Review party ” I delitti della bella di notte” di Anthony Horowitz, Rizzoli. A cura di Alessandra Micheli

Eccomi di nuovo di fronte al foglio bianco, in cerca di ispirazione per scrivere di lui…del maledetto Horowitz.

E come per ogni suo libro, ciò che decanta dentro di me è la malinconia, quel senso di abbandono che mi prende a ogni ultima pagina.

Sapete quanto ci ho messo per girarla?

Settimane.

Troppo dolore mi procurava la conclusione di quel viaggio.

Consapevole che forse, non avrei avuto un altra avventura con Pund.

E Susan.

E persino l’inquietante albergo dei Treherne.

Quel Suffolk che è solo una seria di descrizioni, ma che grazie alla sua bravura sembra di vedere.

Eh si.

Quel libro è un po come quelli descritti da Cornelia Funke; è un mondo d’inchiostro che apre un varco e ti trasporta altrove, non certo in scenari da favola.

Ma in piccoli sobborghi, villaggi microscopici e una storia dentro la storia capace di mostrarti con impietoso sarcasmo quello che è l’uomo.

Un essere bizzarro capace di grandezza e al tempo stesso fatalmente attratto dall’abisso.

Del resto, solo una sorta di legame con il mondo dell’altrove, dove i semi della bellezza possono essere trasportati nella realtà possono dare vita a simili capolavori.

E allora cosa scrivo?

Stavolta non lo so mio caro lettore.

Un ennesimo atto d’amore per questo talento?

O cercare le parole giuste, degne per raccontare e raccontarvi cosa ha di straordinario questo testo?

Posso provarci.

Ma non assicuro nulla.

Innanzitutto Horowitz usa uno stile particolare.

Capitoli brevi, secchi eppure capaci di immortalare l’attimo, l’evento e persino fotografare un emozione.

Che è il pathos e quel senso del male che invade i sensi quando l’istinto sa di trovarsi di fronte al pericolo.

Al precipizio.

E sa che un alito di vento, sempre più forte e sempre più violento può spingerti nel fondo buio.

E questo accade in ogni suo libro e persino in questo.

Non sono altro che fotogrammi di un orrore quotidiano, di segreti, di follia, di pazzia e di ingiustizia che animano anche il mondo più idilliaco, posti da cartolina usati dalla nostra immaginazione come blandi rifugi.

Convinti, o illusi è meglio questa definizione, che il buio sarà sempre sconfitto dalla luce.

Non è cosi.

E la nostra dimensione troppo umana ce lo mostra.

L’ingiustizia dove sembra regnare la serenità.

L’ossessione dove pare dominare l’equilibrio.

E il pregiudizio razzista, laddove ogni anfratto sembra urlare orgoglioso il suo mantra di adesione alla civiltà.

Ma di civile, a ben vedere, Horowitz non inserisce nulla.

Racconta semplicemente di noi, delle imperfezioni a tratti comiche a tratti disperate che ben conosciamo e che tentiamo, invano di ignorare.

Persino
Susa, la sua eroina, alter ego della razionalità perfetta di Pund non è cosi immacolata.

Preda di frustrazioni, apaticamente sottomessa al fato.

Forse incapace, come siamo noi di apprezzare fino in fondo cosa ha conquistato. Vivendolo come una sorta di condanna, persino in quella meravigliosa isola di Creta che subisce come una punizione.

Susan è quello spirito perennemente alla ricerca di qualcosa per cui vivere, che sia una verità perduta o un ossessione da assecondare, solo per sentirsi viva.

Un po’ come il vecchio Bandolero della canzone di Vecchioni, alla ricerca di una chimera o di un ideale, per poter immagine sempre tramonti diversi, di calcolati obli e di struggenti addii capaci di farlo sussultare quel cuore addormentato da troppo cercare.

E cosi Susan, come Pund ha bisogno di una scossa per poter iniziare a aspirare non solo la risoluzione del mistero, del delitto, ma anche un po’ se stesso.

In ogni ragionamento acuto e logico ritrova un piccolo pezzo di se.

E quando arriva alla conclusione finale, lo può fare perché è tornato integro, riportando il dolore della partita, la mancanza e l’insofferenza in quel perfetto mosaico chiamato anima.

E forse il contatto con il male, con i vizi e poche virtù è una sorta di percorso catartico per tornare a far pace con le proprie di imperfezioni.

Fastidiosa, mai del tutto accettate ma per fortuna in grado di non uscire fuori dai confini netti della socialità.

Come dire, siamo sempre un po’ miglior a confronto del peggio che può uscire da un uomo, da una donna o da un..fanatico.,

Questa sensazione di ricerca diviene ingigantita da un altra tecnica del nostro autore, capace di rendere un libro sempre più concreto, grazie al miscuglio perfetto, tra finzione, immaginazione e realtà.

Dove finisce una e inizia ,l’altra non possiamo più saperlo.

Horowitz si confonde con Susan e con Atticus.

L’autore diviene il protagonista e il protagonista autore.

E come nel precedente libro, il velo che ci separa dal protagonista percepito come finzione, si sfuma, fino a che Susan fluisce in noi fino a confondersi con il nostro volto.

E tutto con una semplicità assoluta..

Basta inserire nel libro un altro libro, per creare quel contrasto in grado di farci dubitare di ogni certezza e persino della nostra,..esistenza.

Il sogno nel sogno.

Siamo anche noi un personaggio?

Siamo anche noi nati dalla perfetta penna di Horowitz?

Ecco che l’autore diviene davvero, e sottolineo davvero il demiurgo.

E nell’incastrare le vicende, rendendole fondamentalmente inscindibili, riesce a trasportaci altrove, quell’altrove di cui parlavo prima fatto di indizi riguardanti il nostro di mondo.

E cosi via, come in una sorta di giostra frenetica, mentre il serpente uruboros di nuovo riesce a mordersi la coda.

E in questo giro di carosello, su cui volenti o nolenti siamo costretti a salire, resta un retrogusto amaro: le scene sono impietose, sarcastiche, affilate e distruttive. Perché ci mettono di fronte con l’oscurità da troppo tempo rinnegata e annegata in troppi buonismi.

Conway/Horowitz portano a galla ogni lato non bello dell’essere umano.

E a noi non resta che affrontarlo e danzare, come burattini inconsapevoli, partecipi di quel gran ballo fatto dal nostro amato mangia fuoco

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