
Nessuna mano venne a trattenermi
la notte che trovai l’antica via
sulla collina, e volli rivedere
i campi sempre vivi nel ricordo.
L’albero, il muro: ben li conoscevo,
i tetti ed i frutteti ritornavano
in modo familiare alla mia mente,
come da un tempo ancora non remoto.
Sapevo quali ombre avrebbe steso
la tarda luna prossima a levarsi
di Zaman’s Hill dietro le spalle, e come
di lì a tre ore tutta la vallata
alla sua luce si sarebbe aperta.
Quando il sentiero prese a inerpicarsi
e parve terminare contro il cielo,
non temetti ciò che m’aspettava
oltre il profilo netto della cresta.
Spedito camminai, mentre la notte
nella fosforescenza impallidiva,
e il muro e il sommo delle fattorie
erano ultraterreni nel chiarore.
Una pietra miliare conosciuta –
«Due miglia a Dunwich»: dopo dieci passi
sapevo che avrei visto comparire
in lontananza i tetti e il campanile…
Nessuna mano venne a trattenermi
la notte in cui trovai l’antica via.
Oltrepassai la cresta del sentiero
ed ecco spalancarsi alla mia vista
una valle di morti e di dannati:
e già su Zaman’s Hill s’era levata
tenue una falce di maligna luna
che illuminava il muschio ed il rovame
avvinti a mura cupe e diroccate.
Vagavano nei campi i fuochi fatui,
ed esalata da paludi infette
una nebbia smentiva ogni pensiero
che avessi conosciuto mai quel luogo.
E da quella visione di follìa
capii l’insussistenza del passato –
e che non mi trovavo sul sentiero
che discendeva nella valle morta.
C’era nebbia tutt’intorno – e a me davanti
la Galassia infinita e le sue stelle…
nessuna mano venne a trattenermi
la notte che trovai l’antica via.
Nessuna mano venne a trattenermi la notte in cui trovai l’antica via.
Sì, lo confermo.
Lo confesso la poesia di Lovecraft, non mi lascia indifferente, dal momento in cui la lessi anni fa, essa è rimasta fissa in me.
Un’immagine, un’impronta, una fantasia a cui tornare, eppure essa è pregna di paura, di terrore, di emozioni forti e spaventevoli.
Perché l’antica via mi attira a sé?
Il corpo la rifiuta e le notti la fuggono eppure la tentazione torna.
Trascino gli ultimi passi della razionalità verso un mondo di visioni perché non può trattarsi di altro.
Non può essere realtà.
Ci sono scrittori che sanno cogliere il limite, che lo tracciano e poi senza guardarsi indietro hanno l’ardire di andare oltre, non perdono cognizione, semplicemente si orientano in un nuovo mondo immaginifico.
Lovecraft è stato un anticipatore, un incompreso e un coraggioso.
Ha sperimentato la solitudine e la difficoltà ad essere accettato, l’impopolarità e la condanna.
Sì, questo accade a non conformarsi, a volare oltre le soglie del possibile, a presentare mondi oscuri e onirici che ci appartengono.
Lo dico con convinzione: Dunwinch è nostra ci appartiene.
Il sentimento della paura resta attaccato nell’antica via della sopravvivenza all’amigdala, la parte del cervello che regola le emozioni e porta l’individuo a reagire in caso di pericolo.
Ed ecco che tra le pagine dell’orrore di Dunwich l’amigdala si attiva, perché le storie di Lovecraft non si leggono, si vivono e le emozioni ci aggirano, ci trascinano e ci incatenano.
L’adrenalina ci percorre con il rischio di scatenare una terribile dipendenza, un inseguimento circolare dove si rincorre e si è rincorsi con l’unico guadagno della libertà.
L’estraniazione è dietro l’angolo, l’immaginazione corre, straripa, oltrepassa gli argini e l’omologazione è lontana.
Ecco perché Dunwich deve essere distrutta, anche da un punto di vista letterario, ecco perché Dunwich deve invece sopravvivere.
Noi che la conosciamo, consideriamo la sua forza, sappiamo che tornerà.
“C’era nebbia tutt’intorno – e a me davanti
la Galassia infinita e le sue stelle…”
Perché chi ha incontrato Dunwich non può smettere di sognare.
Grazie Lovecraft.
Grazie Dunwich.