
“Il destino esiste, ma non è vero che vince sempre.”
Proprio così. Il destino forse è già scritto, ma non sempre in un inchiostro indelebile. Il destino pare scolpito nella roccia, ma talvolta diventa morbida argilla tra mani sapienti, capaci di plasmarlo smussandone alcuni aspetti.
E se ci fossero persone destinate a viaggiare nel tempo, a riequilibrarne le falle, a diventare ingranaggi di un complesso sistema il cui perfetto funzionamento è vitale perché si compiano altri destini?
Interessante, incredibilmente affascinante, ma spaventoso.
E Abel Navarro si trova a viverlo sulla propria pelle.
A sperimentare i ricordi e le emozioni di un altro uomo, alla cui scomparsa è indissolubilmente legata la sua nascita.
A provare dei sentimenti per una donna, che sa di aver conosciuto e amato in un altrove distante, incomprensibile, ma tremendamente presente e tangibile.
A salvare questa donna e se stesso da un sacrificio troppo grande, seppur necessario.
A scegliere di restare intrappolato in un loop incessante di eventi, la cui via d’uscita è sempre lì, a portata di mano, ma irraggiungibile.
Eppure, sembra valerne la pena.
Anzi, Abel è sicuro che ne valga la pena.
Perché quel sentimento, quello squarcio di luce che, per quanto effimera, riesce a lacerare la fitta nebbia che avvolge la sua esistenza, finisce per diventare esso stesso il suo destino.
E se viaggiare nel tempo intervenendo sui destini altrui, senza possederne uno proprio, significa libertà, rinunciare al passato e al futuro in nome di un replay infinito di un presente d’amore,significa felicità.
E, in fondo, non è ciò che cerchiamo tutti?
E non è facile spiegarlo.
Come non è semplice comprendere perché ci sia un filo sottilissimo che lega il destino di Abraham Lincoln a quello di John Fitzgerald Kennedy.
Perché nelle foto di quel maledetto 22 Novembre 1963, tra la folla in preda al panico, compaia una donna matura del tutto calma e serafica.
Quella donna misteriosa, dall’identità tuttora sconosciuta, passata alla storia come Lady Babushka, che finisce per diventare la mentore di Abel in quel viaggio sconcertante alla scoperta dei vantaggi e dei pericoli che lo status di viaggiatori nel tempo comporta.
“La storia ci chiama viaggiatori del tempo, ma noi non siamo altro che errori del sistema.”
Errori del sistema chiamati a correggere, a loro volta, altri errori del sistema.
In un viluppo intricato e affascinante, in cui la Storia assume le fattezze di un rettile gigantesco, intento a stritolare ogni nostra certezza tra le sue spire, mentre striscia, terribile e sinuoso, sulla sabbia del tempo.
E si resta incantati, di fronte al modo in cui tutto sembra avere perfettamente senso.
C’è qualcosa che, inevitabilmente, pare continuare a sfuggirci.
Eppure le analogie e le particolari connessioni fra fatti e personaggi del passato e del presente, ci spingono a credere che una vicenda come quella raccontata con tanta maestria da Simone Del Fiore, possa volerci sussurrare una qualche verità ineffabile, solleticando ipotesi, sensazioni, pensieri, che ciascuno di noi ha conosciuto nel corso della propria esistenza.
Quante volte, un déjà vu, ci ha spinti a credere di aver appena vissuto il ricordo di una vita precedente?
Quante volte abbiamo ravvisato con stupore un’inspiegabile ciclicità in determinati eventi?
L’eterno ritorno dell’uguale teorizzato da Nietzsche.
E nella mente si affastellano mille altre nozioni e reminiscenze: lo spaziotempo di Einstein, le teorie di Hawking…ebbene, sì, lo ammetto, perfino la DeLorean di Doc, in “Ritorno al Futuro”.
Forse perché, se potessi, un viaggio nel tempo lo farei anch’io.
Per ritrovare chi ero e capire meglio chi sono, per ricordare ciò che è stato e immaginare quello che verrà.
Ma “se vedi quello che gli altri non vedono, devi aspettarti che gli altri ti definiscano pazzo.”
Me lo aspetto, è già successo. Capiterà ancora.
Eppure, anche se so che viaggiare nel tempo è concretamente impossibile, mi piace sognare il contrario.
Immaginare di potermi catapultare, un giorno, in un mondo anni ’50 dai tenui colori pastello, e fare in modo che le gonne a ruota non passino mai di moda; di poter andare a trovare mio padre negli anni ’70, vederlo con indosso quel suo completo bianco dai pantaloni a zampa d’elefante, identico a quello di John Lennon sulla copertina di “Abbey Road”, e dirgli di non fumare e aver più cura di sé, per non morire prematuramente a quarantacinque anni. Di poter incontrare la me stessa bambina e dirle di non sentirsi “sbagliata” per via della sua passione smodata per i libri.
Non è possibile.
Lo so bene.
Ma forse è proprio quando ciascuno di noi si abbandona a sogni e ricordi di questo tipo che scopre di avere legato al mignolo un capo di quell’invisibile filo dell’eterno ritorno.
L’altro capo ci conduce contemporaneamente a ciò che eravamo e ciò che saremo.
E tanto di quell’intricata matassa continua a sfuggirci.
Eppure, in un angolo remoto del cuore, avvertiamo quanto essa sia preziosa.
È la nostra traccia indelebile nel gigantesco ordito della Storia.
È la nostra impronta nelle strade della Vita.
E mentre, sospinti come foglie dal vento del destino, ci chiediamo se sia davvero lui a dettare il ritmo del nostro incedere, non ci accorgiamo di quanto siano meravigliosi e speciali i volteggi e le danze con i quali scegliamo, senza rendercene conto, di assecondare il suo soffio capriccioso.