
Sono in preda a uno di quei flussi di coscienza, assurdi e incomprensibili, che mi assalgono ogni volta che termino di leggere qualcosa di particolarmente suggestivo e straniante.
Penso al concetto di locus amoenus in Virgilio e nella letteratura classica più in generale, connesso alla descrizione di luoghi incantevoli, perfetti, idealizzati; penso a quella dimensione, onirica e quasi edenica, delle ambientazioni di alcune commedie shakespeariane, come il bosco di Sogno di una Notte di Mezza Estate.
Rifletto sul tema dell’utopia, sui fiumi di parole scritte da filosofi e letterati di ogni epoca, nel tentativo di teorizzare e raccontare l’idea di un mondo migliore, la possibilità di una società diversa, più equa, più “umana.”
Thomas More, Francis Bacon, Tommaso Campanella, Sant’Agostino, Calvino…
Per qualche inspiegabile motivo, mi sovviene persino il vago ricordo di un film del 1998, Pleasantville, che raccontava la storia di due adolescenti americani, fratello e sorella, che vivono in un contesto sociale e familiare particolarmente difficile e finiscono, grazie ad un telecomando “magico”, per ritrovarsi catapultati nel mondo perfetto, tutto conformismo, gonne a ruota, doo-wop e colori pastello, della soap opera anni ‘50 che guardano ogni giorno in TV.
Poi, improvvisamente, torno a fissare l’ultima pagina del libro che ho appena concluso.
La riedizione de “L’Ombra su Innsmouth” della Delos.
E ancora percepisco chiaramente, con forza, dentro di me, quell’inquietudine che la traduzione di Claudio Foti ha saputo rendere magistralmente, con scelte lessicali attente e mirate, capaci di far grondare ogni pagina di quell’atmosfera umida e nebulosa che avvolge la cittadina di Innsmouth, la mente del narratore e l’anima di chi legge.
Ed ecco di nuovo a strapparmi dall’osservazione di quell’ultima pagina l’ennesima ondata del mio stream of consciousness.
Atlantide.
Sento riecheggiare quel nome in un angolo remoto delle mie reminiscenze liceali.
La mitica e prospera città raccontata da Platone, un tempo virtuosa e pacifica, poi contaminata da brame di potere e cupidigia, quindi sprofondata nell’oceano da un adirato Poseidone per punirne la ybris.
E allora, esitante, quasi folgorata da un’improvvisa epifania, mi chiedo: non è forse, la Innsmouth di Lovecraft, un’ Atlantide “rovesciata”?
Il male giace sui fondali degli abissi più profondi, proprio come l’isola platonica, ma ne riemerge costantemente, con i suoi orrori, le sue creature deformi, i suoi miasmi.
E non c’è alcuna divinità pronta a scagliare nelle più oscure profondità marine quell’incubo viscido, che si trascina ovunque gocciolando incubo e contaminando ogni cosa.
Non c’è alcun nume tutelare perché non c’è essere umano, degno di tale definizione, da proteggere.
Perché quella di Innsmouth è una comunità che ha ceduto consapevolmente al compromesso, al male, pur di assicurarsi prosperità e ricchezze.
E le creature dall’aspetto pisciforme e batracico che trascinano le proprie membra mollicce lungo le vie di una città ormai marcescente e in rovina, serbano nelle loro anime, o in ciò che di esse resta, una deformità di gran lunga peggiore di quella che ostentano nel loro aspetto.
E quello spaventoso Innsmouth look, quello sguardo dalla fissità inquietante, dalla vacuità liquida, ravvisabile negli occhi di tutti gli abitanti della cittadina, è quasi la metafora dell’indicibilità dell’orrore che permea la loro quotidianità.
Un’Atlantide “rovesciata”, in cui quanto più si sprofonda nell’abisso, tanto più si ha garanzia di prosperità e vita eterna.
La vita sulla terraferma è solo una fase di passaggio, quasi un Purgatorio, anch’esso “rovesciato”, che prelude a un Inferno agognato, la cui oscurità, per chi invecchia, diventa sempre più necessaria e vitale, quasi uno spaventoso ventre le cui acque esercitano un richiamo irresistibile.
E anche se il narratore è nauseato da quell’universo fetido e grottesco, dagli abomini che lo abitano e dal fine ultimo che ne muove le squallide esistenze, non può tuttavia sottrarsi al suo destino.
Il suo sangue è contaminato da quel cruore venefico che è il tratto distintivo della maledetta genia della cittadina.
E alla fine, suo malgrado, deve arrendersi anche lui all’Innsmouth look, a fissare con occhi vuoti e sbarrati quell’ Atlantide “rovesciata”, quell’orrore di cui si veste un mondo in cui il profitto è posto al di sopra di ogni cosa.
Del resto, di fronte a un abisso tanto spaventoso, di fronte a un’umanità che si spoglia di tutti quegli attributi che la rendono tale per sguazzare nelle acque torbide della cupidigia, nessun altro sguardo sarebbe possibile.