
Durante tutta la mia vita, sono stata considerata una signora in nero. Perché era il colore che indossavo più spesso e che mi caratterizzava, agli occhi del mondo, come una emo, o peggio una dark.
E questo quando andava bene.
Perché nei casi peggiori ero satanista o depressa, o oscura.
Assurdo.
Io ho sempre ritenuto, complice la mie lettura sui miti celtici il nero un colore luminoso.
Eh si miei adorati lettori.
Il nero non è la totale assenza di colore ma una strrana capacità di assorbirli tutti.
E questo lo rende brillante, morbido, splendido come le ali di un corvo. Le stesse divinità “Nere” quelle madonne rinchiuse sotto le cripte delel chiese non erano affatto orribili.
Il loro volto maestoso aveva la compassione che per gli antichi drudi apparteneva alla figura femminile.
Morbida, materna e al tempo stesso guerriera.
Portatrice di vita e creatività, ma anche di vendette e di riparazione dei torti.
E cosi mi sentivo orgogliosa di tenere dentro di me ogni colore, ogni sfumatura e di sentire sulla pelle il colore di madre terra.
Al contrario il bianco mi ha sempre dato la sensazione di freddo e di stasi, in fondo respingeva ogni colore, ogni tocco per restare eternamente immutato e immutabile.
Forse è per questo che è stato definito il colore della purezza.
Del resto, si è puri quando non si è toccati ne dal mondo, ne dal male, qualcosa che si ferisce ma al tempo stesso dona il movimento necessario affinché la vita di compia.
Eppure il bianco, colore dell’assenza e dell’immobilità e della trasparenza piace tanto a molte ragazze.
Come se il nero che è simile al fango, rischi di sporcare quella decisione incomprensibile di respingere la vita.
E nel libro colori è il primo che ci viene presentato.
Non solo nelle pareti della struttura che disperatamente cerca di salvare giovani potenzialità per farle diventare donne, ma sopratutto nei pensieri di Ginevra.
Ginevra sta sparendo.
Lentamente e con decisione.
E con lei sparisce quel nero che è alla base di ogni esistenza.
Sparisce quella voglia di sporcarsi anche con il non bello, di godere di ogni sensazione tattile, del cibo, del vino e del piacere.
Ginevra non vuole tutto questo.
Cosi come lei tante, troppe donne che per raggiungere un ideale estetico cosi labile e fragile, dimenticano quelle Dee giunoniche che urlano tutto il godimento di questa esistenza terrena.
Come se fosse peccato, amare urlare per un orgasmo, o semplicemente toccare le forme cosi ricche del corpo femminile.
E cosi il peso diviene un ossessione ma anche, ed è brutale dirlo, un mezzo per corrompere la nostra vera natura divina.
Grasso non è più bello e florido.
E’ osceno, orribile, deleterio.
E cosi bisogna abbracciare uno stereotipo in cui manca la forza di ribellarsi e dire no. In ogni giovane che muore e si ammala di bulimia e anoressia, è un sacrificio dato in olocausto a una divinità perfida e orribile: la società.
L’apparenza fatta mantra.
L’assenza di colore che rende la donna algida, inavvicinabile, una fata da mettere in vetrina.
E cosi mentre ogni osso, ogni nervo urla di dolore, nascondiamo lo sguardo complice da quei corpi martoriati, le nostre nuove martiri. Sacrificate da menti che rifiutano esse stesse la vita, in cerca di una perfezione di plastica, basata su istanti che sanno di vuoto.
Ginevra sta morendo.
Nel libro lei abbraccia il bianco ossia il non esistere.
E’ una morta silenziosa che non ci da neanche il piacere di dire l’ultima parole.
Sono guerriere a cui è stato tolto ogni sogno, e ogni volontà di ribellione.
E si trovano cosi a rinunciare alla bellezza del nero e di ogni colore in esso contenuto per dire addio a un mondo che non può accettare la loro meraviglia.
Che resta cosi congelata e derisa dal ricordo di corpi martoriati, considerati belli nella loro assurda magrezza.
Eppure il patto finale con il dio circondato di oro e lustrini, ci terrorizza. E da quei corpi vittime di un modo insensato, non poggiamo mai lo sguardo.
Non si dice bulimia.
Non si parla di anoressia,
Sono parole vietate perché hanno l’orribile suono di unghie crudeli che raspano il vetro.
Ma Giulia lo racconta.
Con tutti i dettagli capaci di farci chiedere perché queste morti senza senso.
Una storia trattata con rispetto e delicatezza, ma anche con la forza necessaria di un je d’accuse.
Giulia sa dosare fermezza e empatia senza cadere nel clichè e nello scontato, ma cercando di far comprendere i pensieri che una ragazza in preda a una delle malattie meno comprese del nostro secolo scatena.
Perchè molti cercano le causa ma pochi hanno il coraggio di entrare in quel mondo banco e ovattato.
E farci comprendere cosa significa sparire, lentamente, e volontariamente da un mondo che, in fondo non ci ha mai voluto bene.
E ci fa guardare negli occhi di Ginevra e persino in quelli Melanie che ci stanno chiedendo solo un’opportunità.
Noi vorremmo tutti un opportunità
che la pace arrivi da chi non ce l’ha
sul cavallo alato della libertà.
E sta a noi.
È il nostro dovere raccogliere il grido di ognuna di loro.
E non aspettarle alla fine del tunnel.
Ma andarle a prendere, decisi e fieri, dentro quel buio.
Grazie mille 🙂
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