
La poesia è una di quelle rare forme espressive che può parlare di tutto, alla forza del linguaggio si uniscono l’evocazione, il sentimento, l’intensità delle emozioni.
Le più belle poesie parlano di orizzonti infiniti, di amore, di essenza, di natura e anche di guerra.
Sì, la poesia, il codice della bellezza, forse è l’unica candidata a poter parlare con autenticità di conflitto e morte.
Perché il verso entro nel vivo, non sa mentire, è pura espressione.
Struggenti restano gli scarni versi di Ungaretti che ci raccontano la Prima Guerra Mondiale: ci restituiscono immagini chiare e precise di violenza, disperazione e depredazione, perché ogni forma di violenza ruba equilibrio e vitalità al singolo così come alla comunità.
Sarà forse il periodo storico, che quell’orrore descritto dal poeta lo ritroviamo nei testimoni odierni della guerra, che TREDICI GIORNI AL RIFUGIO mi colpisce come un pugno allo stomaco.
Questo poemetto, racconta un episodio accaduto durante il secondo conflitto mondiale, in una località tra Livorno e Castelvecchio, gli sfollati costruiscono un rifugio dove ripararsi in attesa dell’avanzata degli anglo – americani.
La narrazione è fatta di versi liberi di varia lunghezza dove al racconto si alternano immagini di rara potenza: le persone, i loro dolori e soprattutto la paura prendono forma.
Tra tante sensazioni quella che emerge forte è l’apprensione verso un futuro ignoto e pieno di incognite, gli unici sguardi limpidi restano quelli dei bambini, testimonianza viva di fiducia.
il ritorno al rifugio
se dobbiamo morire
moriremo al rifugio
dai campi incolti
vigne uliveti
i miei figli mia moglie
mia nonna – emilia –
e famiglie
l’avevano pensata come noi
noi uomini – tordi
dai turni di guardia
per difenderci
da attacchi
nascosti tra i cespugli
attigui come insetti
armati muti
di bombe a mano
da fucile modello 91
le donne sistemarono
poche vettovaglie
sedie
panche carrozzine
per farvi dormire
i bambini e la magnolia
sembrava spingersi in cielo
con un aereo
da ricognizione da noi
chiamato – la cicogna –
volteggiava
malinconicamente
sulle nostre teste
Scorro i versi e leggo di momenti di vita sospesa dove la morte irrompe con violenza, così come i disagi, la fame e l’epidemia dei pidocchi, in realtà non si vive… si resiste.
Resistenza.
Ecco la parola che ci fa tremare, venire le lacrime agli occhi perché i racconti dei nonni e dei testimoni che la Storia ha conservato, li abbiamo conosciuti e oggi li riconosciamo.
Tutto per la libertà.
viva la libertà
in festa
abbandoniamo il rifugio
lungo le strade
ad accogliere con gioia soldati
che ci avevano liberati
con loro nella piazza
del paese
oltre gli abitanti in festa
partigiani che avevano
operato contro i tedeschi.
Ora il rifugio è ancora là
e vi rimarrà per sempre
a testimoniare ai posteri
che lì soffrirono
e sperarono nella pace
e nella libertà gli abitanti
di castelvecchio
Il rifugio da luogo si trasforma in simbolo di speranza, pace e libertà.
Esso diventa ricordo e monito a non dimenticare, dimostrazione di speranza in una umanità scissa tra bene e male, tra pace e guerra.
Si va avanti e si torna indietro in un percorso senza tregua, la storia ci dimostra impietosa che sa ripetersi e allora ripenso al rifugio, ad una collettività che non si arrende, alla vita che va avanti… nonostante tutto.