
A volte, mentre leggo un libro che amo particolarmente, mi capita di essere travolta da mille associazioni di idee, parole, immagini, reminiscenze di esperienze vissute, di altri libri letti, di film visti, di nozioni studiate.
Assai spesso i pensieri che turbinano nella mia mente paiono avere poco o nulla a che vedere con ciò che sto leggendo in quel preciso momento.
E se all’inizio del mio percorso di recensore di libri la cosa mi infastidiva, perché sfuggiva ad ogni spiegazione ragionevole, adesso non me ne cruccio più.
Lascio che accada, senza farmi troppe domande.
Perché so che, presto o tardi, quelle mie idee bizzarre si sedimenteranno come cristalli di cremor tartaro sul fondo di un calice di vino, permettendomi di percepire con maggiore intensità il bouquet di sensazioni che la lettura mi ha regalato.
Mentre leggevo “I Vivi, i Morti e gli Altri” di Claudio Vergnani, a lampeggiare a intermittenza nelle mie sinapsi, come l’insegna di un night club in un’oscurità complice, era una definizione in cui mi sono imbattuta milioni di volte nei miei trascorsi da studentessa di filologia e linguistica.
Un’espressione che avevo completamente dimenticato, che credevo di aver rimosso, e che invece, a distanza di quasi un paio di decenni dalla fine dei miei studi, è riemersa, prepotente e baldanzosa, da uno dei cassetti polverosi della mia memoria: hapax legòmenon.
Se ne cercate la definizione sul web, vi verrà spiegato con grande semplicità che l’hapax legòmenon, letteralmente “detto una sola volta”, è un termine attestato un’unica volta nella produzione letteraria di una determinata lingua o cultura.
Una parola che non è mai più stata utilizzata, in nessun’altra opera, da nessun altro autore, e che assai spesso diventa la chiave che consente a filologi e archeologi di sciogliere i dubbi relativi all’attribuzione di una qualche forma di produzione letteraria anonima.
Ma cosa c’entra questa roba da monaci amanuensi, da topi di biblioteca, con il romanzo di Vergnani?
Me lo sono chiesta io stessa per giorni, dandomi come unica risposta plausibile il mio essere un po’ strana, incomprensibile perfino a me stessa, una disagiata, come direbbe con affetto la mia amica e mentore Alessandra Micheli.
Poi, però, è arrivata l’illuminazione.
Questo romanzo di Vergnani è esso stesso un hapax legòmenon.
Qualcosa che nessun altro potrà mai riscrivere.
Qualcosa cui nessuno potrà mai anche solo avvicinarsi
Una storia che poteva essere raccontata una volta sola in questo modo, con una tale profondità, con quella sensibilità che rende Vergnani capace di vergare con la stessa grazia di un haiku anche le righe in cui racconta di corpi putrefatti che si trascinano inciampando nelle loro stesse viscere, ammorbando l’aria con miasmi infernali.
Perché di storie di apocalissi zombie, come tutti, ne ho lette, ascoltate, viste in TV a centinaia.
Ma nessuna di esse può essere accostata a ciò che ha fatto Vergnani.
Perché, se in ogni ambito in cui si parla di morti viventi la loro funzione pare ridursi a quella di marcescente contrappunto alla gloria dell’impavido eroe di turno, colui che deve stanarli ed ucciderli per salvare il mondo e riportare tutto ad uno status quo ante che appare improvvisamente come una dimensione edenica da recuperare ad ogni costo, ne “I Vivi, i Morti e gli Altri” non c’è una separazione così netta fra il Bene e il Male.
O meglio, fra ciò che noi supponiamo essere Bene o Male.
Così come fra la Vita e la Morte, laddove la prima, talvolta, finisce per sembrare di gran lunga più annichilente della seconda.
E il rimpianto di ciò che è stato, la nostalgia per il mondo di prima, non è più così scontato.
E Oprandi, il protagonista, un ex militare reinventatosi killer professionista di zombie, cui frotte di persone si rivolgono per restituire una pace che sia davvero eterna ai loro cari estinti non ancora abbastanza estinti, è tutt’altro che un eroe.
È un uomo di mezza età, che ha il vizietto di alzare un po’ il gomito per riuscire ad affrontare le brutture della vita.
È un novello Atlante, destinato a caricarsi costantemente sulle spalle pesi ideali e reali che per altri sarebbero impossibili da sostenere: la perdita del lavoro, la fine di un matrimonio, un nuovo “impiego” che lo pone ogni giorno di fronte all’orrore.
Una M15 e le relative munizioni, uno zaino zeppo di cibo in scatola, la cassa metallica che contiene il cadavere redivivo del Dottor Ursini, del cui rocambolesco recupero è stato incaricato dalla figlia del medico, in cambio di un passaggio in elicottero verso la salvezza in Svizzera.
La morte di Remo e Jasmine, la salvezza della piccola Bibi, la responsabilità di proteggere Marta e Lillo.
Il tutto sullo sfondo di un mondo in cui tutto a decomporsi sono corpi, anime, natura, morale, senso civico e, più di ogni altra cosa, la speranza.
“Ma, a questo punto, che speranza mai si poteva ancora nutrire se si aveva la consapevolezza che i corpi sarebbero stati divorati vivi e, una volta morti, l’anima sarebbe rimasta prigioniera di una carcassa putrefatta, idiota e antropofaga?”
Eppure, Oprandi, il cui nome di battesimo non ci viene mai rivelato e che, ciononostante, pagina dopo pagina, ci sembra di conoscere più intimamente delle nostre stesse paure, per quanto coraggioso, statuario, atletico, cede spesso allo sconforto e alla disperazione; e per quanto sconfortato, disperato, convinto di essere lui stesso un esempio vivente dei fallimenti del genere umano, non molla, mai.
Non molla se stesso, non molla i suoi compagni di avventura, non perde di vista il suo obiettivo.
Trova il tempo per innamorarsi, mentre prosegue, esausto, il suo cammino infernale.
Perde Jasmine, colei che ama, e Remo, i suoi primissimi compagni, proprio all’inizio del suo percorso.
Si rassegna alla solitudine, talvolta pare bearsene, quasi, ma poi incontra Bibi, Lillo e Marta e si ritrova a costruire man mano con loro, suo malgrado, un legame più forte e profondo della disperazione che impera ovunque.
Si trascina dietro uno zombie chiuso in una cassa, inizialmente lo maledice, poi ne ha pietà, infine avrà modo di sperimentarne quell’ “umanità” che pare aver resistito anche in quel limbo spaventoso e nauseante che è la condizione di “non-morto.”
Oprandi fa esperienza delle diverse modalità con cui ciascun individuo sceglie di far fronte alla tragedia e alla calamità, presso una fornace abbandonata si imbatte in un gruppo di sopravvissuti che hanno scelto consapevolmente di riscattarsi dalla loro precedente condizione di outsider abbandonandosi a crudeltà e nefandezze di ogni genere verso i malcapitati che si trovano a passare di lì.
“Getta l’essere umano nelle peggiori difficoltà e forse ne uscirà migliore e vivificato; ma negagli del tutto e per sempre la speranza e lo trasformerai nel demonio sulla Terra.”
Gli orrori peggiori cui il protagonista assiste non sono le membra straziate dei morti viventi, il loro lezzo insopportabile, la ferocia con la quale aggrediscono e divorano le proprie vittime; sono piuttosto le dinamiche che coinvolgono i sopravvisuti, quelli che hanno scelto di abdicare al loro ruolo di esseri senzienti, che si sono consapevolmente lasciati alle spalle ogni principio morale e sociale sul quale è stato costruito il mondo civilizzato.
Eppure, a un certo punto, grazie all’incontro con un motociclista-filosofo, si rende conto del fatto che tutto quel Male, tutto quell’orrore, è sempre esistito, e che gli zombie sono soltanto una manifestazione superficiale della decomposizione che da anni, ormai, lenta e inesorabile, divora dall’interno il genere umano.
“Anni e anni di debolezza, meschinità, infantile violenza e ridicole menzogne ci hanno portato ad abdicare al nostro ruolo. Abbiamo calpestato, ridicolizzato e abbandonato quello spirito che rende un essere umano quello che è, senza il quale è solo un morto che cammina. E forse quella era l’unica redenzione che ci fosse concessa.”
Ed ecco palesarsi, finalmente, il senso reale, la meta ultima dell’estenuante viaggio di Oprandi: la scoperta del pericolo vero, di quella minaccia tangibile che già serpeggiava nel mondo, che ne ha determinato un brutale sovvertimento e che al contempo non rende affatto auspicabile un ritorno a ciò che esisteva prima, quando era celata solo agli occhi, ma già dilaniava, cupa e guardinga, ogni forma di empatia o senso di comunità.
“La vera minaccia è rappresentata da coloro i quali stanno in mezzo a queste due grandi categorie. Tra i vivi e i morti. Ci sono sempre stati, solo che si confondevano tra di noi […] Sono gli Altri, quelli di noi che non fanno parte dei morti, ma nemmeno dei vivi. Sono coloro che nelle calamità abdicano al loro ruolo di uomini e si fanno meno di un uomo, meno di un cane, meno di un topo. Coloro che davvero riportano indietro la lancetta dell’evoluzione.”
Il protagonista si trova spesso a chiedersi, con serena rassegnazione, se il fatto di aver dovuto uccidere e compiere azioni talvolta disdicevoli per salvare se stesso e i suoi protetti non lo ponga, a pieno titolo, nel novero degli Altri.
Non smette mai di tormentarsi, a suon di riflessioni, interrogativi e dubbi, sulla sua stessa natura.
E perde di vista una verità abbagliante e dolcissima, che da lettrice avrei voluto urlargli: è proprio la sua insicurezza, ben nascosta sotto un cappotto sudicio, una muscolatura possente, un incrollabile coraggio, a renderlo così incredibilmente Vivo.
È proprio il suo vacillare, il suo prendere decisioni avventate, la sua paura, il suo bisogno viscerale di proteggere ad ogni costo chi ha accanto, la sua capacità di amare e comprendere in mille modi, di riconoscere pari dignità alla Vita e alla Morte, a incidere sulla sua pelle la sua natura meravigliosamente umana.
Oprandi non ha bisogno di avere un nome di battesimo.
Perché lui è un Uomo nel senso greco di ànthropos, parola che designa l’essere umano come soggetto senziente e pensante, ponendolo su un piano antitetico rispetto a quello istintuale e belluino degli altri esseri con cui condivide il Pianeta.
A riprova di ciò, pare che ànthropos, etimologicamente, significhi “colui che rivolge lo sguardo di fronte a sé.”
E guardare ciò che ha di fronte, cercando di comprenderlo, di trarne un insegnamento, senza retorica né sogni di gloria, è proprio ciò che fa Oprandi.
Ed è proprio il fatto che una storia horror riesca a far emergere tutto questo, diventando quasi un meraviglioso trattato filosofico, a spingermi a dire che “I Vivi, i Morti e gli Altri” è un gigantesco e prezioso hapax legòmenon.
Una rivelazione unica, da cogliere al volo, perché è qualcosa di talmente bello e profondo che è assai probabile poterne fare esperienza una volta sola.
Negli ultimi due anni la pandemia ha contribuito a scoperchiare con violenta sfrontatezza il vaso di Pandora delle più indicibili meschinità umane.
E in questo mondo che mi appare sempre più popolato da Altri, gli zombie di Vergnani sono stati una compagnia confortante.
Non so se è possibile, o normale, provare nostalgia per un mondo che non esiste, o un personaggio di fantasia.
So solo che a me Oprandi mancherà tantissimo.
E che ho promesso a me stessa di concedermi un whisky, ogni tanto, quando la vita fa troppo male.
E di ripetermi più spesso le sue sagge, preziose parole:
“Nulla è inciso nella pietra, se si parla del destino di un uomo. Vivo o morto che sia.”