
“L’Universo non è infallibile.”
Già, non lo è affatto. E allora può succedere che, nel momento in cui ogni cosa sembra essere tornata al suo posto, in cui un’antica maledizione che ha segnato il destino di Golden Falls e dell’umanità tutta pare, finalmente, sciolta, qualcosa di empio, malvagio, un residuo di quell’orrore, dalle fattezze di morto vivente assetato di sangue, si ritrovi fuori da quel portale spazio temporale, scaraventato all’altro angolo del mondo, pronto a dare inizio ad una pandemia devastante.
Succede allora che tutte le certezze, quella serenità conquistata con fatica e coraggio nel secondo capitolo della splendida trilogia di Paolo La Paglia, si sgretolino di colpo, come il vetro del finestrino oscurato di una bella automobile, che lascia cadere all’improvviso ogni barriera rassicurante e protettiva per costringerci, di nuovo, brutalmente, a contemplare l’abisso.
Un abisso narrato, ancora una volta, magistralmente, dal punto di vista di personaggi diversi. Ognuno porta con sé la sua storia, il suo vissuto, trascinandosi dietro errori, speranze e ricordi, mentre arranca affannosamente verso una salvezza che pare sempre più lontana.
C’è il carcerato in fuga Dwight, i due sicari Lukas e Perry; c’è James, un pittore che vuole disperatamente ritrovare la compagna Taissa; Ben, un sacerdote in piena crisi vocazionale che vuole a ogni costo salvare Susan, di cui è segretamente innamorato; c’è l’anatomopatologo Scott, il primo a intuire la portata di ciò che sta accadendo, vale a dire la non-morte di un numero sempre crescente di individui, pronti a divorare i vivi; c’è Amanda, che ha appena perso il marito in seguito all’aggressione di uno dei Ritornati.
C’ è un’umanità variegata e incredibilmente “vera” che racconta, nella prima parte del libro, ciò cui sta assistendo, descrivendone l’orrore, interpretandone il significato alla luce delle proprie esperienze presenti e passate, affrontandone le difficoltà ciascuno mosso da una particolare speranza.
Sono individui profondamente diversi fra loro, ognuno gravato da un background drammatico per ragioni diverse, eppure sono destinati, rocambolescamente, a trovarsi, a incontrarsi, a combattere insieme.
A trasformarsi in uno degli ultimi avamposti di umanità al mondo.
Umanità intesa non solo come congerie di esseri umani vivi, vitali, fatti di carne e sangue.
Bensì umanità intesa come attitudine, come dimensione spirituale, come empatia e predisposizione a prendersi cura dell’altro.
Qualcosa di assolutamente straordinario, fragile e prezioso, in un mondo in cui la devastazione non viene perpetrata solo dai Ritornati, dai morti viventi, ma anche da quelli che io definirei i viventi morti, individui morti nella loro natura di essere umani, che hanno lasciato imputridire ogni germoglio di pietà, di solidarietà e di urbanitas, cedendo consapevolmente a lasciarsi trascinare in un viluppo di corruzione, degrado morale e aberrazioni, il tutto in nome del piacere e del profitto personale.
È il caso del Domatore e degli adepti del suo circo degli orrori, allegorie grottesche e ripugnanti della bassezza morale che qualsiasi individuo può scegliere di abbracciare, di fronte alla catastrofe.
Ed è senza dubbio una delle scelte più semplici, una di quelle che richiede uno sforzo minore e che garantisce la soddisfazione immediata delle necessità più elementari, quelle che ci discostano di poco dagli animali.
Eppure James, Lukas, Ben e gli altri scelgono diversamente.
Scelgono di combattere.
Scelgono di stringere i denti.
E non solo per salvarsi la pelle.
O per salvare quella di coloro che amano.
Ma perché intuiscono che, nell’isola sicura che si sforzano di raggiungere, la salvezza che cercano non si tradurrà solo nell’essere finalmente lontani dai Ritornati, ma anche nel mettere un’immensa distesa di acqua salata fra loro stessi e il mondo che conoscevano prima.
Un mondo di piccoli egoismi, violenze gratuite, di quotidianità grigia e cinica indifferenza.
Dovranno ricostruirlo, quel mondo, in un luogo nuovo, sulla base di nuovi principi e delle esperienze che hanno fatto lungo il loro pericoloso cammino.
Bisognerà ricominciare lasciandosi alle spalle gli errori del passato, tenendo sempre a mente che ciascuno di noi può cambiare, lavorando dolorosamente su se stesso e compiendo azioni nobili in grado di riequilibrare i piatti della bilancia su cui gravano le colpe precedenti.
Bisognerà ricostruire, senza mai perdere di vista la lezione più importante che quell’Apocalisse ha impartito loro: non esiste potere più grande, dirompente e capace di arginare qualsiasi catastrofe dell’Amore.
L’Amore inteso come cura dell’altro, come fratellanza, come solidarietà.
L’Amore che può far nascere amicizie salde e incrollabili anche in mezzo alla devastazione.
L’Amore di chi è pronto a sacrificare la propria vita per salvare quella dei suo compagni d’avventura.
E, alla fine, anche chi non ce l’ha fatta e diventa un nome inciso sulla lapide di un cenotafio, è Amore che continua a crepitare, caldo e rassicurante come un caminetto in inverno, nei ricordi di chi, invece, è sopravvissuto.
Perché “Se dai alle persone la possibilità di scegliere fra il Bene e il Male, la maggior parte sceglierà il Bene. Ma bisogna offrire loro l’opportunità di farlo.”