
Quale miglior colonna sonora per parlarvi di questo libro di De Andè?
Con quella sua poesia che sa di terra brulla, che sa di fango ma profuma di rose, i pensieri si affollano nella mia testa.
Quando cade un angelo il cielo dovrebbe piangere.
E la vita fermarsi.
Se dovesse scendere dagli infiniti spazi qualcosa di cosi puro, il mondo dovrebbe fermarsi per un eterno istante.
Piangendo su quel corpo martoriato, inserito in una terra che non gli appartiene, una realtà che ferisce e che forse, fa perdere l’anima anche agli angeli.
E cosi, in questo libro che ha la cupezza claustrofobica di città piene di vizio, piane di fretta che poco controllano i propri doni, una domanda sorge: esistono davvero angeli in questo mondo oramai perduto?
E chi possono essere, oggi, quegli angeli?
Donne innamorate come Marinella di de Andrè, prese a schiaffi dalla società.
O anime pure racchiuse in un corpo rovinato, in attesa dell’istante in cui il principe dal cavallo bianco possa liberarle dalle catene.
O bambini rifiutati, non per loro dolo, ma per un assurda ricerca di perfezione.
O un uomo incapace di ritrovare i propri ricordi, incapace di lasciare del tutto il mondo a cui è abituato.
Un anni assurdi, cacofonici, anni in cui si tentava in modo convulso di dimenticare il grigiume della città, in cui si tentava di immaginare prati illuminati da una luna benevola nel cemento.
Anni di musica assordante, incapace di lasciare libere le voci dei pensieri.
Anni in cui, nonostante il marcio uno sguardo aveva a ancora il potere di far tacere le urla e incantare anche gli animi più disincantati.
E quando questo accade, neanche il peggior rave, ne la droga, ne il degrado può fermare il cuore che batte.
Luca Pitagora lo sa.
Ha potuto sfiorare le ali immacolate di un angelo caduto nella città nascosta.
Quella che non si vuol vedere.
Quella che i perbenisti non vogliono vedere, chinano gli occhi.
Sperando che l’inconsistenza la distrugga la città nera, la città della perdizione, la città delle anime erranti.
Ma l’angelo non è fatto per questa prigione.
Spicca il volo e lascia, per sempre il nero e il grigio.
Questo crepuscolo eterno che ci spacciano per divertimento.
Questo continuo dimenticare.
E cosi la morte diventa incidente.
Capita a chi bazzica nelle vie nascoste del vizio.
Capita a chi rifiuta la mano rugosa di una società che si spaccia per alternativa.
E che invece ti propone solo una nuova prigione.
E allora l’Angelo, in fondo, sogna di vivere, una volta sola, come le rose.
Per poter essere solo un ricordo, un profumo, un nome.
Un volto.
Una di quelle storie dure, crude eppure poetiche, di quelle che non ti aspetti.
Quelle che fanno male.
Quelle che però entrano di nascosto dentro di te.
E si appiccicano e non vanno più via.
Se tu penserai e giudicherai
Da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni
Più le spese
Ma se capirai se li cercherai
Fino in fondo
Se non sono gigli son pur sempre figli
Vittime di questo mondoDe Andrè