
Leggende: Les fleurs du mal (1 giugno)
Lu Scijò
Lu Scijò è un’antica leggenda adriatica che dà un volto alla furia imprevedibile del mare. Il suo nome è la forma dialettale di “tromba marina”. Secondo i racconti dei marinai sambenedettesi, personifica questo spaventevole fenomeno che si tramuta in un ciclone di anime dannate, pronte a castigare i peccati dell’uomo. Molte delle mitologie sono legate al mondo dei pescatori. Sono narrazioni che rispecchiano le loro paure più ataviche, in particolare quelle legate a tempeste spaventose e strane creature marine. Un emblema che riflette queste leggende è il Monumento del Pescatore collocato alla fine del lungomare di San Benedetto del Tronto, scultura che riproduce la tenuta dei pescatori durante le tempeste, nell’atto di suonare un corno per richiamare l’attenzione sul pericolo derivante da un’imminente bufera o dalla nebbia sul mare.
Gli antichi pescatori narravano che in una tempestosa notte di novembre di moltissimi anni fa, a bordo di una paranza, un pescatore uscì fuori di senno imprecando contro il maltempo. Brandendo un coltellaccio, aveva cercato di decimare quell’ammasso di nubi che si muoveva veloce trascinando uomini e oggetti. La tempesta si allontanò. Sia l’uomo che i membri dell’equipaggio credettero al potere delle parole e dei gesti come salvataggio da morte certa. Da questa leggenda nasce il mito de Lu Scijò, l’entità maligna più temuto dai pescatori, formata dalle anime avvinghiate di coloro che subirono torti dai marinai, formando un vortice urlante con una forza distruttiva tale da non lasciare scampo a nessuna imbarcazione. C’era soltanto un modo per sconfiggere questa forza malefica: la presenza a bordo del “tagliatore”, primogenito di un marinaio depositario di uno scongiuro sussurrato dal demonio al primo pescatore dell’Adriatico, tramandato di generazione in generazione. Costui, armato di un lungo coltello, doveva pronunciare con veemenza la formula stando in piedi sulla prua, facendo l’ampio gesto di tagliare col coltello la tromba d’aria.
Guido Milanesi (1875-1956), capitano di vascello che divenne uno scrittore molto popolare nel periodo tra le due guerre, raccolse nella sua opera “Mar Sanguigno” alcune storie inerenti al mare tempestoso e sanguinario apprese durante i suoi numerosi viaggi. Nella raccolta incluse il mito dello Scijò in quanto, dopo aver solcato spesso l’Adriatico, rimase affascinato dalle credenze popolari dei pescatori di San Benedetto del Tronto. Anche la poesia ha celebrato questo mito: infatti il sonetto “Lu Scijò” è anche un noto componimento del sambenedettese Giovanni Vespasiani.
La barca di Caronte
Era credenza diffusa qui da noi che nella notte tra l’uno e il due di novembre il mare diventasse per i naviganti un luogo proibito: un tabù che incuteva timore reverenziale, tanto che in quella notte anche i marinai senza paura cedevano ai morti lo spazio marino. Al calar della notte, infatti, passava per mare il nocchiero Caronte con la sua barca ricolma di trapassati dall’anima inquieta. Una galea che ricordava le imbarcazioni ottomane. Caronte attraversava le distese marine in compagnia dei morti del mare. Andava alla ricerca dei cadaveri dispersi nel grande ventre liquido per causa di naufragi e battaglie navali di memoria antica o recente. Guai a incontrarlo di notte sulle onde caliginose dove lampeggiava a tratti, tra spume bianche e spruzzi di frangenti, il biancore degli scheletri seduti agli scalmi. Da quell’incontro si sarebbe originata una paura senza nome, capace di paralizzare e mandare in rovina perfino il più ardito degli uomini di mare. Caronte, il traghettatore infernale di dantesca memoria, nel racconto dei nostri pescatori diventava un marinaio greco che in una battaglia disumana aveva distrutto la flotta turca riempiendo il mare di cadaveri.
Il “pontino” e il mistero della “mano nera”
Ci sono dei luoghi nella nostra città che continuano a fare storia nonostante le trasformazioni subite. Uno di questi è quel ponte che ad ogni acquazzone fa parlare di sé perché si trasforma in una vasca da competizione dopo che è stato scavato ed allargato. Una volta bastava il diminutivo per localizzarlo subito, portandosi dietro avvenimenti per lo più tetri e paurosi, legati alla vita del marinaio che lo utilizzava come la via più breve per andare al porto. Non vi era altro passaggio a nord della città se non si voleva scavalcare la ferrovia con tutti i suoi rischi. Il “pontino” era a misura di carretto, il comune mezzo di trasporto per le reti. Era ad altezza di uomo, anche se quelli con qualche centimetro in più dovevano chinarsi. Sotto il “pontino” era buio pesto, punteggiato dal fuoco delle sigarette a indicare la presenza di persone. Il carretto (o meglio la carretta) procedeva grattando la parete tra gli insulti dei marinai nelle prime ore del mattino.
Qualche bontempone pensò bene di arricchire di misteri quel luogo, che già di per sé ne conservava tanti, prendendo a schiaffi chi si avventurava in quel buio. Quel pontino, che nelle credenze locali spalancava di notte i cancelli dell’Inferno trasformandosi in luogo di ritrovo delle anime dei tedeschi morti nei bombardamenti della ferrovia durante la Seconda Guerra, aggiungeva il mistero di “una mano nera” che prendeva a schiaffi specialmente i marinai che, abituati a una vita di pericoli, non temevano il buio.
Poi, in una notte di luna piena si sentì un urlo bestiale che fece rabbrividire l’interno delle case. Di lupi mannari si parlava spesso anche tra noi ragazzi. Al mattino fu trovato un uomo con la testa fracassata di cui si diceva essere un licantropo e a cui fu addossata la colpa di essere “la mano nera”.