“Incitazione a delinquere” di Lodovica San Guedoro, Felix Krull editore. A cura di Alessandra Micheli

Leggo gialli da sempre.

Da quanto ero bambina, una dodicenne che aveva letto oramai tutto e cercava nuove emozioni.

Cresciuta a pane e fantasy, nutrita dalla meraviglia dei classici, mi sono ritrovata a percorrere felicemente, gli oscuri sentieri del genere investigativo e poliziesco.

Lei, Agata fu il mio mentore.

Con quella sua eleganza nella scrittura, cosi di classe ma non scevra di una certa ferocia, di una vena di crudele ironia.

Tanto che nei suoi libri la nostra umanità veniva messa a nudo, osservata la microscopio e anche, lo sa chi l’ha letta, dileggiata.

Noi troppo fragili, troppo sensibili alle lusinghe delle tentazioni per poter fissare con orgoglio i doni di qualche sperduta e rassegnata divinità.

Eravamo pronti a cadere quasi felici nell’abisso, pronti a farci rapire dalle sue promesse, fallaci, menzognere ma troppo suadenti per essere rifiutate.

E Agata lo sapeva, sapeva che dietro a ogni progresso la lascivia e l’indolenza umana era il nostro peggior difetto.

La bellezza di una vita che si scontrava con la banalità del male, frutto di un uomo qualunque che non ambiva più a solcare i cieli come Icaro, a tentare l’impossibile come Prometeo.

Difetti e vizi mai etica e mai sopratutto morale.

Ma il giallo lo sfiorava soltanto questo tema, intingeva con eleganza la sua penna in quell’inchiostro ma non si soffermava certo a dare colore alle pagine.

Era li soffuso, discreto a occhieggiare tra il racconto, quasi timido per poter prendere il posto che gli spettava.

Importante era l’indizio, la ricerca della verità, lo svelamento del mistero.

Piatto principale che, però, mi lasciava con una fame immensa.

Fame di critica, fame di realtà, fame di verità.

Fame, che solo pochi capaci di sfidare i propri limiti decide di ascoltare, fame di realismo anche crudo, duro, crudele capace di sacrificare il lato glorioso della risoluzione del caso a una sensazione necessaria di tristezza, quella che nel degrado, nello sfarcelo del nostro misero destino deve nascere.

Perché soltanto vedendo quanto possiamo cadere in basso, quanto il crollo delal nostra torre di babele sia attuale possiamo forse comprendere quanti talenti seppelliamo in attesa di chissà cosa.

Ecco cosa mancava al giallo.

Parodia di noi stessi, quella stolta creatura umana.

Critica alle abitudini che troppo spesso consideriamo un male necessario della modernità ma che è soltanto il nostro alibi per nascondere un vuoto, il vuoto valoriale, avuto di sogni, vuoto di ideali.

Ecco che il libro che ho avuto tra le mani diventa più importante che mai, esulando dalla sua funzione di cimelio storico, di ricordo di come in fondo questo genere, il poliziesco, possa diventare sempre più romanzo sociale, e forse meno svago.

Nel 1984 fu un grande successo in Germania, riscuotendo il plauso del pubblico.

In Italia passò stranamente in sordina.

O forse non fu un evento cosi strano, in quanto in queste pagine godibili, perfette e raffinate, si cela il significato che lo affilia al romanzo sociale per eccellenza…

Pensate al titolo.

Incitazione a delinquere.

Sembra quasi che esiste qualcosa in questo mondo cosi frenetico, cosi impegnato a ricercare il lato godurioso senza attenzione a responsabilità e impegno che ci spinge a precipitare in ogni vizio possibile e immaginabile, perfettamente rappresentato dai protagonisti della terrificante famiglia Rubinacci: ingordigia, corruzione, vanità, ignavia, ira accidia.

E cosi l’omicidio non è altro che la metafora precisa di quei pochi, eletti o forse perduti illusi che decidono di non cedere al nuovo che avanza e che divora la tendenza stoica di chi crede nella meraviglia armonica della vita, nella semplicità del quotidiano, nel valore del lavoro e perché no del sacrificio che comporta credere ancora nei sogni.

E cosi Rubinacci sinolo della banalità per eccellenza non solo quella del denaro ma anche quella del potere che chiede sempre più vittime, che rende carnefici privati dell’anima deve poter essere sconfitto

E in questa parodia del mondo, dell’umanità ingrigita, l’ironia affilata, crudele, decisa a fissare in volto la verità ci mostra esempi di vita affatto virtuosa, ma rumorosa, volgare, ultramoderna, disordinata sopratutto moralmente che difficilmente riscuoteranno nel lettore quel sentimento di empatia che si nutre per la vittima.

Come si può odiare chi decide di difendere la paradisiaca vita di un quartiere completamente fuori dal tempo?

Eppure…anche in questo frangente l’ironia continua a ferirci: neanche chi decide di proteggere questa via dei gelsomini è totalmente privo di colpe: incapace di portare la stravaganza della bellezza nel mondo, si richiude in se e diventa al tempo stesso una foto sbiadita e stantia di un ricordo e di un passato che si sfilaccia davanti a noi, mostrando la sua fragilità nel volersi mantenere solo potenzialità a mai possibilità.

Come a dire che via dei gelsomini sa essere fuori dal mondo soltanto divenendo essa stesso mito, illusione e chimera.

Senza mai voler lottare affinché il disordine possa essere fermato dall’armonia.

E cosi in quel suo essere fuori dal tempo, decisa a mantenersi separate dal mondo odierno, Via dei Gelsomini è solo una fiaba, un ologramma, una sorta di estasi pericolosa, inutile e pertanto capace essa stessa di divenire degrado, lo stesso che tenta di combattere.

E il paesaggio fiabesco assume le connotazioni oscure delle prigioni dorate, soffocanti e claustrofobiche, laddove l’energia della creatività si rivela essere la rassegnazione dello sconfitto.

Un giallo favoloso, godile, in cui l’autrice stessa si diverte a dipingere scenari assurdi, siparietti di puro surrealismo e quella ve a di crudeltà che lo rende una vera, unica chicca letteraria.

Volta la carta e paga il riscatto

Paga il riscatto con le borse degli occhi

Piene di foto di sogni interrotti

Fabrizio De Andre

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