o qualcosa.
L’influencer voce di un autorità esterna resa più perniciosa dalla sua invisibilità e dall’incapacità di determinare la fonte, ci manipola decidendo per noi cosa leggere, cosa comprare, cosa indossare, cosa vedere e persino come pensare.
E questo rende ferrei certi concetti dati per buono, che in un felice tempo passato potevano contraddire.
Ma in questo circuito in cui tutto è possibile in cui tutto è raggiungibile, siamo prigionieri.
Prigionieri felici e assuefatto, addormentati e narcotizzati dal costante bombardamento di immagini.
E’ l’autorità scelta non per bisogno, non per necessità, non per convenienza, ma solo per un piacere effimero, per un godimento immediato di una sosta di estasi di plastica.
Emozioni, sentimenti, sesso, rabbia, ogni turbamento sano diviene fattore di show business, con il risultato di distruggere le emozioni e renderle soltanto fruizione omologata e stantia di prodotti.
L’amore è un prodotto.
La rabbia è un prodotto da vendere.
Persino il sesso e gli ideali sono commercializzati.
E cosi l’arte, cosi la religione, cosi ogni valore umano.
Ecco che l’autorità diviene una sorta di divinità lontana, distaccata dal mondo, decisa a comandarci come burattini senza un vero motivo, se non una reiterazione stantia di un sistema che, ci serviva, ma che abbiamo fatto diventare un eggrergora.
In pratica ciò che era necessario e subordinato all’uomo, diviene vivo e deciso a vendicarsi subordinando l’uomo.
Concetti difficili?
Diciamo che il sistema politico sociale ci serviva per vivere, come direbbe Hobbes una vita serena, tranquilla non minacciata dall’homo lupus.
Era e lo sapevamo, un artificio nato per un esigenza quella di vivere di godere dei propri talenti e di aver soddisfatti bisogni primari e secondari. L’autorità era si necessaria, ma con la possibilità della sua deposizione qualora per un egoico sogno avesse distrutto il patto per cui essa era stata creata.
Oggi, con l’avvento della tecnocrazia e dell’iter-tecnolocizzazione, l’autorità si è staccata dal consenso popolare, ha ucciso il senso della rappresentanza, ha deposto il cittadino portatore della sovranità ed è diventa un dominatore assoluto.
Decide per noi, ci muove con i suoi intricati fili e assorbe per nutrirsi delle nostre primigenie energie.
Ma sopratutto, si nutre di libertà.
L’autorità è un eggregora che necessita della nostra anima per crescere e prosperare.
Ecco che si insinua nella nostra testa, cosi come fa con Mirko Pagnotta, impadronendosi del libero arbitrio della creatività che viene essa al suo servizio.
Perché allora diventa cosi accentratrice e sopratutto perché agire proprio sul pensiero, sull’azione e sulla cultura?
E qua entra il concetto portante del libro di Purita: il concetto di polis. Polis anticamente era tutto ciò che, muovendosi l’uomo produceva.
Polis non era solo l’agorà regno del dibattito politico.
Polis era la cultura, la comunità, la società, il pensiero, gli ideali, i valori i limiti, i tabù e i sogni.
Da questo antico concetto si evidenzia come polis o politico è tutto ciò che caratterizza l’umo.
Politici sono i gesti, politici sono i sorrisi, politica è la comunicazione politici sono i libri.
Perché agiscono su questo organismo che i greci tanto amavano.
Ogni nostra microscopica azione, anche la più banale, incide sulla polis totale, la nostra porzione di libertà manifestata in ogni passo agisce sull’intero corpo sociale persino sul tipo di regime che ci comanda.
E se noi ci poniamo come zombie o cyborg programmati da questa aliena autorità, diamo vita al sistema che ci comanda.
La società iper-tecnologica è creata quindi da un autorità che noi abbiamo scelto di rendere reale, viva e carnale.
Il libro di Purita racconta in modo onirico, come è gusto si racconti il mondo e la realtà e la nostra dimensione umana vittima e carnefice, di questo orrenda distorsione, di questo patto faustiano di uomini che non sono riusciti a reggere il peso del libero arbitrio.
E che hanno reso ogni azione, persino quella che nei tempi passati era di distruzione del vecchio ordine, soltanto un modo per accrescere un autorità che continua a parlare alla testa dei tenti assuefatti, dei tanti prigionieri, dei tanti liberticidi.
Di tutto coloro che sono costretti a rigurgitare nel flusso virtuale la loro essenza più pura.
Persino il dolore che, al contrario è la porta verso la libertà.
Siamo noi aver ucciso la realtà.
Siamo noi stessi a esserci imprigionati in un gabbia dorata.
Siamo noi a aver ucciso signora libertà.
Perché se è vero ciò che asseriva Giorgio Gaber libertà è partecipazione, delegando il nostro consenso a qualcun altro, a entità invisibili e irreali, abbiamo rinunciato davvero la nostro diritto e dovere più grande.
La libertà è responsabilità verso se stessi.
Marco Purita