«La gente non sa più quando stiamo andando su questa terra! La gente non sa più quando stiamo facendo su questa terra! Ti chiedi “quasi quasi…”, e miagoli nel buio. Ma la risposta non è da cercare fuori: la risposta è dentro di te! E però è sbagliata…»
Quelo
La mia convinzione, supportata dal mio amore imperituro per Jean Baudrillard filosofo disincantato e dalla penna feroce, era verso la totale sparizione della realtà e quindi dei fatti.
Era il tormentone che assillava TUTTI noi pseudo-intellettualisti e non, che teorizzava scenari più o meno funesti.
Il santone, in particolare, era la rappresentazione grottesca del disagio che si iniziava ad avvertire in quegli anni, che sempre di più si avviavano verso una post modernità sempre più post e sempre meno moderna.
Dove stiamo andando?
Questo tormentone invase tutta l’esistenza di noi, povere vittime del carisma di Paolo Guzzanti. Era il 1997 e sulla Tv di stato veniva trasmesso il Pippo Chennedyy show, ricco di personaggi a dir poco esileranti, furtto dei drammi della trasformazione della nostra società.
Per comprendere quindi dove siamo arrivati e dove andremo, per dirla alla Qeulo, non si può non provare a raccontare questo mutevole e sfuggente spirito, in particolare in quegli anni di transizione scaturiti dal dramma del conflitto occidente e oriente culminato nell’orrore del 11 settembre.
Da li lo spirito del tempo si è quasi incrinato prendendo vie sdrucciolevoli e impervie, cercando di ristabilire un ordine mentale compromesso dalla scoperta che, il nuovo che avanzava, era la prospettiva dello scontro di civiltà, non bilanciato dall’intervento di un organizzazione sovranazionale che era stata sconfitta nel 1991 in seguito alla sua incapacità di gestire la crisi della ex Jugolasvia.
Da li abbiamo iniziato a sentirci meno vicini, meno cittadini del mondo, e sempre più anonimi in una società che seppelliva il valore della cittadinanza sotto la lapide della rivalutazione romantica dell’identità.
Gli anni dieci, quindi, sono stati anni decisivi per raccontare il nuovo corso della nostra seduta umanità e dare avvio a quello che oggi nel 2002 si sta concretizzando, ossia la ricerca ossessiva e obnubilante del piacere edonistico.
I germi di questo diverso spirito del tempo sono da ricercarsi quindi nel nostro passato più recente.
Ecco perché trovo interessantissimo il libro di Paolo Bardelli che sicuramente non vuole essere un manuale di sociologia ma una raccolta significativa di fatti su cui, poi ( o almeno lo spero) impiantare una riflessione proficua.
Canzoni, accadimenti più o meno distruttivi, idee antiche con una nuova veste, tecnologie avanzate e un passato che viene accantonato in funzione di qualcosa di fresco e innovativo e che invece, a noi vecchi nostalgici sembra soltanto un maggiordomo che ha semplicemente cambiato livrea ma che serve gli stessi padroni.
Eppure rimembrando alcuni degli eventi di questi piccoli ma pesanti anni dieci stimola la mia di riflessione.
Vedo occasioni mancate accanto a un nuovo modo di intendere musica, più libero e più vicino alle esigenze primarie dell’uomo quelle delle emozioni semplici che non sono però scevre da una rinnovata voglia di critica sociale.
Ecco che leggere le descrizioni dei miglior album degli anni dieci da una visione meno snobbistica della voce libertaria migliore che abbiamo l’arte.
Ecco che le note scorrono impazzite cercando di produrre suoni capaci di risvegliare coscienza, di far sgorgare emozioni troppo trattenute e di combattere con un sistema che vorrebbe anche la musica soltanto un contenitore capace di racchiudere il nulla.
La musica si sdogana dal business anche per la sua innovazione di essere ascoltata da tutti anche da chi non avrebbe mai deciso di comprare quel CD.
Eppure, anche in questa democratica conquista si insinua il seme del dubbio: grazie alla possibilità di avere tutto, stiamo forse perdendo la libertà di scelta?
L’autore lancia la provocazione e lascia a te lettore la totale libertà di pensare, e di trovare dentro te stesso la risposta.
Cosi come fa elencando i fatti più eclatanti del nostro tempo, quelli che ci hanno ferito, fatto sorridere, fatto sperare e fatto innamorare di nuovo della vita.
A dimostrazione che, se l’apparenza sogna di regnare sovrana e renderci tutti zombie, la creatività umana è la nostra unica e sola arma di difesa.