Cari lettori, la storia che vi sto per raccontare potrebbe sembrarvi incredibile ma in tutta sincerità vi assicuro che quello che leggerete è QUASI tutto vero.
La vicenda ebbe inizio un tardo pomeriggio di fine dicembre di qualche anno fa mentre il tempo sopra Firenze aveva caricato il cielo di nuvoloni minacciosi.
Avevo un appuntamento con un avvocato a me sconosciuto ma che avrebbe dovuto aiutarmi in una richiesta da presentare al Giudice di Pace. Il luogo dell’incontro era stato fissato sul retro del Palagio di Parte Guelfa, in Via del Capaccio.

Già dai nomi di questi primi luoghi, i vostri ricordi scolastici voleranno al XIII secolo quando le famiglie fiorentine si affrontavano in armi in nome di due partiti, i Guelfi e i Ghibellini.
Il Palagio di Parte Guelfa era la sede del Partito che teneva per il Papa e la sua politica, in contrapposizione al Partito Ghibellino, (dal castello bavarese di Weiblingen appartenuto all’Imperatore del Sacro Roman Impero).
L’avvocato arrivò precisissimo alle diciotto e trenta sotto una pioggierellina che non prometteva nulla di buono. Era un ometto magro, leggermente gobbo, con un viso affilato e un naso quasi dantesco. Il mento a punta e due occhi nerissimi, acuti e inquietanti sotto una fronte regolare e capelli oramai brizzolati. Neanche il tempo di salutarci che dal cielo precipitò un diluvio di proporzioni gigantesche.
Sulla facciata del Palagio si trova l’entrata della biblioteca comunale e nella parte posteriore dell’edificio, dove appunto ci trovavamo, c’è un grande portone di legno, fortunatamente accostato. Ci precipitammo dentro il vano dell’ingresso per ripararci dal nubifragio. Nell’entrare di fretta, inciampai su un grosso anello di ferro che stava al centro di una spessa tavola appoggiata sul pavimento.
L’avvocato mi aiutò ad alzarmi e, assicuratosi che non mi fossi fatto male, se ne uscì con un misterioso sorrisino. Mi stupii del suo bizzarro comportamento e lo guardai incuriosito. Il suo braccio si stese indicandomi l’anello sul quale ero incespicato. Mi girai per osservarlo meglio e l’avvocato mi spiegò:
«Vede, caro signore, l’anello sul quale avete urtato il piede serve a sollevare una botola che permetteva ai capi del Partito Guelfo di raggiungere il Palazzo Comunale, nel quale la Signoria della Repubblica si sentiva sicura con i propri famigli e i propri armigeri.»
A quel punto, la curiosità di sbirciare dentro quel condotto fu più forte della volontà di recarmi dal Giudice di Pace che poteva ben aspettare un altro poco.
L’avvocato afferrò la maniglia e, senza sforzo, la sollevò scoprendo una scalinata che scendeva nel sottosuolo.
«Mi aspetti un attimo, torno subito» mi disse senza togliere dal viso quell’ironico sorrisino che aveva iniziato a darmi i nervi. Dopo qualche minuto, riapparve reggendo con una mano una torcia accesa. Grande fu la mia meraviglia e, al suo cenno di scendere nel sottosuolo, senza pensarci su lo seguii. Finiti i dieci scalini, mi apparve un lunghissimo corridoio, sgombro e dalle mura lisce, pulite, sulle quali ogni dieci metri era appesa una torcia accesa. L’emozione e la curiosità furono più grandi della sorpresa. Seguii come un automa l’avvocato che mi precedeva e che avanzava a passi svelti verso il fondo di quel cunicolo abbastanza alto da non dovermi abbassare.
Dopo una decina di minuti, il corridoio terminò e davanti a noi vedemmo una scala che saliva, analoga a quella che avevamo disceso.
L’avvocato mi fece cenno di tacere e, raggiunto l’ultimo scalino, alzò una botola tale e quale quella da cui eravamo discesi. Lo seguii aspettandomi di trovarmi all’interno di Palazzo Vecchio invece mi ritrovai a cielo aperto davanti a un’alta torre mai vista.

Un ampio spazio, dove pensavo ci fosse Piazza Signoria, era ricoperto di rovine. Le indicai al mio accompagnatore e lui mi spiegò velocemente:
«Non ci badate, è l’area dove una volta sorgevano le superbe torri delle famiglie degli Alberti e degli Uberti, accaniti ghibellini. Quest’area è stata dichiarata “maledetta”.»
Lo guardai ma questi non aggiunse altro e mi fece cenno di seguirlo. S’infilò in una baracca antistante la torre e ne uscì subito dopo con due larghe tuniche e dei copricapo di stoffa che mi invitò a indossare. Si paludò pure lui e, a quel punto, mi misi a ridere capendo che quell’ometto era un vero buontempone. Stetti al gioco e mi pavoneggiai un poco per vedere l’effetto che facevo.
L’avvocato si fece serio e mi ordinò:
«Andiamo, presto, prima che gli armigeri dei Foraboschi ci sorprendano qui fuori. Siamo proprio davanti alla loro torre. Seguitemi, andremo alla Torre della Castagna dove si riuniscono i Priori delle Arti e… non aprite bocca! C’è il rischio che veniamo presi per spie dei Magnati.»
Per la verità, non capii gran che di quello che mi aveva detto ma decisi di stare al suo gioco. Ero sicuro che mi sarei divertito.
Ci avviammo verso destra in quella che conoscevo come Via dei Magazzini, della quale non vedevo traccia, e ben presto giungemmo in Piazza San Martino. La Torre della Castagna la conoscevo bene perchè in zona c’è la sede della Pretura, tuttavia nessun edificio di quelli che ricordavo appariva ai miei occhi

A destra c’era la torre e il portone era socchiuso. Due personaggi armati di alabarda facevano buona guardia all’esterno e l’avvocato, giunto dinanzi a loro, sussurrò una parola d’ordine udendo la quale essi ci fecero entrare.
Mi trovai in una sala piena di gente ammantati alla moda del XIII secolo e pensai subito a una rappresentazione storica della quale non avevo mai sentito parlare prima.
Il consesso era presieduto da un uomo alto dal cipiglio autoritario.
«Ma il sindaco non c’è?» chiesi ignaro di quello che sarebbe successo.
«No, mi rispose a bassa voce l’avvocato, quello è il Podestà Monfiorito da Padova e fra poco l’assemblea prenderà una decisione storica. Ascolti!»
A quelle parole mi sorse qualche dubbio. Ma cosa sarebbe successo? E dov’ero capitato?
«Insomma, esclamò il podestà, nel Consiglio dei Cento siamo tutti d’accordo. Occorre costruire un nuovo Palazzo Comunale. Io mi occuperò della sua edificazione e penso che sia cosa buona darne la direzione al bravo architetto Arnolfo di Cambio che provvederà ai disegni e ai dettagli tecnici della fabbrica.»
Tutti i presenti annuirono soddisfatti. «Allora, concluse l’uomo, firmando con una lunga penna d’oca una pergamena che gli era stata posta davanti, «così è stato deciso oggi 30 del mese di dicembre Annum Domini 1298!»
Io non mi raccapezzavo: «Che data ha detto il podestà?» chiesi dubbioso.
L’ avvocato mi tirò per un braccio e mormorò:
«Basta, abbiamo sentito abbastanza. Usciamo di qui e torniamo nel XXI secolo!»
Uscimmo, tornando sui nostri passi. Ci infilammo nel tunnel e ne uscimmo poco dopo. La mia testa sembrava un frullatore.
Mi salutò senza darmi alcuna spiegazione di quello che ci era successo per cui, roso dai dubbi e dalle domande, dopo una settimana, gli telefonai per un nuovo appuntamento.
(continua alla prossima settimana)
L’autore del racconto ha pubblicato una “Trilogia delle streghe” e un romanzo dal titolo “Ramesse XI”.