“Il maestro dei morti” di Yannick Roch, Les Flaneurs edizioni. A cura di Alessandra Micheli

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Eccomi di nuovi in difficoltà di fronte a un libro che ho stentato a lasciar andare.

Non volevo proprio finirlo, in barba a ogni scadenza.

Perché ora con la parola fine, mi sento orrendamente sola.

Ero cosi abituata a i due investigatori, Tortue e Renard cosi simili ai miei miti della giovinezza, perfetti mix tra un Poirot e il suo fido Hastings, un Holmes con il suo amico Watson, un Maigret con un tocco di Miss Marple.

Eppure al tempo stesso cosi moderni, decisi nonostante le regole a arrivare alla verità.

Costi quel che costi.

E seppur io cosi ligia al dovere, alla regole della giustizia abbia quasi sussultato sul mio divano (disturbando il mio gatto) non ho potuto non sentire un tuffo al cuore e l’anima ingigantirsi di fronte a una certa spregiudicatezza nell’agire.

Perché a volte la giustizia cosi come la concepiamo noi, ci limita.

E la verità spesso si nasconde proprio fori dei confini ristretti e langue in solitudine per la nostra non volontà di abbracciarla, tirarla fori e curare le sue mille lacerazioni.

Allora mi chiedo se non abbia ragione il mio adorato Renard, se l’investigatore o chi risolve intricati rompicapi non debba essere un po’ sopra le righe.

In fondo non sono tutti cosi i veri, straordinari detective?

Pensiamo a Sherlock, pensiamo all’eroe di Isabel Oostander, l’ispettore cieco che pur di seguire la sua etica ha chiuso metaforicamente la sua coscienza di fronte a un male, che non era altro che riparazione dei torti. Ma c’è molto di più in questo libro.

Partiamo dalle atmosfere?

Leggete questo:

La pioggia era fitta in quel tardo pomeriggio del 22 settembre 1933. Un velo plumbeo copriva i cieli parigini; le strade erano quasi deserte. La sporcizia del palazzo si mischiava con l’acqua piovana, e sul vetro della finestra attraverso cui monsieur Tortue stava osservando la città si depositò presto uno strato grigiastro.

Solo grazie a questo incipit (cosi si dice non è vero? ) io ero trasportata nell’antro strano brumoso e conservatore di una Parigi alla soglia degli splendidi anni trenta.

Una Parigi che sembrava voler far dimenticare i suoi trascorsi ribelli riappropriandosi di una certa convenzionalità nei rapporti che sembravano presi a prestito dall’ancien regime.

E cosi la nobiltà e la borghesia indossarono maschere per essere accettati al gran ballo.

Maschere che alla fine aderivano cosi tanto alla pelle da rendere impossibile toglierle.

Maschere parte di noi che pur coprendo il volto non coprivano certo il cuore. Che ingabbiato in questa dorata prigionia si dibatteva come la farfalla della vispa Teresa stratta tram ani infantili e crudeli.

E cosi i personaggi non sono altro che volti evanescenti, ignari di se stessi, costretti a scendere sul palco e recitare per compiacere il burattinaio di turno.

Un afflato di libertà spento dall’oblio noioso della routine.

Una volontà di farsi strada in un mondo che si affacciava curioso e incosciente sul baratro, attratto dal tenebroso volto dell’abisso.

Un mondo che apparentemente era ricco di novità ma anche foriero di venti minacciosi.

Del resto nel 1933 le tensioni internazionali si riflettono sui volti dei vari protagonisti, incapaci di lasciare l’evoluzione percorrere le sue strade, decisi a far spazio al potere.

E in fondo è il potere il vero protagonista di questo splendido romanzo.

Quello negato alla femminilità resa quasi colpevole di portare avanti la bandiere del cambiamento impersonato dall’illuminismo.

Del resto non era una donna il simbolo della divinità che doveva far brillare la Francia come un fuoco immenso capace di bruciare ogni convenzione?

Ed è quel potere negato che fa scoppiare una bomba in città.

Un potere bramato a ogni costo, anche se il baratto per ottenerlo presuppone un pagamento immondo: la propria coscienza.

E forse è l’incapacità di un maschile di guardare e accettare l’altra parte della luna, che porta a abbracciare una strana melodia oscura, impersonata dall’occulto.

Vedete, in Francia in ogni regione, l’occulto fin dagli anni di fine ottocento è stato il mezzo con cui la fantasia e le singole rivendicazioni hanno potuto raggrupparsi e cercare di far sentire la propria voce.

Un esempio lampante è l’intricata vicenda di Rennes le Chateau che nella misteriosa Parigi, nella strana chiesa di San Sulpice ebbe il suo battesimo.

Li, in quell’apparente ortodossia batteva un cuore nero, esoterico, nascosto che risuonava nella strana e intrigata leggenda di San Vincenzo de Paoli. Un uomo strano, forse con il potere di sconfiggere la morte e dominarla.

E cosi ci racconta la leggenda di un Cromlech dagli arcani poteri, proprio un probo abate, un Certo Henrì Boudet.

Ma questa è un altra storia.

E cosi l’occultismo diveniva non solo un mezzo per sentirsi superiori a ogni essere vivente, ma anche per poter impiegare al meglio i propri talenti.

Talenti negati da un mondo che stava per conoscere il peggiore dei mali, mali nati che per ironia della sorte, saranno partoriti da quelle stesse deliranti teorie.

La ricerca di una purezza e di una conoscenza perduta, si sposeranno con la banalità e con l’invidia e la frustrazione di un intero popolo.

E del resto sappiamo troppo bene come basti un nonnulla per far si che la discesa acquisisca sempre maggiore velocità, basta un’aspirazione frustrata, un amore rinnegato, e una capacità sommersa dalla noia.

Un matrimonio combinato che puzza di sete di denaro, una competizione per nulla corretta, un’incapacità di guardare davvero l’altro, fin dentro la sua anima.

E le donne, protagoniste di questo libro ci urlano la loro rabbia, la loro voglia di essere a prescindere dal loro genere sessuale, la rabbia per essere in fondo, semplici fantasmi, ornamento di una sobria casa abitata da gente perbene ma cieca e sorda:

Sono invisibile. Fantasma in questo castello dove nessuno ode le mie grida e dove le mie lacrime sono dello stesso colore dell’aria. Il re e i principini non mi vedono perché non capiscono chi io sia: credono di vedermi, credono di parlarmi, ma sbagliano tutti, facendosi ingannare dalle chimere che essi stessi hanno creato

E cosi l’inganno della società con le sue atroci contraddizioni interne, sboccia con il suo livore ma anche con un grido disperato: guardatemi.

Anche per per farlo devo servire la morte, se per essere vista devo diventare senza cuore, se devo abbracciare antichi e osceni rituali.

Se devo persino arrivare all’estremo atto, colpevole di portarmi alla pazzia o alla pena capitale.

Guardami, sussurra ogni donna descritta con maestria.

Guardami e non dimenticarmi.

Anche se l’ombra è il manto con cui nascondo il mio volto, anche se ho deciso di abbracciare l’inferno pur, di non essere eternamente invisibile.

Ancora una volta il male si nasconde nei salotti eleganti, nei probi cittadini. Nell’apparente serenità di una famiglia perfetta.

In un valore che si è svuotato di significato ed è solo l’orpello con cui accompagnare tè eleganti frequentati da invisibili personaggi.

 

4 pensieri su ““Il maestro dei morti” di Yannick Roch, Les Flaneurs edizioni. A cura di Alessandra Micheli

  1. Pingback: “Il Maestro dei morti” recensito dal blog “Les Fleurs du Mal”! – Inchiostronoir

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